ovvero come cinquanta richiedenti protezione internazionale hanno fatto tremare il sistema di accoglienza italiano in cinque giorni.
di ASIA DELLA ROSA e OMID FIROUZI TABAR (Sconfinamenti – Padova)
CONA (VE) lunedì 20 novembre.
Lunedì mattina riceviamo una chiamata: circa cinquanta richiedenti protezione internazionale hanno deciso di uscire dal Centro di Prima Accoglienza (CPA) di Cona e di mettersi in marcia. L’obiettivo è essere finalmente trasferiti in strutture dignitose. Non rimaniamo particolarmente sorpresi: pochi giorni prima, infatti, altre duecentocinquanta persone sono uscite dallo stesso campo e si sono messe in marcia. Dopo una trattativa estenuante durata due giorni, a cui anche noi abbiamo preso parte, tutti i richiedenti protezione internazionale hanno ottenuto il ricollocamento in altre strutture. Ci aspettavamo che la marcia dei cinquanta nuovi usciti si concludesse allo stesso modo, ovvero con il trasferimento di tutti i richiedenti: pensavamo fosse solamente questione di giorni. Le istituzioni questa volta però, senza farsi cogliere di sorpresa, si sono organizzate.
Il decreto legge 142, in linea con le direttive europee in materia di accoglienza dei richiedenti asilo, parla molto chiaro. I CPA, come quello di Cona – situato tra la provincia di Padova e quella di Venezia – devono ospitare i richiedenti soltanto per il periodo strettamente necessario alla formalizzazione della domanda di richiesta di asilo ed alla verifica delle condizioni psico-fisiche dei soggetti, con particolare attenzione alla presenza di eventuali vulnerabilità specifiche.
Trascorso tale periodo, definito per l’appunto “di prima accoglienza”, la normativa prevede che si attivino (in modo ordinario) gli SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati); o in alternativa, in via straordinaria e temporanea, Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), diffusi sul territorio.
La realtà però è un’altra: in questi enormi lager a cielo aperto gli ospiti rimangono mediamente un anno e mezzo e la loro permanenza in queste strutture assume le sembianze di una segregazione violenta e perpetuata nel tempo, in un contesto di palese illegalità istituzionale. I giovanissimi migranti vengono non solo isolati e privati dei loro diritti primari, ma anche volontariamente isolati dal territorio circostante. Inoltre, l’ente che gestisce il campo in questione, il quale giornalmente si intasca decine di migliaia di euro per servizi che dovrebbe erogare in conformità alla normativa vigente, è indagato da due diverse procure per falso in bilancio e maltrattamenti.
Ci dirigiamo verso il CPA di Cona in tarda mattinata e veniamo bloccati davanti ai cancelli, perché nessuno può avere accesso al campo eccetto deputati e senatori. Il silenzio assordante parla da sé: la marcia è già partita, lontana chissà dove, ma dentro centinaia di persone sono in attesa di conoscerne le sorti. I richiedenti si sono incamminati verso Piove di Sacco, e ne siamo stupiti: questo significa che si sono diretti verso Padova, la cui Prefettura non è però tecnicamente competente per il campo di Cona.
Finalmente li raggiungiamo. Sulla testa e sulle spalle portano pesanti valigie, al loro interno il poco che ancora gli appartiene: qualche indumento, uno spazzolino, un paio di scarpe. Non hanno più niente da perdere. Nonostante questo non ci sembrano deboli e non lo sembreranno quasi mai nei giorni successivi. Il gruppo tendenzialmente ci sembra disorientato, poco organizzati si sono messi in marcia in modo spontaneo. Più volte la testa della marcia, occupata da una decina di ragazzi che con sé hanno la loro bici, si allontana notevolmente dalla coda, dove i più affaticati stentano a tenere il ritmo. Ripetono più volte “basta Cona”: ci spiegano che le condizioni di vita nel campo sono indegne. Ci mostrano dei video, girati all’interno delle strutture con i loro telefoni cellulari: un capannone immenso, file di quelle che sembrano tende e invece capiamo essere dei letti a castello. Sono tantissimi. Per avere un poco di privacy hanno rivestito i letti con coperte ed indumenti. Le immagini dei fossati scavati ai bordi del campo per fare i bisogni ci colpiscono molto: metà dei servizi igienici non funzionano. Ci dicono che non fanno nulla tutto il giorno e l’inattività totale li porta all’esaurimento, che l’unica medicina che gli viene prescritta è il paracetamolo, che i vestiti che hanno addosso sono gli stessi con cui sono sbarcati mesi prima sulle coste italiane.
