Di MARCO ASSENNATO.

È noto come l’Umanesimo italiano sia stato letto, da Benedetto Croce e Francesco De Sanctis, ma anche da Burckhardt, come un’esperienza circoscritta in ambito artistico-letterario. Mentre la filosofia primo-novecentesca, da Giovanni Gentile e Ugo Spirito, a Erminio Troilo, fino a Cassirer, lo ha sistematicamente ridotto a praefatio di successivi sistemi filosofici: idealistici, positivistici o neokantiani. In ogni caso, dunque, si sarebbe trattato di una pagina «vuota» di teoria propria, «senza filosofia». Contro questa incomprensione reagisce adesso Massimo Cacciari con La Mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, dato alle stampe per la casa editrice Einaudi. Il volume non ha nulla del semplice esercizio d’erudizione. Al contrario esso si sporge sul nostro presente e cerca nella riscoperta di questa pagina straordinaria del «pensiero italiano» strumenti per spezzare la paralisi che attribuiamo oggi alla colonizzazione tecnologica del pianeta – tanto sul piano politico, quanto economico, sociale e culturale.

Così posta la questione, non stupisce che risulti necessario, per Cacciari, tracciare una incolmabile distanza anche rispetto a quell’altra grande operazione teorica che, in area tedesca, costrinse i caratteri dell’aurora moderna dentro alla forma neoclassica. Si tratta insomma di uscire da quell’impotente reazione con la quale, da August Böckh alla scuola di Wilamowitz, l’universo della Kultur europea tentò di forgiare armi per difendersi dall’incedere impetuoso della civilisation machiniste: non è forse così che vanno letti i Goethe e Schiller, von Humboldt e Jaeger, come in fondo anche la loro nemesi umana, troppo umana, segnata dagli scritti di Friedrich Nietzsche? Non si tratta forse dell’ultimo tentativo per realizzare «una forma di vita opposta al Nervenleben metropolitano, capace di attualizzare plasticamente, nel contemporaneo, il senso della paideia classica»?

Questo ideale, dice Cacciari, è morto, prima colpito da «ideali gotici», poi assorbito e deformato dal nazismo, e infine sepolto con la cancrena dello jus publicum europaeum. Siamo dunque oltre. Bene. Ma in nessun modo la critica all’Humanismus tedesco può trascinare con sé ogni riflessione attorno al fare e al produrre. Al contrario, si deve rivendicare una decisione radicale dagli esiti di quel dibattito: l’Umanesimo, si badi bene, non è Humanismus. Il volume eredita in qualche misura dalla risposta che Eugenio Garin – con Rinascite e Rivoluzioni e con Lo Zodiaco della vita – diede a Martin Heidegger:

«Conobbi più avermi a dolere della vita… che della morte… la morte non aduce, ma leva il dolore (…). Sono parole del Teogenio – scrive Garin – ma non indicano, queste e altre molte, come potrebbe sembrare, la tesi della verità per la morte. Dallo sconcertante mondo albertiano, serio o ironico che sia, accanto alla cruda sconsacrazione del mondo degli dèi, proiezione beffarda nei cieli delle più sordide miserie delle corti e della curia, emerge anche una demitizzazione della morte»

Domandiamoci dunque: cosa significa «pensare l’Umanesimo more filosofico»? Certo riscoprirne l’originalità, ma più ancora, secondo Cacciari, esaltare la natura critica «di un pensiero che si fa cosciente della fine di un Ordine e del compito di definirne un altro, drammaticamente oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma». In tal senso il saggio di Cacciari va letto assieme a due pubblicazioni recenti su Machiavelli, di Asor Rosa e di Ciliberto; e ad un libro più lontano, la Ricerca del Rinascimento pubblicata negli anni Novanta da Manfredo Tafuri. Si formerebbe così una costellazione che riapre la partita dell’Umanesimo tragico: nessun antropocentrismo, alcun positivismo, nessuna banale passione antiquaria, nessuna religione della tecnica caratterizza l’epoca. Piuttosto una ragione non dogmatica, costantemente occupata a ragionare sui propri limiti, nel confronto con i grandi esempi della storia: in questo senso vanno colti, secondo Cacciari, il nesso tra  «filo-logia e filo-sofia» e il « pensare per immagini» che costituiscono la doppia chiave di volta del libro. Il «divino furore» degli Umanisti – singolare, corporeo, individuale e repubblicano – si esprime in figure straordinariamente precise, composte, la cui potenza simbolica è «donatrice di senso» e s’afferma su un tempo dominato dalla vicissitudo; come l’eloquenza e la filologia, che educano «a tirarci fuori dalla decadenza in cui è caduto il linguaggio» inventando una lingua nuova, grande come il latino dei classici e perciò utile a costruire uno spazio comune, cosmopolita e libero.

Poeti, filologi, pittori e architetti, sono dunque i veri filosofi dell’Umanesimo. La loro ricerca mira ad una rinnovata Civilis sapientia. In tal senso, sottolinea Cacciari, «nessuna delle deformità che Nietzsche attribuiva alla filologia sua contemporanea, contrapponendole la ‘bellezza’ dei greci, ha qualcosa a che fare con i Poliziano e i Valla». Conoscere il passato significa «ri-formarlo nel presente», sporgerlo sull’attualità per ricavarne indicazioni utili al possibile tempo nuovo. Spogliandosi della veste cotidiana piena di fango e di loto e indossando panni reali e curiali gli Umanisti interpretano, spezzano, aprono, individuano tendenze storiche. Mentre d’altra parte il nucleo tragico del loro pensiero squaderna un’ontologia anti-dialettica in cui le polarità opposte non si armonizzano, né vengono sintetizzate. Ci troviamo allora su un campo esposto a tensioni contrarie. Ed in questo campo bisogna imparare a stare, innanzitutto, per agire.

