Presentiamo qui gli articoli che compongono il Quaderno di EuroNomade dedicato al Contropotere. Il Quaderno può essere scaricato cliccando qui o sull’immagine di copertina in calce.
Di BENEDETTO VECCHI, DANIELE GAMBETTA e CLARA MOGNO
Che cos’è il contropotere? E che cosa significa fare e organizzare contropotere nella rete, all’altezza della rivoluzione digitale? Per rispondere a queste domande conviene forse sciogliere il lemma e verificare che cosa s’intende con potere nella tradizione filosofico-politica moderna. È forse immergendosi nella concettualità e nella sua logica, aprendo le alternative della modernità, che si possono costruire strumenti per inventare linee di costruzioni future.
Lo Stato moderno si fonda sul meccanismo di delega, sulla rappresentanza, e sulla formalità astratta del soggetto. Nella modernità, lo si vede in Hobbes come in Rousseau, la logica del potere si sviluppa attorno alla figura del patto e ad un Uno che si da su più livelli: uno lo Stato, una la singolarità individuata nell’individuo, una la società. La concettualità alla base della statualità moderna individualizza le soggettività, intessendo legami sociali a partire da unità non riconosciute nel loro essere già molteplici. Riconoscere la relazionalità intrinseca delle soggettività significa, di contro, scardinare alla base la struttura logica e pratica della politica statale. Contro-potere quindi potrebbe essere questo: un attacco al potere moderno e alla sovranità, all’individualità e, allo stesso tempo, la creazione di istituzioni e organizzazioni in grado di deporre la figura del padre e la proprietà.
Liberarsi dalla sovranità permette l’esplorazione della dimensione transnazionale: in questo senso, l’oltre la nazione si formula sia da un punto di vista concettuale sia da un punto di vista pratico e politico, per la creazione di dispositivi concettuali e di alleanze relazionali (riconoscendone il loro già essere in atto). In questa direzione, come leggere la rete? Quali sono le connessioni relazionali che si stabiliscono nelle piattaforme e nei social network? Che cos’è un user? È quest’ultimo un soggetto moderno o il peso del nodo delle sue relazioni? Quali sono le potenzialità che il digitale offre nel ripensamento della soggettività, nella costruzione di contropotere e nella produzione di un altro modo di vita?
Rete e opinione pubblica – conflitto e consenso
Di BENEDETTO VECCHI
Il contropotere è, nella prospettiva dei movimenti sociali, un esito non scontato, molte le insidie che s’incontrano nel camminare insieme. Nel passato prossimo della loro storia, i movimenti sociali hanno infatti stabilito che, una volta appurato che il cammino non poteva che essere collettivo, era opportuno porsi domande nel proseguo del percorso. “Camminare domandando”, recitava quindi il mantra fuoriuscito da Selva Lacondona nel Chiapas agli inizi degli anni Novanta del Novecento per segnalare che i movimenti sociali devono produrre, oltre che una visione condivisa sul futuro possibile e dunque auspicabile, consenso attorno ai loro conflitti del presente. Devono cioè produrre opinione pubblica.
C’è nell’espressione opinione pubblica una prospettiva inedita nel lessico politico della modernità. Per la prima volta, agli albori dell’illuminismo, si staglia sulla scena pubblica una presenza impensabile e imbarazzante per i gestori del potere. Il sovrano non deve vedersela solo con la corte e le tensioni e i conflitti immanenti alle dinamiche nel sistema di potere. Il capitalismo commerciale, il progressivo inaridimento della funzione progressiva del lavoro artigianale, il diffondersi della produzione editoriale di libri e dell’uso dei dispacci – veri antesignani dei giornali – che informavano sull’andamento dei commerci e di ciò che accadeva al di fuori dell’universo circoscritto del mercato locale e del paese, fanno emergere la presenza di un aggregato sociale e culturale fino ad allora non contemplato. Lo si può chiamare borghesia, oppure terzo stato, ma sta di fatto che questa classe sociale che non si muove come tale ma solo come formazione culturale generica, ma l’opinione pubblica si colloca in una terra di nessuno dove le classi sociali non sono contemplate come tali, dove il sovrano continua ad esercitare il potere anche se sottoposto non al controllo ma allo sguardo pubblico di chi legge, si informa, comunica con i simili sull’andamento degli affari correnti dello Stato. L’opinione pubblica, in altri termini, si muove al confine tra lo Stato e gli affari privati. Ma in nome della rilevanza degli affari privati rivendica il diritto di potere valutare l’efficace e la pertinenza delle azioni del Sovrano. Non prevede, la presenza di una opinione pubblica, l’invasione di campo della politica, cioè del funzionamento della macchina statale e dei rapporti sociali, ma solo l’esercizio del diritto di guardare l’operato del Sovrano.