Pochi chilometri prima di arrivare a Piove di Sacco la polizia ferma la marcia. Alcuni operatori del campo di Cona ci raggiungono, distribuiscono casacche fosforescenti: la settimana prima un ragazzo è morto, investito da un auto, mentre di notte cercava di raggiungere la prima marcia. La cooperativa vuole dimostrare che in fin dei conti si prende cura di loro, ma il gesto trasmette solo ipocrisia. Cerchiamo di prendere parte alla marcia senza sembrare degli intrusi. Chiediamo ad alcuni ragazzi se possiamo aiutarli in qualche modo: insieme ci dividiamo il peso dei borsoni, un’estremità la tieni tu, una la tengo io. Senza dare l’impressione di voler guidare o gestire l’intera marcia.
Fin da subito capiamo, e verrà ribadito in continuazione nei giorni seguenti, che a Cona non si torna, che qualsiai condizione è preferibile a quella del campo.
PIOVE DI SACCO (PD), lunedì 20 novembre.
Arriviamo a Piove di Sacco nel tardo pomeriggio. La temperatura cala improvvisamente, inizia a fare freddo, il sole tramonta. Ci dirigiamo verso la piazza principale, davanti al Municipio. I richiedenti si sono organizzati tra di loro ed hanno scelto due rappresentanti di cui si fidano ciecamente: prima di incontrarsi con il sindaco della città si riuniscono in cerchio, si fanno forza l’uno con l’altro, discutono a lungo sul da farsi. Il modo in cui si sentono rappresentati dai due ragazzi scelti, che d’ora in poi parleranno in nome e per conto di tutti gli altri, è stupefacente.
C’è solo un momento di tensione, quando sul luogo appaiono altri operatori della cooperativa che gestisce il CPA di Cona: sono tre giovani che hanno vissuto nell’hub, hanno ottenuto lo status di rifugiato ed ora lavorano con la cooperativa in questione. Cercano di convincere i ragazzi a tornare, a credere (ancora una volta) alle promesse fatte dalla cooperativa. Non ottengono nessun risultato, tranne quello di poter partecipare all’incontro che nelle ore successive terrà impegnate le istituzioni coinvolte ed i due rappresentanti dei richiedenti. Mentre aspettiamo a lungo nel cortile della parrocchia (l’incontro è a porte chiuse) alcuni ragazzi, spazientiti, cominciano a urlare che comunque loro a Cona non ci torneranno, che questa ipotesi, a prescindere dalla trattativa in corso, non è all’ordine del giorno.
Le trattative con il sindaco durano ore e le parti coinvolte non riescono ad accordarsi. Da un lato, il sindaco afferma che non può accogliere nessuno neanche per la notte, e che il Comune di Piove di Sacco è uno dei pochi della Provincia ad aver attivato un progetto SPRAR. Quest’ultimo rappresenta senz’altro uno strumento potenzialmente virtuoso, perché prevede la rendicontazione dei fondi utilizzati con un controllo pubblico più rigido per l’utilizzo degli stessi. Inoltre all’interno del sistema SPRAR è prevista (e quasi sempre rispettata) l’attivazione obbligatoria di specifici programmi di integrazione, orientati all’implementazione dell’autonomia dei migranti. E’ altrettanto vero che gli SPRAR sono dei fiori nel deserto della governance migratoria, non solo nazionale ma anche europea: la prassi è invece un’altra. Più comune è invece compiere respingimenti infami, soprattutto in seguito alla stipulazione degli accordi con la Libia, ed in generale gestire il fenomeno attraverso il disciplinamento, la segregazione e l’inferiorizzazione del migrante. Ingranaggi di controllo che però devono fare i conti con il desiderio di libertà, con le resistenze e con l’autorganizzazione dei soggetti in questione.
Mentre ci organizziamo per preparare una cena calda, più volte viene ripetuto che in nessun caso è possibile trasferire i cinquanta richiedenti protezione internazionale all’interno delle strutture già presenti sul territorio: la spiegazione è semplice, esse sono sovraffollate.
Tutti ricordiamo perfettamente però che pochi giorni prima, di fronte alla potenza della prima marcia, le Prefetture hanno ricollocato circa duecentocinquanta persone in meno di ventiquattr’ore ore. Risulta sempre più chiaro che quella dell’impossibilità dei posti è una scusa per mascherare invece l’indisponibilità politica.
I migranti e tutte le realtà solidali presenti hanno ben compreso, fin da subito, qual è il grande problema che si stanno ponendo le istituzioni: non deve (ed in nessun modo, può) diffondersi l’idea che la lotta auto-organizzata possa portare a conquiste reali.
Nel frattempo i tre operatori della cooperativa più volte ripetono che marciare non è una soluzione, ed invitano continuamente i ragazzi a tornare indietro. Spregiudicati, continuano a promettere di trovare una soluzione al problema, usando anche l’arma dell’intimidazione, minacciando i richiedenti, avvisandoli che in questo modo otterranno solo la revoca dal sistema di accoglienza. I due rappresentanti dei richiedenti però non cedono, nemmeno sotto pressione.
