Di MARCO BASCETTA
Anche dalle campagne elettorali, queste fiere di bugie e travestimenti, maschere e solenni banalità, può capitare di apprendere qualcosa di utile, perfino a volte qualche criterio di orientamento.
Magari a partire da un tema come quello del reddito di cittadinanza che da sempre alimenta radicali contrapposizioni e roboanti dichiarazioni di principio. Il leader dei pentastellati lo ha recentemente definito una decisiva «misura epocale» da difendere ad ogni costo. Non si può certo dire che lo sia nella forma moralistica e coercitiva, per non dire poliziesca, della legge imposta dal Movimento 5 stelle, né nella sua ormai consolidata presenza come ammortizzatore sociale in numerosi paesi europei.
Ma lo è invece nel senso che chi oggi vi si contrappone in nome dell’ideologia del lavoro più che della sua realtà si colloca fuori dalla nostra epoca. La quale è ormai profondamente segnata, non ci sarebbe neanche bisogno di ripeterlo, da una produzione di valore indipendente dal lavoro e, più in generale, dalla stessa produzione materiale.
Limitandoci a un’ottica puramente redistributiva potremmo considerare il reddito di base come il lato proletario della rendita finanziaria, guadagno che si può notoriamente conseguire sdraiati sul proverbiale divano. Senza peraltro sottoporsi a umilianti controlli e obblighi di «utilità sociale» essendo nel nostro paese i doveri sociali della ricchezza privata una delle tante chiacchiere a sfondo costituzionale. Lo scarto tra lavoro e reddito rispecchia quello tra economia reale e accumulazione finanziaria e ne è pienamente legittimato. Vi è forse qualcuno tra i fieri fustigatori del reddito di base che ha qualcosa da ridire su una ricchezza che cresce con la disoccupazione e moltiplica enormemente le diseguaglianze?
Inoltre l’avversione per il reddito di cittadinanza accomuna l’ortodossia ideologica socialista (che però si oppone alla rendita finanziaria) ai suoi rottamatori liberisti (che la osannano), senza escludere molti entusiasti difensori della Costituzione e del suo articolo primo (che la ignorano), nonché le destre tradizionali e quelle più o meno postmoderne (che la servono). Ne risulta una mappa ben diversa da quelle correnti del campo di forze che lavora a riprodurre le condizioni di ricattabilità (o di lodevole frugalità a seconda della matrice ideologica) delle classi subalterne.
Ma converrà aggiungere che non si tratta solo di ideologia. Pur nei suoi orizzonti ristretti e bigotti che hanno fatto del reddito di cittadinanza poco più che un sussidio di disoccupazione agevolato, la misura introdotta dal governo Conte ha comunque sottratto terreno al mercato del lavoro più malpagato e privo di garanzie, più esposto a ogni forma di arbitrio e vessazione.
La miserabile lamentazione degli imprenditori-padroni che non trovano più mano d’opera poiché il reddito di cittadinanza verrebbe preferito al lavoro che offrono testimonia soprattutto delle paghe da fame e delle condizioni disagevoli attraverso le quali garantivano e vorrebbero continuare a garantire i propri profitti. Che nel nostro paese si sono sempre fondati più che sull’innovazione sui bassi salari e che, vedi il caso dei voli low cost, si tenta di scaricare sui consumatori, imputando al loro vantaggio e non al mantenimento dei livelli di profitto, lo sfruttamento estremo dei lavoratori.
Nella fase che verosimilmente ci aspetta, inflazione e stagnazione, recessione probabilmente, il tema del reddito è destinato a riprendere vigore confluendo in una semplice ricorrente domanda: su quali spalle e in quali proporzioni ricadranno i costi della crisi? L’atteggiamento nei confronti del reddito di cittadinanza diventa così un buon indicatore, non l’unico certamente, della risposta che le forze politiche in campo, al di là delle mirabolanti promesse elettorali e del richiamo alla coesione nazionale, daranno in concreto a questa domanda. Quel che si vede, a partire dal ridicolo piano di risparmio energetico in stile «ricette della nonna» proposto agli italiani, non lascia presagire proprio nulla di buono.
E infatti nei sondaggi, per quel che valgono, a crescere sembra essere soprattutto l’area dell’astensione. Che non è affatto quel giacimento inerte dal quale i partiti sperano di estrarre qualche voto a proprio vantaggio. In molti casi, forse i più numerosi, si tratta di un rispettabile punto di vista o di una scelta che non fatica affatto ad elencare le proprie ragioni. Difficile è piuttosto smantellarle con il richiamo a uno scudo costituzionale dal quale, per esperienza vissuta, sono in molti a non sentirsi protetti. Soprattutto quando la storia recente delle forze politiche che, senza eccezione, hanno lavorato a un depotenziamento della democrazia, non presenta credenziali decenti.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto l’11 settembre 2022.