La traiettoria proposta da Cacciari inizia con Dante e Petrarca e poi si biforca: da una parte c’è il Rinascimento materialista dei Valla, di Alberti e di Machiavelli. Dall’altra la grande linea neoplatonica di Pico, Ficino e dei circoli fiorentini. A tenere in discorde amicizia queste due linee, imbricate – secondo Cacciari – l’una nell’altra, è la drammatica dell’epoca: la ricerca della pace, stretta tuttavia tra altissime capacità culturali e un catastrofico incedere del tempo storico. Eccoci allora catapultati indietro, alle prime righe del testo, dove si esplicita la natura contemporanea di questo saggio:

«Avevo appena pubblicato Krisis nel 1976 – scrive Cacciari – quando lessi, uscito nello stesso anno Rinascite e Rivoluzioni di Eugenio Garin. Quale incontro poteva mai avere luogo tra un’indagine sul terreno scientifico, filosofico e artistico fra XIX e XX secolo e quell’Umanesimo civile che ritenevo allora contrassegno della ricerca gariniana? Ed ecco che Rinascite mi spalancava di fronte una visione dell’Umanesimo come età di crisi, età assiale (…) qualcosa di ancora più radicale di quello che chiamai ‘pensiero negativo’ nel saper dissolvere e nel tentare, in uno, nuovi inizi»

L’Umanesimo di Cacciari, dunque, è tragico e critico insieme. Solve-et-Coagula radicaliter: come cogliesse, sul piano ideologico puro, tutto il destino dell’epoca moderna. Se il lato critico, corrosivo, di questo ragionamento, marca l’impossibile sussunzione reale del mondo nelle esatte misure delle tecniche (e su tutte della politica come tecnica/arte), l’altro lato, quello tragico, vede la Pace isolata «all’interno dello spazio comune; tutto vi tende ma nulla davvero la raggiunge o la tocca». Il platonismo qui avvolge la spinta materialistica. Le alternative teoriche si tendono in un dialogo infinito. L’analisi di fa interminabile. Pregio del volume, certo, è nel rivendicare (come sempre fa Cacciari) l’estrema produttività delle aporie, liquidando definitivamente ogni superamento pacifico della contraddizione. Tragedia dunque: tensione irrisolvibile tra progetto e storia. Bene.

Val la pena tuttavia di chiedersi se questa lettura possa essere sufficiente o se la soglia tragica non si configuri piuttosto, persino nelle pagine più scure del Teogenio o nelle più disilluse tra le lettere del Machiavelli, come un ostacolo da superare, una frontiera da violare. In mezzo: tra le belle proporzioni delle tecniche moderne e le istanze concrete, spesso triviali, «febbrilmente agitate», «inferme», dell’umana natura non v’è solo l’aporia del tragico. Ma anche il riso, ironico, materialista. C’è Epicuro, in questo Umanesimo, e Luciano, e Lucrezio. L’uomo muove sempre alla «ricerca del proprio piacere», produce «voluptas», «amore per il logos»: può essere «asino» o armare di spada le proprie idee e costruire repubbliche. E poi c’è l’esperienza del mondo: «qui sta davvero – scrive Cacciari – l’acquisizione filosofica fondamentale dell’Umanesimo: non abbiamo a che fare con dati ai quali adattare convenzioni linguistiche, come un abito a un corpo. Abbiamo a che fare con fatti che sono in quanto da noi espressi, interpretati, agiti. Si tratta della cosa che in greco si chiama pragma».

Val la pena di insistere su questo punto: «l’Umanesimo – dice Cacciari – è epoca di catastrofici avvenimenti, un tempo in cui la follia è avvertita come sempre in agguato». Massima follia è la guerra, la distruzione dello spazio comune, asfissiato da gelidi mostri che costruiscono il loro corpo istituzionale sull’irriducibile singolarità della vita. Il politi­co, nella sua autonomia, prenderà presto il volto del Leviatano che fagocita, rovesciandone i termini, la spinta repubblicana. Gli umanisti lo sanno. Pre-vedono la tendenza storica. Ne marcano la povertà di fronte al grande esempio passato. Tuttavia, come ha notato Michele Ciliberto, non è impossibile «riuscire a trovare in questo mare dominato da potenze avverse una bussola che consenta di salvarsi (…) questa è la scommessa e questa è, in ultima analisi, la funzione dell’arte politica». Il tema della follia umanistica qui si rovescia. Da minaccia di guerra essa diviene invenzione di una differenza che spezza la norma e, con essa, il destino storico: l’Umanesimo – scrive Ciliberto – «sa che l’uomo sta in un limite e che esso è insuperabile; ma, allo stesso tempo, intravede chances d’azione che gli altri non vedono e che possono dischiudere strade che spostano quel limite: e che lo stesso Machiavelli, quasi per difendersi chiama ‘pazze’. In ultima analisi, è nella praxis che risiede l’ultima possibilità della nostra salvezza». Un passo oltre il tragico viene così compiuto. Torniamo dunque a Cacciari. In conclusione del volume egli scrive: «compito di una paideia filosofica consisterà nell’insegnare come il nostro naturale conatus alla vita felice possa venire soddisfatto». Sottoscriviamo. Eppure suggerendo che, a questo punto dell’analisi, l’Umanesimo pare davvero più forte della Krisis del suo interprete. La ricerca può dunque ricominciare.

 

Questo articolo è stato pubblicato in versione ridotta su il manifesto il 13 aprile 2019. 

 

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