L’opinione pubblica agisce cioè uno spettatore attento di quanto accade in quella che ormai viene ormai considerata una scena appunto pubblica. Dovrà accadere l’assalto alla Bastiglia, il lento agglutinarsi, dopo la sua dissoluzione, dell’opinione pubblica in circoli, gruppi organizzati affinché l’opinione pubblica rompa l’incantesimo che nega l’agire politico e possano i vari gruppi e circoli diventare punti di vista partigiani, divisivi, inventare i lessici politici attinenti la vita delle classi sociali. E solo allora l’indeterminatezza tra vita corrente – gli affari privati – e gli affari dello Stato cessa di essere. Ma siamo appunto agli inizi della modernità capitalistica. L’opinione pubblica può mantenere tutte le ambivalenze che le sono proprie. Sta di fatto che una di queste ambivalenze – esercitare la critica del sovrano senza però prefigurare agire politico – torna come una costante, una ripetizione cioè senza differenza rispetto al passato. Un’ambivalenza che si trasforma in limite allo sviluppo dei movimenti sociali e in blocco della coppia consenso e conflitto che pure i contemporanei movimenti sociali hanno, correttamente, individuato come una scommessa politica da giocare senza remore alcune per innovare le forme dell’azione politica e come orizzonte ineludibile di un contropotere niente affatto effimero.
Ma è su questo crinale dell’innovazione organizzativa che c’è la prima insidia da affrontare. Incardinare infatti il consenso alla sola opinione pubblica significa negare ogni possibilità di contropotere, cioè di quell’esercizio di una potenza sociale e politica che può determinare non solo un mutamento dei rapporti di forza nella realtà ma anche la formazione di un immaginario che rende meno effimera la manifestazione dell’opinione pubblica lasciata orfana di ogni ordine del discorso sull’operato del sovrano, del potere che esercita sulla vita di uomini e donne e della costellazione sociale e di classe che definisce e legittima. Il tema dell’opinione pubblica è dunque un cortocircuito, un black out nell’azione politica di costruzione del contropotere se il consenso è ritenuto scisso, separato dal conflitto operato nella società.
Di questo rischio è stata costellata l’azione di molti movimenti che hanno punteggiato la storia perigliosa del neoliberismo globale. Gli zapatisti avevano certo colto nel segno, segnalando la necessità di coniugare conflitto e consenso, ma non potevano certo mettere in conto che uno dei termini del discorso occultasse il secondo, evidenziando ciò che era noto sin dal pionieristico studio sull’opinione pubblica di un giornalista statunitense con un passato radical alle spalle prima di approdare a pacificate e conservatrici spiagge. Walter Lippman scrive il suo testo sull’Opinione pubblica (Edizioni comunità, recentemente ripubblicato da Donzelli) agli inizi degli anni Venti del Novecento, convinto che i media svolgano un ruolo sofisticamente manipolativo nella costruzione di un consenso cieco e stupido nei confronti del potere. Lungi dal credere che radio, giornali e cinematografo costituiscano un potere di controllo non statale rispetto a quelli canonici del legislativo, esecutivo e giuridico, vede nella produzione dell’opinione pubblica un dispositivo di prevenzione nella formazione di istanze politiche altre e conflittuali rispetto a quelle dominanti – lo scrive in una prospettiva conservatrice, cioè moralistica del nesso politica, movimenti sociali. La prima è essenzialmente manipolazione, i movimenti sociali sono variabili dipendenti, una plastilina facilmente manipolabile dai media. Non c’è possibilità altra. Con buona pace di chi vede nei media un contropotere, meglio l’ambito dove esercitare un contropotere.
