di ROBERTA POMPILI.
Corpi-macchine-territori
Diverso tempo fa mi sono occupata di una ricerca sulle sex workers migranti nello spazio urbano e periurbano della mia città, con una osservazione dei tempi e modi di lavoro e di vita delle donne, in particolare della relazione in strada con i loro clienti. Parte delle mie osservazioni si sono concentrate in una zona extracittadina (detta Pantano) fortemente frequentata da tipologie diverse di “viandanti”, autotrasportatori, turisti/e, e guidatori e guidatrici locali. La strada che studiavo mette in contatto la zona del lago Trasimeno ed il flusso di traffici ad essa connessa con le aree produttive di Umbertide, Gubbio e con le regioni di Emilia Romagna e Marche evitando ai viandanti di passare per la città di Perugia.
Questa strada, diventata un denso corridoio di flussi, contava la presenza delle donne sui bordi di entrambi i suoi lati e le prestazioni delle stesse erano dedicate a clienti tecnologicamente mobili (tanto che nel loro linguaggio quotidiano usavano descrivere quantitativamente il lavoro in termini di macchine: “ho fatto 5, 7, 10 macchine!”), e che vedevano come problematico e/o pericoloso l’incedere di ipotetici clienti a piedi. Quello che mi aveva particolarmente colpito in questo spazio denso di vita e contemporaneamente di mobilità era l’alta frequenza di incidenti che accadeva in questo corridoio di flussi di persone, merci, forza lavoro e macchine. I sinistri erano spesso imputati dagli abitanti locali – sollecitati anche da una certa stampa che anima le letture, le posture e le seguenti politiche securitarie- alla presenza delle stesse donne in strada, ree al loro avviso di attirare in maniera indecorosa l’attenzione dei guidatori (supposti nella loro pressoché totalità maschi ed eterosessuali).
In realtà la presenza delle donne, come di solito avviene in questi casi, era solo un sintomo dei grandi cambiamenti avvenuti in quello spazio diventato altrimenti produttivo, elemento paradigmatico delle trasformazioni in atto legate alla sfera della produzione/riproduzione e circolazione.
Il crash si realizzava nell’entrata in collisione di due mondi molto differenti e che iniziavano a convivere nello spazio angusto di una stradina periferica periurbana: il mondo ancora parzialmente agricolo dai lenti ritmi dei paesani con Api treruote, dei cacciatori, dei pendolari locali, e quello veloce dei flussi accelerati e intensificati dei camion e furgoni, delle macchine veloci dei rappresentanti di commercio o dei turisti con mete extraregione.
Meditai a lungo quei mesi su questo saggio, mai veramente realizzato e su come intitolarlo. Optai alla fine per Crash, in onore dell’omonima opera ballardiana che mi affrettai a rileggere. Questi incidenti rappresentavano per me l’entrata in scena di una nuova mostruosa soggettività, quella prodotta da una particolare collisione dei corpi-tecnologia sintomatica dell’era del capitalismo dei flussi. Da diversi anni gli studi sulla mobilità erano diventati un must; mi concentrai sulla lettura di alcuni di questi in particolare sul saggio di sociologia della mobilità di Urry. Chi, come, dove, perché, governa i flussi di mobilità o meglio, quali sono le condizioni sociali e materiali che ci son dietro la mobilità, non solo delle donne migranti arrivate sul ciglio di quella strada a lavorare cosi come in altri luoghi, ma di tutte quelle persone che in quella strada si incrociano, e quali sono le caratteristiche della mobilità stessa in termini di classe, di genere e di razza.
Questa estate si è drammaticamente consumato un passaggio/una discontinuità rispetto alla fase politica precedente, non solo per l’entrata in scena del nuovo governo, ma perché è sempre più evidente che le politiche predatorie neoliberiste sono arrivate ad un punto di non ritorno.
Cosa unisce i fatti drammatici del crollo del Ponte di Genova, l’incendio di un camion nella superstrada di Bologna e l’incidente –strage dei braccianti sulle strade Foggia?
La mobilità del capitalismo dei flussi, con i suoi diversi livelli di accelerazione, ma anche di stagnazione, modificando tempi, ritmi e velocità, trasforma l’intero paesaggio economico sociale e politico del nostro paese, e i cambiamenti in atto stanno comportando, insieme ai ripetuti e non accidentali incidenti nella circolazione di merci e forza-lavoro, un tracollo dell’intero ecosistema legato al fordismo, il collasso delle sue infrastrutture emerge dalla entrata in collisione con il nuovo “mostruoso” paesaggio della logistica.
Mobilità della forza-lavoro
La mobilità (e il suo contrario la stanzialità) si situa, da sempre, al centro della divisione sessuale del lavoro (e del suo sfruttamento). Nulla di strano se nella contemporaneità la forza-lavoro (come le altre merci) genderizzata e razzializzata passi attraverso le griglie delle piattaforme logistiche per essere smistata con tempi e modalità diverse.
Nei miei studi di antropologia Godelier ha occupato sempre uno spazio importante. Sulla questione della genealogia dei rapporti di potere maschile e femminile e la stessa prima divisione sessuale del lavoro l’antropologo colloca la questione della mobilità in un posto centrale. Nei nuclei riproduttivi del passato arcaico le donne, per lo studioso, si occupano del maternage e questo impone loro, in condizioni ambientali difficili, di essere meno mobili rispetto agli uomini che hanno un diverso rapporto con lo spazio e il territorio e impiegano la loro mobilità andando a caccia. Le donne sono “per ovvi motivi” più stanziali, e per questo produrranno nel tempo un insieme di pratiche e saperi sulla terra ( l’agricoltura, l’erboristica…) dai quali, come ci insegna il grande Calibano della Federici, verranno nella fase di formazione del primo capitalismo violentemente alienate.
Da poco le femministe latinoamericane hanno riletto la violenza sulle donne, come violenza predatoria del capitalismo contemporaneo sui corpi-territori, evidenziando l’inevitabile intreccio di potere e sfruttamento dell’uomo bianco borghese e coloniale, sulle donne e contemporaneamente sui territori. La natura è costruita, prodotta, raccontata come una preda da conquistare, cosi come le donne vengono viste vicine alla natura, nella dicotomia in cui natura è femminile e cultura è maschile. Nella fase del capitalismo estrattivo, ancora una volta le donne vengono rinvestite della violenza della accumulazione originaria, cosi come gli stessi territori-natura-ambiente. Mentre l’ecosistema e le infrastrutture del fordismo tracollano una nuova violenza estrattiva mette a valore i territori e con essi i diversi concatenamenti di strade, macchine, corpi dentro i corridoi dei flussi e della mobilità.