di UGO ROSSI, CARLA STOPPANI, MARTINA TAZZIOLI.
Crimine di solidarietà: può apparire una contraddizione in termini, un vero e proprio ossimoro, ma questa espressione restituisce il senso di un campo conflittuale che vede, da un lato, cittadini e cittadine europei che si mobilitano in sostegno dei migranti in transito essere messi sotto accusa e, dall’altro, il rilancio diffuso delle stesse pratiche e reti di solidarietà nei territori di frontiera e in molti centri urbani.
Mentre si assiste alla illegalizzazione preventiva dei richiedenti asilo in Europa e alla moltiplicazione di politiche di contenimento sulla sponda sud e est del Mediterraneo, le infrastrutture autonome create a sostegno dei migranti in transito non solo danno vita a una logistica della resistenza alle politiche securitarie di controllo delle frontiere, ma sono in grado di produrre fratture più o meno temporanee o permanenti nello spazio militarizzato della “Fortezza Europa”.
Lo spazio-frontiera italo-francese
In un contesto segnato da una criminalizzazione della solidarietà senza precedenti, in Italia come altrove in Europa e nelle sue vicinanze si assiste a un’escalation inquietante degli episodi di razzismo istituzionale e di strada. Gli interventi arbitrari delle forze di polizia e delle guardie di frontiera si moltiplicano in nome della lotta congiunta al terrorismo e alle migrazioni “irregolari”. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente al primo posto per l’intensità della scossa diplomatica che ha prodotto, è la vicenda dell’irruzione armata da parte di cinque agenti della dogana francese all’interno dei locali della stazione ferroviaria di Bardonecchia per effettuare un test delle urine a un ragazzo nigeriano che viaggiava regolarmente da Parigi verso Napoli. In questo caso, il cittadino nigeriano è stato fermato e sottoposto a un controllo anti-droga sotto pressione di agenti francesi armati esclusivamente sulla base di un racial profiling (identificazione razziale) che di fatto regola le pratiche di controllo sui treni che attraversano i confini nazionali. Quello avvenuto a Bardonecchia è un attacco che va situato all’interno della serie di atti di intimidazione da parte delle forze dell’ordine contro chi si sta mobilitando in sostegno dei migranti bloccati o respinti alle frontiere.
A pochi chilometri da Bardonecchia, al confine italo-francese, dal 24 marzo una stanza interna alla chiesa di Claviere è occupata da migranti e attivisti che dichiarano: “Il problema non è la neve, non sono le montagne; il problema è la frontiera”. Gli occupanti si oppongono al registro dell’emergenza, ribadendo che a causare le morti al confine franco-italiano non sono le condizioni meteo, ma è l’esistenza stessa del confine e il suo attuale funzionamento. In quest’ottica, costruire percorsi solidali significa rifiutare il vocabolario della “gestione” dei migranti e, al contrario, significa aprire spazi comuni di lotta e di permanenza – dicono gli occupanti di Claviere.
Da Catania a Calais, così come da Melilla a Edirne, le nostre speranze sono alimentate da un variegato movimento di solidarietà ai migranti che comprende gruppi cattolici, singoli cittadini, militanti NoBorder e guide alpine Guides sans Frontieres nelle Alpi francesi. L’eterogeneità di esperienze e pratiche di solidarietà rappresenta la vera ricchezza del movimento a sostegno dei migranti. Tale movimento è animato da gruppi organizzati così come da cittadini che autonomamente decidono di mobilitarsi per reagire alla criminalizzazione della solidarietà. Tra questi ultimi, il caso che più di altri ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica è stato quello di Cedric Herrou, contadino francese della Val Roia, al confine italiano-francese, accusato nel 2016 di aver aiutato a superare la frontiera italiana e aver offerto ospitalità a un gruppo di migranti. È stata poi la volta del ricercatore francese Pierre-Alain Mannoni, accusato di aver soccorso tre donne eritree.
Secondo il “Codice di Entrata e Soggiorno degli Stranieri e del Diritto di Asilo” (CESEDA), chi viene accusato di aver “facilitato o tentato di facilitare l’ingresso, la circolazione o il soggiorno irregolare di uno straniero” è punibile dalle autorità francesi con multe che ammontano fino a 30 mila euro, nonché con la reclusione in carcere di due anni. Insieme a Mannoni e Herrou, decine di cittadini e cittadine sono stati (o sono tutt’ora) sotto processo per aver fornito cibo e ospitalità ai migranti. Tali accuse fanno leva su leggi nazionali che richiamano la Direttiva europea del 2002 sul “Favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali”. In alcune località, come Calais, il formarsi di infrastrutture autonome di solidarietà e sostegno materiale ai migranti ha fatto venire alla luce contrasti fino ad allora rimasti sotto traccia tra i diversi livelli istituzionali: amministrazioni locali contro magistratura, governo nazionale contro procure.