Lippman scrive molto nella sua vita. Vince anche prestigiosi premi letterari e giornalistici, a partire dalle prime edizioni del Pulitzer. È ritenuto cioè uno dei grandi pilastri nonché un grande vecchio del giornalismo investigativo e controcorrente americano. Ha dalla sua l’aura dell’analista spregiudicato, anticonformista con un passato radical alle spalle ma ormai disincanto e refrattario al canto delle sirene della rivoluzione o del populismo made in Usa. Il suo focus sull’opinione pubblica mette al centro i meccanismi di manipolazione messi in campo dal sistema politico con la inconsapevole e talvolta pavida complicità degli intellettuali pubblici. La sua è una critica romantica, con forti tratti reazioni della democrazia di massa a stelle e strisce. Non può certo immaginare che passerà la staffetta dell’analisi, quasi quarant’anni dopo, a un filosofo tedesco, Jürgen Habermas, anch’egli in odore di radicalismo. Allievo della Scuola di Francoforte, è ritenuto – siamo alla fine degli anni Cinquanta – l’erede di Theodor W. Adorno ed è considerato, a ragione, uno degli analisti più accreditati nella Storia dell’opinione pubblica (Laterza) per la sua capacità di stabilire linee di evoluzione e di definizione dell’opinione pubblica non solo in presenza dei media, ma anche di altre organizzazioni preposte alla sua formazione: i partiti, i sindacati, le “associazioni degli interessi”, le istituzione del welfare state. Per Habermas, l’opinione pubblica viene prodotta all’interno di una dinamica di negoziazione e di agire comunicativo dove la posta in gioco è appunto la definizione di un ambito dove ogni diversità sia accolta in un quadro di compatibilità definita come un apriori invalicabile. Da questo punto di vista il conflitto, che il filosofo tedesco contempla come elemento dinamico, a differenza del suo rigetto da parte di Lippman, è propedeutico alla stabilità del sistema politico perché ambito non di costruzione dell’azione politica ma di una sua riduzione a opinione. Habermas fa dunque sua, non si sa quanto inconsapevolmente, la griglia analitica che vede la successione democrazia/oligarchia non come possibilità ma come esito obbligato nella costruzione del consenso: c’è opinione pubblica perché opera il potere di una oligarchia sulla società. Non è un caso che Habermas vede la storia dell’opinione pubblica proprio come la successione di gruppi sociali, politici, sindacali che parassitariamente crescono all’ombra di un potere che può certo essere interrogato, ma non pienamente controllato.
Questa impossibilità di immaginare la formazione dell’opinione pubblica come l’ambito di un contropotere è tanto più evidente in una situazione di mass media capillari e pervasivi. Radio, Tv, giornali, cinema, industria culturale e dell’intrattenimento sono solo dispositivi preposti alla negoziazione degli ambiti di movimento e degli interessi economici e sociali delle classi sociali. Sono cioè antitetici alla costruzione di iniziativa politica. Va stabilito se questo vale in presenza anche della Rete, cioè di un’infrastruttura comunicativa che risponde a una logica certo non prevista né da Lippman né da Habermas. I media, così come la produzione di senso e di immaginario, aveva poche fonti, spesso limitati siti produttivi e una diffusione da “uno ai molti”. L’opinione pubblica, cioè, era veicolata, formata, prodotta come ogni altra merce nel mercato di massa. Da qui l’impossibilità di immaginare i media come l’ambito del contropotere. Di questa impossibilità i movimenti sociali hanno fatto esperienza. Di questa impossibilità hanno fatto però poco tesoro. Hanno spesso inseguito il sogno di un consenso costruito con il crescere delle manifestazioni di pazza, dell’eco sui media del punto di vista espresso da questa o quella figura di rilievo. Gli intellettuali pubblici tanto cari a Michel Foucault e messi in stridente contrasto con quelli organici alla classe e al partito sono diventati le chiavi di accesso ai misteri del consenso, sono cioè diventati i depositari del potere comunicativo dei movimenti sociali. Che errore prospettico, che gabbia dell’immaginazione e dell’azione politica era costruita sulle difficoltà di scardinare l’ordine costituito. Con il world wide web si intravide la possibilità di rompere la gabbia di una diffusione dell’informazione e della conoscenza dall’uno ai molti, sostituendola con il flusso cangiante e libero dei “molti ai molti”. Ogni uomo e donna diventa fonte e ricevente di informazione, diventava cioè un opinion maker che rispondeva solo a un pubblico indistinto perché non sottoposto a nessun controllo o “padrone”. Per questo, Internet è stata salutata come l’ormai compiuto ambito dove la produzione di informazione e di immaginario era possibile in quanto espressione di un contropotere esercitato non dai movimenti sociali ma di una opinione pubblica finalmente adeguatamente informata e non dipendente da nessun potere economico più o meno occultato.