In serata finalmente le trattative si concludono: i richiedenti vengono calorosamente invitati a dirigersi il giorno seguente a Venezia, per confrontarsi direttamente con il Prefetto, visto che le istituzioni presenti a Piove di Sacco non possono essere di aiuto. La notte però è lunga è non si può stare al freddo. Il parroco a quel punto compie un discutibile gesto caritatevole: apre le porte dei bagni della parrocchia, invitando i ragazzi ad utilizzarli e a disporsi per la notte nel piccolo corridoio che porta ai locali.
Nell’edificio adiacente però c’è una palestra vuota e chiusa. Le parole del parroco sono emblematiche: non apriranno la palestra per ospitare i cinquanta ragazzi durante la notte per evitare di creare un precedente.
Intorno alla mezzanotte, dopo le numerose proteste ed anche grazie alla presenza sempre più consistente di giornalisti, televisioni e curiosi che si sono radunati nel parcheggio della parrocchia, quest’ultima decide di mettere a disposizione una piccola stanza al primo piano, in modo che i migranti possano dormire in un luogo (almeno) caldo.
Anche noi attivisti decidiamo di tornare a casa, esausti dopo la lunga giornata. Tra di noi iniziamo a sentirci non solo attivisti che dimostrano solidarietà, ma anche complici di un movimento, nato dai richiedenti stessi, e manifestatosi attraverso la ribellione e l’uscita dal campo, consapevoli che, almeno per oggi, nessuno tornerà dal luogo in cui sono fuggiti.
PADOVA, martedì 21 novembre.
Il mattino seguente i richiedenti si riuniscono in assemblea e decidono sul da farsi: la marcia riprende, e la direzione è la città di Padova. L’obiettivo è quello di ottenere quanta più visibilità possibile, dirigendosi verso un centro abitato che sia più grande di Piove di Sacco. I richiedenti questa mattina sono sempre più consapevoli che la strategia della controparte è quella di renderli il più invisibili possibile agli occhi dei cittadini, giornalisti ed istituzioni. Sanno anche che rimandare ad oggi le trattative fa parte di un piano più grande, che mira quanto più possibile a stancarli e a metterli in difficoltà.
Nel pomeriggio, dopo l’ennesima assemblea, viene presa la decisione di dirigersi verso la Prefettura di Padova. Vista l’ora, l’assenza di luce e la distanza che ci separa dal centro cittadino, ci si muoverà con un autobus di linea; noi reti solidali presenti facciamo colletta per pagare il biglietto a tutti i richiedenti. Ad aspettarli alla stazione degli autobus ci sono tanti, tantissimi amici, studenti e lavoratori che danno una mano come possono: portano coperte, cibo, aiutano i richiedenti a trasportare le pesanti valigie per la città. I ragazzi sono visibilmente emozionati, dopo due giorni di difficoltà si sentono finalmente accettati, accolti.
Arriviamo di fronte alla Questura di Padova e lo facciamo marciando tutti insieme, attraversando come una marea Corso del Popolo, una delle vie centrali della città. Per alcune decine di minuti il traffico si ferma, le persone scendono dalle macchine e scattano foto e fanno video; qualcuno si unisce alla marcia, condividendo con noi tutti il desiderio di supportare questo movimento spontaneo. Vengono intonati slogan e canti, un’unica voce all’unisono ripete ancora ed ancora “basta Cona”.
Il Prefetto di Padova accetta di incontrare la delegazione, composta dai due rappresentanti dei richiedenti protezione internazionale, ma le porte rimangono chiuse per tutti gli altri: le trattative dureranno quasi 4 ore. I due portavoce escono dalla questura più volte, aggiornano i presenti, i compagni, noi solidali e la stampa.
I giornalisti e le televisioni presenti nella piazza sono tanti, ma i migranti sembrano tutt’altro che infastiditi da questo: anzi, molto abilmente sanno che possono trarne vantaggio ed ottenere visibilità. Nonostante la lunga negoziazione nessuna delle due parti si distanzia dalla rispettiva precedente posizione. Il Prefetto si nasconde dietro scuse, come le “competenze formali” che dice di non avere, scaricando la responsabilità al collega di Venezia; per i migranti in marcia il ritorno a Cona non è all’ordine del giorno.
A nulla serve mobilitare la giunta comunale, all’interno della quale è presente una componente (quella di Coalizione Civica) che in precedenza in materia di migrazione aveva espresso posizioni a supporto dei richiedenti. Il sindaco però, ben prima dell’arrivo dei migranti in città, in una nota ufficiale aveva affermato che “a Padova non c’è la possibilità di accogliere nuovi richiedenti”. Durante le trattative il primo cittadino svolge inoltre un ruolo tendenzialmente marginale.