La “guerra delle docce”, vale a dire la vertenza messa in campo da gruppi spontanei e associazioni locali per la fornitura di servizi igienici ai migranti di passaggio a Calais, è divenuta una vera e propria icona del movimento di solidarietà con i migranti che tentano di attraversare il confine italo-francese. Alla politica europea di criminalizzazione della solidarietà e sospensione dei diritti negli spazi di emergenza umanitaria si risponde dunque con la moltiplicazione delle iniziative spontanee e organizzate, individuali e collettive, di solidarietà attiva.
La “nuova Turchia” e l’Unione Europea: repressione del diritto di fuga
L’istituzionalizzazione della criminalizzazione delle pratiche di solidarietà non si limita allo spazio dell’Unione Europea. In Turchia, la vicenda di due cittadine europee ha fatto giurisprudenza. Nel settembre 2015 si trovavano nei pressi di Edirne insieme ad altri volontari e a organizzazioni non governative per dimostrare solidarietà e fornire sostegno logistico a rifugiati siriani, afgani e iracheni che si erano organizzati per varcare la frontiera tra la Turchia e la Grecia rivendicando il diritto a usufruire di canali sicuri e legali per raggiungere l’Europa piuttosto che imbarcarsi in viaggi potenzialmente fatali. Violando i principi della libertà e della sicurezza garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, le autorità competenti non hanno fornito alcuna spiegazione ufficiale a giustificazione della custodia cautelare nel centro di detenzione amministrativa per stranieri di Istanbul. All’ordine speciale e ingiustificato di espulsione ha fatto seguito il linciaggio mediatico da parte dei media filo-governativi. Per accusarle di spionaggio internazionale hanno pubblicato delle immagini che le ritraevano a Gezi Park durante la rivolta del 2013.
Nella “nuova Turchia” di Erdoğan ogni forma di dissenso politico – e di solidarietà ai dissidenti – è ormai legalmente definita e ampiamente accettata come sostegno al terrorismo. La gestione dei flussi migratori costituisce parte integrante del processo di costruzione del consenso politico alle politiche sovraniste di uno stato autoritario che continua a strumentalizzare il forte sentimento di appartenenza nazionale. Alla soppressione dello stato di diritto e alle gravi violazioni dei diritti umani di cui è responsabile il governo di Erdoğan finora l’Europa si è limitata a reagire con blandi rimproveri che confermano l’assetto reazionario della stessa. La pacatezza delle reazioni dipende certamente dagli interessi economici dell’Unione e di alcuni Stati membri nei settori dell’industria bellica, delle infrastrutture e dell’energia ma anche dalla minaccia della riapertura della frontiera tra la Grecia e la Turchia.
L’esternalizzazione delle frontiere europee è in parte già completata attraverso la ratifica di patti di collaborazione che di fatto reprimono il diritto alla fuga. Da un lato il processo di Karthoum e, dall’altro, l’accordo tra la Turchia e l’Unione Europea, il quale avvalla la premessa che la Turchia sia “un paese sicuro” e mostra l’efficacia della strategia del respingimento. Secondo le limitazioni geografiche della Convenzione sui rifugiati del 1951, la Turchia non garantisce il riconoscimento dello status di rifugiato – e dunque il diritto d’asilo – a nessun cittadino che non sia europeo. I richiedenti asilo aspettano per anni il reinsediamento in paesi terzi, mentre i siriani possono al massimo beneficiare di un regime di protezione temporanea che gli consente di vivere in Turchia come “ospiti”, ma che non gli garantisce la piena protezione prevista dalla convenzione.
I respingimenti non avvengono però solo dalla Grecia verso la Turchia ma, peggio ancora, dalla Turchia verso la Siria. Parlano chiaro i rapporti di Human Rights Watch sulla violazione delle norme internazionali sui diritti umani nella zona di confine dal 2015 in poi (anno della chiusura ufficiale della frontiera). Le guardie di frontiera turche sparano indistintamente sui civili siriani che hanno tentato di varcare il confine. Alle uccisioni e ai ferimenti si aggiungono altri abusi sistematici: detenzione, percosse e rifiuto di assistenza medica. La complicità dell’Unione Europea è riprovata dalla notizia di un finanziamento pari a più di 80 milioni di euro che si aggiunge ai 6 miliardi previsti dall’accordo e che è stato destinato all’acquisto di attrezzatura militare per il pattugliamento della frontiera e del muro che sigilla parte del confine con la Siria.
