di CLARA MOGNO.
Dal cuore dell’Europa è stata lanciata una sfida a Deliveroo, Ubereats, Glovo e Foodora: sessanta lavoratori delle piattaforme di delivery, organizzati localmente in collettivi o in sindacati e provenienti da dodici paesi (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Norvegia, Olanda, Spagna, Svizzera e Regno Unito) si sono trovati a Bruxelles per un’assemblea che ha dato vita alla prima federazione transnazionale dei riders (Transnational Federation of Couriers).
Le richieste che sono state avanzate dai lavoratori e dalle lavoratrici sono molte ma quelle che sono state riconosciute come più urgenti e importanti sono da una parte l’abolizione del cottimo e la richiesta di una paga oraria, dall’altra la trasparenza rispetto all’uso dell’algoritmo e dei dati da parte delle piattaforme. Caratteristica principale della traduzione digitale del lavoro è infatti il ritorno del cottimo, il pagamento a consegna, a corsa. È questo un sistema di retribuzione basato sulla prestazione del “lavoratore autonomo”, spesso calcolata sui chilometri percorsi, che non considera la messa a disposizione del tempo del rider che, aspettando gli ordini nelle strade e nelle piazze, è con il suo zaino un autentico cartellone pubblicitario dell’azienda. Più consegne si fanno più si guadagna, dunque, ma anche più si è costretti a correre e più si rischiano incidenti e infortuni, come tristemente si legge nelle pagine di cronaca.
I data, poi, la vera ricchezza – denunciano i riders – del capitalismo di piattaforma: come funziona l’algoritmo? Come vengono attribuite le consegne ai lavoratori? E soprattutto, come vengono trattati i dati raccolti dalle piattaforme di delivery? Quello che si sa per certo è che Deliveroo, dopo aver mappato per anni le città in cui è attivo e arrivano a conoscere con precisione scientifica abitudini alimentari, gusti e potere d’acquisto dei consumatori, ha costruito le cosiddette “dark kitchens” per le “Roo editions”. In Francia e in Inghilterra, in zone periferiche della grandi città, si confezionano i cibi che prima venivano richiesti ai ristoranti. Non più un semplice intermediario: il canguro del delivery ha intenzione di eliminare dal rapporto che lega riders, consumatori e ristoranti proprio questi ultimi, sostituendosi a loro. Alla base di questa nuova enorme possibilità di profitto sta la voracità della compagnia che, dopo aver accumulato dati per anni, ora può mettere a frutto la mappatura dei consumi che ha a disposizione – una ricchezza che invece, rivendicano i lavoratori, dovrebbe essere restituita a tutti, consumatori e lavoratori.
L’appello da Bruxelles è lanciato, e la lotta che vuole essere portata avanti ha immediatamente un carattere transazionale. Se il capitalismo di piattaforma agisce in maniera globalmente differenziata, è ora più che mai essenziale da una parte mettere a disposizione di tutti i lavoratori della cosiddetta “gig economy” delle inchieste sulle forme locali di sfruttamento, affinché si possano prevedere le possibili trasformazioni nei diversi paesi, dall’altra preparare un contrattacco che non si limiti alla dimensione europea ma che possa porsi sullo stesso livello delle piattaforme, quello globale.
Che si dimentichi la concorrenza tra lavoratori veicolata dalla gamification e dalla prestazione, che si creino alleanze transnazionali e transcontinentali, che chiunque voglia unirsi alla lotta contro lo sfruttamento nel lavoro digitale possa trovare riferimento e aiuto, che sia una federazione aperta e solidale, che si porti avanti una lotta intersezionale: questo quello che vuole creare la prima Transnational Federation of Couriers (Federazione Transnazionale dei Fattorini).
E Uber, che ha appena annunciato Uberworks, non avrà gioco facile. La sfida è lanciata.
questo testo è stato pubblicato sul manifesto il 28 ottobre 2018