In quella piazza nel centro di Padova però, in quelle ore, qualcosa cambia. Prima di tutto una tematica così delicata ed allo stesso tempo attuale, soprattutto per il territorio in cui ci troviamo, occupa finalmente uno spazio fisico. E non lo fa mediante la retorica delle culture populiste, del sensazionalismo mediatico o di quell’insopportabile umanitarismo caritatevole tanto in voga negli ultimi tempi. Fisicamente, con l’entrata in città di corpi ed intelligenze, che sono quelle dei migranti e dei solidali, che condividono la protesta.
Il modo in cui i migranti in marcia discutono in assemblea e si organizzano e prendono decisioni, le parole utilizzate, il modo in cui comunicano con noi ma anche con i media e le istituzioni, non lasciano margini di ambiguità. Non si sta discutendo solo delle sorti di Cona o delle vite di cinquantadue persone: sono le politiche migratorie del Governo italiano, la relazione tra il territorio e la presenza dei migranti, ad essere al centro dell’attenzione.
Le parole di uno dei rappresentanti, pronunciate in piazza alla fine dell’ennesimo incontro infruttuoso in Prefettura, rimarranno impresse nella nostra mente per giorni: “Guardateci, non siamo qui per ottenere la vostra carità, siamo qui perché vogliamo vivere questo territorio insieme a voi. Chiediamo i nostri diritti per vivere qui insieme e cambiare insieme questa società.”
A questo punto però si tratta di scegliere tra due alternative: rimanere accampati la notte sotto la Prefettura, come forma di dimostrazione e pressione, per poi riprendere il giorno seguente le trattative, oppure trovare una sistemazione per la notte, e dirigersi il giorno seguente a Venezia e riprendere le negoziazioni con l’istituzione indicata come competente. La decisione non è semplice, si discute molto ed animatamente, in modo informale ed in piccole assemblee improvvisate nella piazza stessa; i migranti alla fine, non senza perplessità e resistenze da parte di molti, optano per la seconda alternativa.
La questura di Padova trova una sistemazione per la notte: i richiedenti dormiranno in una struttura messa a disposizione dalla Curia, a Rubano, in Provincia di Padova; prima di salire sul pullman che li accompagnerà sul luogo ci chiedono, ancora una volta, conferme: “questo pullman non torna a Cona vero?”, e ancora “a Cona non ci torniamo, vero?”.
L’unica cosa che ci sentiamo di fare, noi solidali, è rassicurarli e darci appuntamento per il mattino seguente; nel mentre, altri giovani attivisti si sono organizzati ed hanno portato un pasto caldo a tutti i richiedenti. Finalmente un poco della tensione accumulata durante tutto il giorno viene scaricata, mangiando e ballando a ritmo di musica. Poi loro salgono sul pullman che li porterà a Rubano, e anche noi ritorniamo a casa, stanchi dopo una seconda giornata di protesta.
MALCONTENTA (VE), mercoledì 22 novembre.
L’accordo della sera precedente prevedeva che i migranti venissero trasferiti a Mestre, dove si sarebbe tenuto un nuovo incontro con le istituzioni territoriali competenti, in una sede distaccata della Prefettura. Questo però non accade: una decina di minuti prima di salire sul pullman che li avrebbe portati a Mestre, viene comunicato che la destinazione finale è invece Malcontenta, un piccolo paese in Provincia di Venezia.
Anche noi alle prime luci dell’alba ci facciamo trovare fuori dalla struttura; la polizia però blocca l’accesso. E’ subito chiaro che qualcosa non va, così telefoniamo ad alcuni dei richiedenti: ci dicono che, dopo aver scoperto che la meta non è quella concordata il giorno prima, molti di loro si rifiutano di salire sul pullman, arrabbiati. Ennesima impasse, ennesima attesa.
A quel punto arriva il vicario del Vescovo: si rivolge a noi con fare arrogante, ci chiede di convincere i ragazzi a salire sul pullman. E’ molto diretto, la curia è stata costretta ad ospitarli per la notte, ma non hanno intenzione di proseguire oltre nella gestione del problema.
I migranti devono quindi abbandonare la struttura della Diocesi, e devono farlo immediatamente. L’uomo di chiesa sembra quasi dirci che l’atto di carità è stato fatto, dobbiamo accontentarci: l’ordine ed il decoro vengono prima di tutto.
Proviamo timidamente a spiegare al vicario le condizioni del campo di Cona, la marcia durata due giorni, le motivazioni che hanno spinto più di cinquanta persone a fuggire dalla struttura in cui sono ospitati. Il nostro interlocutore però è totalmente disinteressato, fermo sulle sue posizioni, incapace di comprendere fino in fondo le nostre parole: i ragazzi ospitati sono ora un peso di cui bisogna liberarsi il prima possibile.