La politicizzazione dell’umanitario
A nostro giudizio, la dinamica di reciproca generazione che si è venuta a creare tra la criminalizzazione delle pratiche di solidarietà operata dai governi nazionali dell’Unione Europea e il rilancio dal basso delle stesse pratiche di solidarietà e sostegno materiale (con le loro infrastrutture autonome) evidenzia una “politicizzazione dell’umanitario” ormai inevitabile, con cui bisogna fare attivamente i conti. Ai movimenti e a tutte le forze solidali transnazionali tale politicizzazione dell’umanitario offre spazi di intervento e possibilità di trasformazione dell’ordine esistente che non vanno sprecati. Non si tratta, ovviamente, di riproporre la semplificazione di un’indistinta sfera umanitaria contrapposta alle autorità statali; al contrario, gli assi di collaborazione tra intervento statale e securitario da una parte e misure umanitarie dall’altra non hanno mai cessato di rafforzarsi a vicenda. Piuttosto, ciò che la criminalizzazione in corso delle pratiche di solidarietà attiva dimostra è la differenziazione interna all’universo di esperienze etichettate comunemente come “umanitarie”. Non a caso, nel discorso pubblico, assistiamo a un costante alternarsi nell’utilizzo dei termini “solidarietà” e “umanitario”. A generare reazioni repressive da parte delle istituzioni non è l’intervento in quanto tale bensì le modalità in cui questo avviene. A essere oggetto delle politiche statali di repressione sono l’accoglienza e il soccorso prestati al di fuori dei circuiti ufficiali della gestione delle migrazioni, vale a dire le alleanze trasversali – tra migranti e non – che scaturiscono da tali pratiche di solidarietà.
La recente vicenda del sequestro del vascello umanitario di Proactiva Open Arms – l’organizzazione non governativa spagnola creata da volontari in modo autorganizzato nel 2015 – porta alla luce le contraddizioni della politica emergenziale messa in campo a difesa della “Fortezza Europa”. Proactiva Open Arms fa parte della minoranza di organizzazioni umanitarie che hanno deciso di aderire al “codice di condotta” per il soccorso dei migranti (tre contro le cinque che rifiutarono). Adottato dal ministro Minniti nell’estate del 2017, il “codice di condotta” è stata la risposta governativa alle pressioni che forze populistiche e nazionalistiche – come il Movimento 5Stelle e la Lega in Italia – hanno esercitato al fine di irrigidire ulteriormente il controllo delle frontiere. L’adesione al “codice di condotta” non ha però consentito a Proactiva Open Arms di sottrarsi alla repressione delle autorità giudiziarie italiane. Anzi, è stata utilizzata dalla Procura di Catania per motivarne la criminalizzazione.
Ecosistemi della solidarietà: per una rete di città solidali
L’esperienza di Proactiva Open Arms dimostra come la disobbedienza alle politiche di criminalizzazione della solidarietà sia oggi una scelta di fatto obbligata a disposizione dei movimenti e delle variegate forze – spontanee e organizzate – che si mobilitano a sostegno dei migranti che rivendicano il diritto di fuga e attraversamento autonomo delle frontiere. Affinché tale disobbedienza non rimanga isolata, ma acquisti valenza politica, è fondamentale rafforzare la cooperazione all’interno del movimento di solidarietà con i migranti. Nei giorni successivi al sequestro della nave di Proactiva Open Arms, la sindaca di Barcellona Ada Colau ha richiamato l’attenzione sul ruolo che le amministrazioni locali possono svolgere all’interno del movimento di solidarietà con i migranti, facendosi promotrici di reti di solidarietà e di contestazione alla militarizzazione delle frontiere e alla politica della paura e dell’odio che oggi incombe nella sfera pubblica europea.
In quanto spazi di accoglienza e rifugio, le città e le metropoli rappresentano veri e propri avamposti, hub e nodi diffusi, del movimento di resistenza alle politiche di repressione. Le città e metropoli sono infatti spazi in cui già oggi si osserva una moltitudine – perlopiù ancora invisibile o dispersa – di esperienze e mobilitazioni a difesa dei diritti umani, della democrazia e del bene comune. La vitalità e diversità istituzionale di cui le città-metropoli dispongono sono la testimonianza vivente del loro potenziale costituente: sindaci e amministrazioni che resistono alle politiche europee di austerità, ma anche consigli di quartiere e soprattutto uno strato diffuso di associazioni, movimenti, gruppi spontanei e singoli cittadini solidali. La ricchezza e varietà di tali “ecosistemi della solidarietà” offre un contributo essenziale al movimento di accoglienza e sostegno logistico a migranti e rifugiati.
Il ruolo che le città e metropoli svolgono già oggi nel movimento di solidarietà con i migranti e per il diritto alla circolazione nello spazio europeo e mediterraneo è decisivo a livello pratico, ma può diventarlo ancora di più sul piano politico. Crediamo infatti che il potenziale politico e istituzionale delle “città solidali” non sia ancora valorizzato nelle sue effettive possibilità. Un più incisivo e consapevole sforzo di valorizzazione di tale potenziale è in grado di generare nuovi spazi costituenti di democrazia post-nazionale, mettendo in discussione l’indirizzo sovranista oggi dominante nell’Unione Europea e nei paesi alleati nelle politiche di difesa e fortificazione dei confini nazionali. È a partire dalle città e metropoli, ma anche dai luoghi di frontiera come la Val di Susa, che è possibile lanciare una sfida alla criminalizzazione della solidarietà cui oggi si assiste e, al tempo stesso, dare avvio a un più ampio processo costituente capace di ridefinire l’idea e l’esperienza stessa di Europa e di globalizzazione.