C’è molto da indagare, c’è molta ingenuità nel ritenere che i flussi di informazione sfuggano a quella dimensione che è il potere reale nella società. Internet ha certo l’eccezionalità della comunicazione dei “molti ai molti” dove l’interattività, il continuo feed back dell’agire comunicativo costituiscono una sorta di seconda natura dello stare in società, ma questo non si apre, come già intuito da Lippman per quanto riguardava i media novecenteschi, all’azione politica radicale bensì a sofisticati meccanismi di manipolazione e colonizzazione della vita pubblica da parte del potere costituito. Quel che è certo è che anche in Rete il contropotere è un esito incerto, così come la combinazione adeguata tra conflitto e consenso.
Rimane sempre di sciogliere il nodo del rapporto tra produzione di opinione pubblica e azione politica. La prima espressione nega la possibilità di politica. Assegna agli uomini e alle donne il rassicurante ruolo di spettatore di una scena pubblica che si dispiega e si sviluppa secondo un copione definito da altri. Costruire cioè consenso senza conflitto e senza immaginare la costituzione di organizzazioni adeguate al conseguimento di obiettivi, programmi, obiettivi stabiliti dal “produrre movimento” in comune significa accettare quella condizione colonizzata dallo stato o dalle imprese dello stare in società.
Abbiamo iniziato a discutere con Benedetto di questo pezzo lo scorso autunno e ci eravamo divisi i compiti. Lui si sarebbe concentrato sulla prima parte della scaletta, sul nodo “opinione e rete”, noi ci saremmo concentrati sulla seconda parte, sugli esperimenti di organizzazione attraverso il web e le piattaforme. Insieme saremo poi tornati sulle domande iniziali, sulla definizione di contropotere e sulle specificità delle possibili declinazioni attraverso il digitale. Benedetto ci aveva inviato il suo pezzo già a metà dicembre, noi, invece, eravamo in ritardo. Ben è scomparso, sono passati i mesi ed è scoppiata la pandemia del Covid19. Riprendendo i lavori ci siamo accorti di quanto il testo di Benedetto sia più che mai attuale, anche in questa crisi dai contorni globali. E abbiamo provato a continuare a “camminare domandando”.
Contropoteri in rete: piattaforme e territori da conquistare
Di DANIELE GAMBETTA e CLARA MOGNO
I Gilets jaunes hanno cominciato ad infiammare i rond-points e i boulevards francesi a partire da un post su Facebook e, passo dopo passo, si è passati da un’espressione di opinione pubblica a una serie di prese di posizione politica e di azioni collettive – la passività della prima ha lasciato il posto all’attività del politico. A Hong Kong il movimento si è organizzato principalmente attraverso Telegram – e allo stesso tempo Donald Trump e Javad Zarif comunicano attraverso Twitter prima di passare attraverso i canali tradizionali e ufficiali. La politica, il consenso e i conflitti assumono attraverso i social media e la rete forme inedite, interrogando chi li osserva attraverso tensioni e paradossi. “Camminare domandando” forse significa provare a cogliere da vicino queste trasformazioni, senza smettere di provare a coglierne limiti, tendenze e anche le possibilità dell’attuale. La rete e le piattaforme ci sembrano offrire una possibilità: rappresentano su uno schermo e riproducono digitalmente la molteplicità delle relazioni e delle connessioni che ci costituiscono come soggetti. Questo si dà certo in una dialettica e in una tensione con una certa idea di individuo, ma il campo è aperto forse anche per un’altra idea di singolarità, proprio a partire dalla rete. Il contropotere nella rete è un esito incerto – but it’s worth a go. Sull’opinione pubblica le indicazioni di Benedetto Vecchi sono preziose. Ora, come disarticolare gli schemi che sorreggono quest’ultima per passare all’azione politica?