Dopo circa un’ora di attesa alcuni di loro ci richiamano, a malincuore e non senza una giusta dose di rabbia, accettano il nuovo piano impostogli dalle autorità e dalle istituzioni. Non eravamo su quel pullman fisicamente, ma possiamo immaginarci il viaggio verso Malcontenta dei nostri ragazzi: in silenzio, ancora una volta, accettano le condizioni, consapevoli che il tutto è parte di una strategia (non particolarmente raffinata), ma progressivamente efficace. Li stanno allontanando da un centro cittadino come quello di Padova, dove hanno ricevuto (a detta delle istituzioni) fin troppa visibilità; li deportano in un luogo isolato, strategicamente complicato da raggiungere; nel mentre li stancano, costringendoli a fare e disfare le poche cose che si sono portati dietro. Gradualmente i ragazzi perdono fiducia e coraggio. Noi comunque seguiamo il pullman, scortato da una volante della polizia davanti e da due camionette della celere, fino alla destinazione.
Malcontenta sembra (e probabilmente lo è) un luogo dimenticato. Una chiesa, un bar, campi e canali. Niente di meglio per silenziare la ribellione e far dimenticare la questione ai giornalisti ed ai media. Strano posto con uno strano nome, Malcontenta. Che ha una duplice derivazione, e se la prima risale ad una leggenda popolare, la seconda radice invece ci fa un po’ riflettere e perché no, anche sorridere. Le acque del Brenta, in questa zona, sono “mal contenute”, essendo esse una massa imponente e disordinata; si è cercato negli anni di disciplinarne il corso, con la costruzione di argini, ma in questo punto il fiume si prende quasi gioco dell’uomo e non è contenibile. Un po’ come i nostri richiedenti protezione internazionale, stanchi di essere presi in giro, di non ricevere l’accoglienza che meritano; incontenibili, come un corso d’acqua, coscienti di combattere una guerra giusta, in nome dei loro diritti.
Ed è proprio qui a Malcontenta che si consuma, per quasi quarantotto ore, una piccola battaglia politica, una guerra psicologica combattuta a colpi di minacce e ricatti. Una battaglia in cui si sfidano soggetti liberi e, finalmente, incontenibili, e le autorità, mosse solamente dall’urgenza di risolvere una crisi che ora dopo ora rivela sempre più chiaramente il modo vergognoso in cui viene gestita l’accoglienza in questi territori.
Le trattative con la Prefettura di Venezia iniziano fin dal primo mattino e si protraggono per tutto il giorno, con brevi pause nel mezzo. Il signor Prefetto, arrivato a Malcontenta a bordo della sua auto con i finestrini oscurati, non degna nemmeno di uno sguardo i richiedenti che, in silenzio, sono scesi dal pullman ed attendono indicazioni.
A questo punto, a seguito della pressione fatta dai migranti, qualcosa cambia. Mentre i primi giorni gli incontri tra le parti avvenivano rigorosamente a porte chiuse, questa volta è garantito l’accesso a tutti, reti solidali e giornalisti compresi. Se la nuova forma di negoziazione potrebbe aumentare le possibilità di trovare soluzioni accettabili, è anche vero che l’alternativa proposta dalle istituzioni è sostanzialmente sempre la stessa. Vengono promessi circa cento nuovi trasferimenti, che verranno fatti il prima possibile; il Prefetto però non garantisce che i ragazzi in marcia da tre giorni saranno compresi in quel numero di trasferimenti. Ritornare a Cona ed attendere che altri nuovi trasferimenti vengano fatti è l’unica opzione possibile, e questo la prefettura lo ribadirà molte volte. I migranti rifiutano e con fermezza confermano la loro indisponibilità a fare ritorno nell’inferno del campo Cona. Oltre alla razionalità strategica che li guida nelle trattative, sembra evidente come i mesi trascorsi nell’hub abbiano lasciato in loro un segno indelebile di orrore e sofferenza.
In poche ore cala il sole, inizia a fare freddo, il problema è sempre lo stesso: trovare una sistemazione per la notte. Dopo tre giorni trascorsi insieme il legame creatosi tra noi e loro è sempre più forte; siamo riusciti, con la nostra costante presenza, a guadagnarci la loro fiducia e sempre di più sentono la necessità di confrontarsi con noi. Si è anche naturalmente affermato un modus operandi che sembra funzionare: qualsiasi questione viene discussa prima tra di loro in assemblea, poi si confrontano con noi, infine si radunano nuovamente e prendono una decisione, sempre tenendo in considerazione la nostra opinione.
