Di BENEDETTO VECCHI

Una città, Taranto, sulla quale incombe la fabbrica, che tutto plasma, che tutto determina. È sinonimo, il mostro di ferro, di cemento, fuliggine e polveri sottili, lavoro, coscienza operaia, memoria del conflitto di classe e del mondo desiderato di libertà che non è mai sceso in terra. È soprattutto diventata l’Ilva, rappresentazione «vivente» di devastazione ambientale, di tumori, di giovani vite cancellate da qualche malattia, di morte. Anche dopo l’annuncio dell’indiana Mittal di sfilarsi dagli accordi sottoscritti con un governo in bilico, tra complicità e indifferenza verso vecchi e nuovi padroni. E che al duro lavoro di progettazione di riconversione e di immaginazione sociale preferisce barcamenarsi tra il nulla e una desolante prospettiva occupazionale.

LA FABBRICA è infine anche l’alibi, lo spunto per sanguinose guerre criminali per il controllo del territorio, dello spaccio di cocaina, pasticche, ma anche della prostituzione, del contrabbando. Su tutto aleggia l’intreccio tra politica e affari leciti e illeciti. Le cose innominabili che danno il titolo al romanzo scritto da Girolamo De Michele (Rizzoli, pp. 331, euro 19) sono così presto riassunte, anche se restituiscono un affresco fosco della città pugliese che l’autore non vuole certo addolcire attraverso una scrittura asciutta e tuttavia varia, spaziando dal noir al romanzo filosofico, dal reportage al memoir, dal saggio al pamphlet.
Taranto è un luogo in transizione, questo l’esordio. Deve però cambiare pelle. L’Ilva è diventata terreno di caccia per imprenditori prezzolati o spregiudicati. Lo Stato centrale non vede l’ora di togliersi di dosso questo peso ingombrante, delegando ad altri tutto quel che non funziona nel rapporto tra il più grande centro siderurgico d’Europa e la popolazione. L’inquinamento esiziale di quartieri, giardini, mare, certo, ma anche i costi delle malattie che comporta, il lento stillicidio di morti e l’incapacità di immaginare una via di uscita dall’alternativa tra un lavoro che uccide e la chiusura della fabbrica che getterebbe nella miseria una regione intera.

GIROLAMO DE MICHELE ha scritto in passato molto su Taranto, città dove è nato e dalla quale è andato via per vivere, lavorare, amare, lottare in Emilia. Questa volta torna sul luogo del delitto scegliendo un angolo prospettico particolare. Le voci narranti sono molteplici, ma tutte riconducibili a una scuola. Ci sono insegnanti e studenti in via di formazione o ex-studenti che intrattengono ancora rapporti con i loro docenti del passato. È un liceo che ha svolto un ruolo importante nel far crescere la consapevolezza che l’Ilva fosse una risorsa ormai deteriorata. Ci sono insegnanti che vengono dal Sessantotto, che credono di poter svolgere la loro funzione di accompagnatori di giovini vite nella formazione di menti autonome e indipendenti. Ce ne sono altri, invece, di insegnanti che pensano a scuole del risentimento, perché il mondo è ostile e popolato da alieni pericolosi (i migranti, gli altri, i diversi) dai quali difendersi.

QUANDO INIZIA UNA GUERRA tra bande criminali per il controllo del territorio tutti i fragili equilibri della città vanno in pezzi. Il romanzo assume le tonalità del noir, con poliziotti spettatori delle scorribande criminali, piccoli e grandi faccendieri del sottobosco politico cittadino.
Alcuni insegnanti protagonisti del romanzo svolgono adeguatamente il loro magistero. Insegnano, raccontano storie, illustrano punti di vista, invitano il pubblico (immaginario, va da sé) a esprimere il proprio consenso o disappunto rispetto quanto ascoltato; i poliziotti invece indagano, facendo emergere il rapporto poco chiaro con i loro potenziali nemici, i criminali. Anzi il connubio tra forze dell’ordine e criminali è più forte di quanto si immagini, perché arriva anche nella sfera intima, mettendo a nudo ciò che le coperte di un talamo clandestino di hotel vorrebbero coprire.
Emerge lentamente, ma con precisione analitica la fragilità dei singoli di poter immaginare vie di uscita da una situazione che chiederebbe coraggio, padronanza della storia e del possibile futuro della città. Taranto avrà un futuro solo se pensata collettivamente, dicono gli attivisti dei vari gruppi cittadini.

L’autore ama il calcio e la buona musica. Di ciò parlano molte pagine in questo romanzo. Scrive di centravanti mitici della squadra pugliese del Taranto, di scalate, mancate, dalla serie B alla seria A; di Sandro Mazzola, di Ronaldo, Messi, poco più che comparse rispetto ai grandi del passato, quelli del Benfica, del Real Madrid degli anni Cinquanta e Sessanta. E c’è il blues, il jazz, il rock degli anni d’oro. Miscela tutto, Di Michele, in una scrittura che cattura attenzione, come attenzione riesce a catturare quando si dilunga sulla filosofia francese, sulla lunga storia dell’assalto al cielo che ha caratterizzato le vicende italiane, comprese quelle di Taranto, città emblema di una storia operaia ribelle finita all’angolo. I sindacalisti non fanno bella figura: aderiscono completamente a ogni spirito del tempo. Ne sono sempre complici, anche quando declamano di esserne ostili, di opporvisi.

NON CI SONO BUONI e cattivi, in questo romanzo. Ci sono solo testimoni di una vicenda, che ha il sapore del criminale senza esserlo fino in fondo. Lo scrittore lo sa. Gestisce il materiale che cresce tra le pagine. Lo fa sapendo di correre il rischio di affastellare appunto troppi elementi sul sentiero della storia che vuol raccontare. Ma è un rischio che vuol correre, che corre, lasciando segnali che attendono di essere raccolti per comprendere come è cambiato questo Paese che ha rimosso la propria storia.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 9 novembre 2019.

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