Negli ultimi vent’anni si sono dati moltissimi modi di stare in rete collettivamente, più o meno diffusi, più o meno mainstream. Pensiamo per esempio all’esplosione dei forum online nei primi anni Duemila, inedito strumento di aggregazione e di organizzazione, ma anche alle mailing list, ai blog e alle prime chat. A partire poi da myspace hanno cominciato a nascere i profili di singoli utenti, pagine personali e contemporaneamente si è sviluppato Msn, forse il primo sistema di comunicazione digitale di massa insieme a Skype. WhatsApp, Telegram e Zoom, invece, quelli maggiormente utilizzati ora. Abbiamo attraversato, come generazione nata alla fine degli anni ‘80, una trasformazione velocissima sia degli hardware sia dei software, un’evoluzione che ancora continua con processori sempre più piccoli e strumenti sempre più potenti.
È con Facebook, lanciato nel 2004, che si afferma un template e un formato specifico che determina la tendenza e la struttura dei social network come li conosciamo oggi. Pinterest, Instagram, Twitter si presentano, anche nelle loro versioni decentralizzate (pensiamo per esempio a Diaspora per Facebook, ma anche a Pixelfed) come la ripetizione dell’identico nella forma di interfacce con elementi e strutture grafiche simili, se non addirittura uguali. Nessuna re-invenzione del formato quindi, ma una continua riproduzione dell’identico e molteplici proliferazioni di template non solo nelle applicazioni di una stessa compagnia (come Instagram, Whatsapp e Facebook) ma anche in piattaforme di altri gruppi con diverse funzioni, ma con la stessa: in Netflix, per esempio, ora le “anteprime” dei film e delle serie vengono visualizzati come delle stories.
È forse necessario provare a riflettere circa gli effetti che hanno le strutture dei social network che utilizziamo. Ci troviamo davanti solamente alla possibilità dell’espressione del narcisismo individuale che produce immagini esaltanti di sé in rete? O assistiamo anche alla visualizzazione in pixel della relazione come elemento fondante dei soggetti? E poi, quanto la forma dell’evento facebook influisce e ha influito sulla temporalità dell’azione politica negli ultimi dieci anni? Che cosa stiamo facendo quando “pubblichiamo” uno status su Facebook? Ha senso un esodo verso luoghi virtuali come Mastodon, una ricerca di un “fuori” (che non pensiamo ci sia) o nell’ottica di un’uscita dalla dimensione dell’opinione pubblica può essere invece strategico rimanere nelle piattaforme più utilizzate? E soprattutto, quali sono gli obiettivi che ci poniamo in questo momento da un punto di vista politico attraversando la rete? Come ripensare dei formati che siano all’altezza dei nostri fini e che ci permettano di creare contropoteri attraverso la rete, sempre più privatizzata? Come rispondere all’estrattivismo dei data prodotti in comune?
Sicuramente, e lo abbiamo sperimentato anche negli ultimi mesi, la rete è più che mai essenziale per tessere relazioni e costruire progetti, campagne di mutualismo e solidarietà, per progettare azioni politiche, siano queste online e offline. Negli ultimi due anni abbiamo visto come i Gilets jaunes si siano dotati di un sito e abbiano contrapposto al Grand Debat un “vrai debat” , a Hong Kong, fronte alla chiusura di internet, i manifestanti abbiano cominciato ad utilizzare il Bluetooth per chiamare la popolazione nelle strade e per decidere sul momento quale strategia utilizzare nelle piazze[1], a Barcellona attraverso l’app Tsunami D si sia utilizzata la geolocalizzazione per capire chi poteva mobilitarsi nelle vicinanze, come Decidim abbia posto il tema della decisione in comune. “Camminare domandando”: noi, ora, di che cosa abbiamo bisogno per determinare un passaggio dal network alla rete sociale e di movimento, per ri-appropriarci di spazi di agibilità politica, uscendo dall’impasse che la stessa concettualità dell’opinione pubblica imprime all’espressione in rete? I Gilets jaunes sono riusciti a riappropriarsi del tempo ritrovandosi tutti i sabati in una serie di atti, una serie capace di essere al di fuori della fugacità dell’evento in cui Facebook segna sempre di più la determinazione spazio-temporale. Come riuscire a riappropriarci anche noi della continuità frammentata dell’azione politica?