Decidono che la scelta più razionale è quella di fermarsi la notte nella sala comunale in cui da tutto il giorno si svolgono le trattative; dopo una notte di riposo, con lucidità, si deciderà il da farsi. Uno dei due rappresentanti, ancora una volta, dà prova della sua capacità nel dialogare ala pari con le istituzioni e con queste parole si rivolge al Prefetto, chiedendogli il permesso di potersi fermare per la notte a Malcontenta: “signor Prefetto, Le chiediamo di camminare insieme a noi, non in direzione di Cona, ma fianco a fianco verso una soluzione”.
Anche noi siamo stanchi, ma decidiamo di fermarci ancora un po’: altri solidali della provincia di Venezia ci danno una mano con la cena, e con i nostri amici condividiamo un pasto caldo. Il clima è rilassato e gioioso, i ragazzi si preparano per la notte, noncuranti del fatto che, ancora una volta, dovranno dormire a terra. Si ascolta un po’ di musica, si ride insieme. Poi torniamo a casa, in macchina cerchiamo di organizzarci per il giorno seguente, gli interrogativi sono i soliti: chi compra le cose per preparare ai ragazzi la colazione, forse dovremmo tenerci pronti per marciare verso Venezia, cosa facciamo se non si trova un accordo. Ciascuno di noi, ma nessuno ha il coraggio di dirlo ad alta voce, inizia a chiedersi se riusciremo mai a sbloccare la situazione.
MALCONTENTA (VE), giovedì 22 novembre.
Quarto giorno di marcia e le nostre vite sono inevitabilmente intrecciate con quelle dei migranti. Tutto il resto, l’università, gli amici, il lavoro, è stato messo da parte, sospeso a tempo indeterminato: questa parentesi di una settimana cambierà profondamente ognuno di noi riorientando il nostro modo di fare politica, ma ancora non ne siamo totalmente consapevoli. C’è una quotidianità, nei gesti e nelle parole, che ci dà sicurezza: ci si alza presto al mattino, il ritrovo è sempre al solito posto, un’occhiata veloce ai titoli dei giornali locali e si parte, il luogo è quello dove abbiamo lasciato i nostri amici la sera prima. Il giovedì mattina, a Malcontenta, cerchiamo di essere sorridenti e forti, nascondiamo la preoccupazione che si sta facendo strada dentro di noi. Siamo un supporto per i ragazzi, e per questo è nostra responsabilità fare di tutto per regalare loro energia positiva e calore umano. I ruoli però quest’oggi sembrano quasi essersi invertiti: è la loro rabbia, la loro volontà di vivere in condizioni dignitose, i loro sorrisi ed i loro abbracci a dare forza a noi. Capiscono perfettamente, forse quel giorno ce lo si leggeva in faccia, che abbiamo dei piccoli cedimenti quando la nostra voce trema promettendo, ancora una volta, che a Cona non ci torneranno.
E allora sono loro a farci coraggio, a dirci di non mollare, di credere nella nostra forza, che solo insieme possiamo vincere questa battaglia. Ci ritorna in mente proprio in questi frangenti, completamente coinvolti ed avvolti nella rete di relazioni che abbiamo stretto con i ragazzi,
l’insopportabile immagine infantilizzante promossa da un certo umanitarismo di sinistra, che vede il migrante come un soggetto bisognoso di intervento caritatevole, ma anche quella di chi, da un po’ più a sinistra, ripete stancamente il solito triste rituale ideologico, incardinato sulla necessità di stare dalla parte degli “umili” e lottare per i più “deboli”. Noi però con questi ragazzi abbiamo trascorso giornate intere e ci rendiamo conto della potenza di questi soggetti in lotta che si esprimono e si auto-organizzano. Una potenza che anche la violenza perpetrata dai più forti fatica incredibilmente ad arginare. In verità, come è naturale che sia, ansia e impazienza, ma anche un disarmante senso di impotenza, cominciano a diffondersi velocemente tra tutti noi, solidali e richiedenti. Il campo di battaglia è sempre complesso, si arretra e si avanza, spesso i va per linee oblique. Oltre alla stanchezza fisica e mentale accumulata in questi giorni, i successivi incontri con il Prefetto di Venezia non portano a nessun risultato. La risposta è sempre la stessa: “ci rendiamo conto della situazione ingestibile a Cona, vorremmo trasferirvi tutti in altre strutture, non ci sono posti disponibili”.
Due ragazzi si sentono male e vengono portati all’ospedale. Come è normale che sia, in qualsiasi gruppo di persone costrette a vivere una situazione così stressante, affiorano le prime divisioni interne tra i migranti, ed il ruolo dei portavoce diventa sempre più complesso. In molti ci dicono che sono stanchi di attendere la conclusione di inutili trattative in luoghi sperduti, di essere sballottati da un posto all’altro “come delle bestie”. La sera ed il gelo calano su di noi ,e quasi senza accorgercene l’idea di riprendere la marcia verso Venezia in direzione della Prefettura viene momentaneamente accantonata. Una cooperativa poco distante da Malcontenta, con sede a Spinea, si rende disponibile ad ospitare tutti i migranti in una grande stanza all’ultimo piano dei loro uffici.
Un pullman trasporta tutti i migranti nel luogo indicato, noi li seguiamo in macchina. Arrivati a Spinea la Caritas si organizza per regalare un pasto caldo ai ragazzi, distrutti dopo una giornata veramente complessa, sotto tutti i punti di vista. E’ una scena che abbiamo già visto troppe volte, a fatica salutiamo e ci dirigiamo verso casa.
SPINEA (VE), venerdì 23 novembre.
Ma questo non è un epilogo.
L’ultimo atto di questa grottesca, dolorosa, ma anche vincente e coraggiosa rappresentazione durata tutta una settimana, si conclude con due importanti novità. Seguendo le indicazioni ricevute il giorno prima dal sindaco di Cona, i migranti gradualmente ed a fatica rinunciano alla principale rivendicazione portata avanti durante la settimana, rimanendo fermi solo su una irrinunciabile condizione: la progressiva chiusura del campo. Moralmente distrutti, hanno rinunciato alla pretesa di ottenere una loro immediata ricollocazione; sono persino disposti a ritornare a Cona, novità assoluta che coglie di sorpresa pure noi, ma in cambio vogliono un accordo scritto e firmato dalla prefettura, che garantisca un ricollocamento settimanale, con l’obiettivo di svuotare l’ex base militare in pochi mesi. Dopo giorni di “basta Cona”, non può passare inosservato il cambio di rotta dei richiedenti; hanno compreso, meglio di noi solidali che fatichiamo ad accettare quella che inizialmente ci sembra una sconfitta, che per vincere la guerra si deve essere pronti a perdere questa battaglia. E che per focalizzarsi sull’obiettivo finale, quello di chiudere definitivamente quell’inferno che per loro è Cona, devono rinunciare al loro ricollocamento immediato e mettere da parte, almeno per ora, il sogno di poter essere finalmente (e velocemente) trasferiti. E’ ancora più chiaro a tutti che si sta discutendo non solo delle sorti del Centro di Prima Accoglienza di Cona, ma che in discussione sono state (finalmente) messe anche una cultura ed una politica dell’accoglienza basate sulla speculazione e sulla segregazione dei soggetti migranti.
Allo stesso modo tutti comprendiamo perfettamente che per le istituzioni, cedere su questo terreno e mettere in moto un cambiamento radicale nel sistema di accoglienza così come è strutturato ora, vorrebbe dire danneggiare mortalmente chi lucra sull’esistenza di queste strutture. Ma soprattutto creare un precedente politico insostenibile.
Il tema della “riproducibilità” delle marce che coinvolga più persone e percorra distanze più ampie, preoccupa visibilmente la nostra controparte. Le negoziazioni ricominciano con alcune novità. Non c’è più il Prefetto, ma il suo vice (e questo è chiaramente un campanello d’allarme), ed i ragazzi richiedono la nostra presenza fisica a tutti gli incontri, soprattutto in sostituzione di altre figure che fino ad ora avevano svolto un ruolo di traduttori e mediatori. Inoltre cambia la reazione istituzionale al processo messo in moto dai migranti. Solitamente, in questi casi assistiamo alla funzionale ridefinizione di fenomeni simili in termini di ordine pubblico, una tecnica di gestione dei conflitti che di questi tempi nutrirebbe perfettamente il paradigma securitario fondato sulla cristallizzazione della precarietà e delle insicurezze intorno alla paura dello straniero. Qui invece, per giorni, quel ben affilato marchingegno, normalmente in campo con l’imprescindibile presenza di giornali, telegiornali e social media, si inceppa palesemente; e la situazione in corso, nello spazio pubblico mediatico mainstream, viene rappresentata per quella che davvero risulta essere. Ovvero decine di giovani migranti che si sono ribellati ed hanno marciato, opponendosi ad un sistema di accoglienza degradante e disumano. E per farlo hanno deciso di auto-organizzarsi, per conquistarsi pezzi di libertà e per rivendicare i loro diritti. Abituati a forme più grezze e dirette di criminalizzazione delle lotte, questa ci sembra essere una piccola vittoria. L’unico tentativo di delegittimare la protesta, deformando gli avvenimenti accaduti, è stato quello di etichettarla come etero-diretta e dunque strumentalizzata dagli “antagonisti”. Ma questa retorica non ha attecchito nemmeno per mezza giornata. Chi c’era e c’è stato, anche solo per un pomeriggio, ha perfettamente compreso che il ruolo di noi solidali, nell’arco di tutta la settimana, è stato quello di supportare i richiedenti nelle loro decisioni.