In questi giorni di quarantena prendere parola sulle cose è stato estremamente difficile. Il virus ha comportato e conseguenze in ogni ambito sociale ed economico. La scuola, gli affetti, il lavoro, le relazioni sociali, la casa. In questo contesto il mezzo Rete ha svolto un ruolo chiaramente cruciale. Dal punto di vista dei movimenti, ci è sembrato chiaro a tutte/i fin dall’inizio che una grande difficoltà nell’immaginare la militanza era rappresentato dall’isolamento imposto e auto-imposto, e ancora di più nell’isolamento come forma di cura e tutela verso noi stesse/i. Una politica fondata sulla condivisione, sull’aggregazione, sulla socialità, si è trovata davanti a una situazione del tutto inedita. Aggregazione che, inevitabilmente, ha avuto riproduzione su canali virtuali, dalle assemblee alle conversazioni private[2].
Zoom è passato da essere una piattaforma relativamente poco conosciuta ad avere più di 300 milioni di utenti, sollevando critiche sull’inadeguatezza di saper gestire una crescita così rapida dal punto di vista della privacy. Il mezzo, tuttavia, non è mai neutrale. Così come non si può pensare di sostituire la didattica scolastica con una lezione su schermo, così è urgente interrogarsi su cosa si può e non si può, e su come si può fare per organizzarsi “in Rete”. Già dalle prime settimane della quarantena hanno circolato analisi e articoli sulla nausea da schermo, sui disturbi dell’attenzione correlati all’uso smodato di dispositivi elettronici, oltre che ai problemi legati a un’iperconnettività che rischia di trasformare la favola dello smart working in una costante reperibilità cronofaga[3].
Capire che fare della Rete, allora, potrebbe diventare cruciale nei prossimi mesi, in modi che dipendono chiaramente dalle forme di mobilità concesse, continuando a domandarci come articolare il passaggio da opinione pubblica ad azione politica per il comune, uscendo dalle bolle informazionali che ci avvolgono. C’è poi un’altra questione, che da molte discussioni pare emergere, che è proprio il come fare politica in fase emergenziale. Se da un lato abbiamo necessità di fare analisi, decostruire le interpretazioni tossiche sempre più radicate in un senso comune sempre più a destra, le mancanze dimostrate dai servizi e dal welfare spingono sempre più verso una ri-organizzazione anche del mutualismo e della solidarietà attiva.
Come attuare allora un contropotere, in fase emergenziale? Pensiamo al caso del digital divide. Parlarne e analizzare il problema è fondamentale per far emergere la situazione di tante persone, e per smascherare il classismo nascosto nell’ipotesi dello “smart per tutti”. É chiaro che l’accesso non basta, non si tratta di rincorrere la digitalizzazione a tutti i costi, si tratta di contestualizzare sempre e costantemente, di inventare forme di autoformazione digitale, sensibilizzare sui temi della privacy, dell’uso consapevole di tecnologie anche in merito all’attenzione alla nostra salute mentale – e, allo stesso tempo, è necessario garantire che un accesso vi sia e che non si un privilegio. Questa pandemia ci ha fatto vedere quanto sia importante avere una connessione internet, uno smartphone e competenze digitali minime – l’accesso alla rete, ai dispositivi e al saperli usare – punti, questi, che forse dovranno far parte della prossima agenda politica militante. Se il mancato accesso alla rete amplifica le fratture delle disuguaglianze, il semplice averne accesso certo non le cancella – ci permette però di organizzarci. C’è sicuramente una tendenza a considerare la tecnologia come soluzione, lo vediamo nel caso della scuola ma anche per quanto riguarda le app di tracking e tracing[4], che mette in luce anche un’interpretazione individualizzata della gestione sanitaria di una società malata. La rete è terreno di conquista, il suo uso ed il suo accesso una contesa politica che dobbiamo attraversare.
Per essere politico, di contropotere, un discorso sulla Rete deve considerare più che mai il contatto con il fuori-del-virtuale, interrogandosi ad esempio con le situazioni di mutualismo su quali strumenti possono essere utili, immaginando mappature o forme di comunicazione a supporto delle comunità, provando a immaginare una militanza dell’emergenza capace di intersecare la strada e la rete, il virtuale e il reale, fuori dalla depressione dell’isolamento ma riconoscendo la distanza come forma di cura reciproca[5]. Una sfida, questa, che è necessario affrontare con immaginazione e con la voglia di costruire mondi per tutte/i, continuando a “camminare domandando”.
Note:
[1] https://www.euronomade.info/?p=12401
[3] https://not.neroeditions.com/selfie-dalla-quarantena/
[4] http://effimera.org/covid-19-e-human-tracking-di-giorgio-griziotti-1/
[5] https://data-activism.net/blog-covid-19-from-the-margins/