Decisioni che hanno sempre e comunque preso da soli, e che ci siamo sentiti di appoggiare perché giuste. Più volte qualcuno di loro, soprattutto nelle ultime ore, si è avvicinato e ci ha chiesto cosa fare. Ma ciò che volevano da noi era un consiglio da amico ad amico, una risposta alla domanda “ma se tu fossi al posto mio, cosa faresti?”.
In quelle ore però qualcosa cambia. Nel primo pomeriggio la Prefettura gioca la sua ultima carta, quella che aveva riservato nel caso in cui le tecniche di governance più morbide non avessero funzionato. I richiedenti subiscono a questo punto delle intimidazioni dirette, orientate soprattutto a creare fratture e a scomporre il gruppo dopo una intera settimana di pressioni.
La prefettura comunica queste parole, senza possibilità di trattare ulteriormente: “se non rientrate immediatamente a Cona verrà revocato a tutti il diritto stesso all’accoglienza e verranno bloccati tutti i trasferimenti all’interno del campo di Cona per l’immediato futuro”.
La prefettura a questo punto non tenterà più di arrivare ad un compromesso. Non si vuole creare un nuovo precedente, questo è il punto.
Viviamo, richiedenti e solidali, le ore più difficili della settimana: insieme vagliamo le alternative, che non sono molte. Marciare verso Venezia, senza forze e sufficiente motivazione, al buio; oppure accettare le condizioni imposte dalle istituzioni, sperare in nuovi trasferimenti. I richiedenti non si accordano tra di loro, nemmeno i portavoce riescono più a rappresentare la volontà del gruppo. La stanchezza accumulata, la situazione di forte stress e le intimidazioni creano confusione e rabbia, tra di loro alcuni si accusano di tradimento. In questa ultima fase della protesta, molto concitata e di grande confusione, il tentativo di dividere il movimento sembra ottenere qualche frutto.
Uno alla volta però, sofferenti e distrutti dalla scelta che si sentono costretti a fare, decidono di ritornare nel Centro di Prima Accoglienza di Cona, dirigendosi verso un pullman messo a disposizione dalla cooperativa. Non resta nient’altro da fare se non fidarsi della promessa fatta dalla prefettura: ritorneranno al campo ma vigileranno, non solo sui primi cento trasferimenti (che dovrebbero avvenire nei giorni subito seguenti), ma sul progressivo svuotamento del campo.
Nei giorni successivi verrà ribadito, in alcuni momenti assembleari, cosa ha spinto i cinquantadue richiedenti protezione internazionale a ritornare nel campo.
Il lunedì mattina sono partiti, disorganizzati ed alla rinfusa, perché mossi da un sentimento incontrollabile, il desiderio di libertà, a lungo represso in quei mesi di prigionia. Un’esigenza materiale e tangibile dunque, che li riguardava personalmente.
Ma dopo cinque giorni di ribellione e di lotta i migranti – ma anche noi solidali – ci sentiamo tutti attori di un processo del tutto inaspettato, innescatosi con questo esodo, partito dal luogo in cui erano segregati quel lunedì mattina. I ragazzi, prima di salire su quel pullman, ci promettono che riprenderanno immediatamente in mano la situazione, dentro al campo. in pochi attimi lo sconforto si trasforma nel desiderio di ricominciare tutti dal giorno dopo. Organizzeranno assemblee e forme di auto-gestione partecipate e politicamente più mature, coscienti di aver imparato tanto durante tutta la settimana. Costruiranno reti di solidarietà e di cooperazione più larghe tra di loro e con le reti solidali vicine. Consapevoli, noi e loro, che qualcosa si è sbloccato, che l’irruzione sulla scena di una soggettività potente, tutta loro, che è innovatrice, conflittuale, ma sempre aperta al dialogo, può cambiare la realtà circostante. La scommessa ora è un’altra, che va oltre a quelle odiose mura e filo spinato intorno al Centro di Prima Accoglienza di Cona; è tempo ora di immaginare forme sperimentali di organizzazione meticcia, capaci di provocare nuove scosse e nuove forme di cooperazione ribelle. In questi giorni ci stiamo confrontando costantemente, organizzando assemblee e iniziative ed eventi di socialità nelle piazze, negli spazi occupati e nelle Università. Stiamo costruendo insieme le modalità per la partecipazione al corteo nazionale di Roma il 16 dicembre, ma soprattutto stiamo cercando di strutturare le traiettorie future di lotte comuni che a partire dal territorio sappiano evocare immediatamente prospettive politiche dallo sguardo più ampio.