di GIROLAMO DE MICHELE.
Non saprei dire se inquieta più, delle linee guida sulla politica culturale presentate dal ministro Giuli, la “parte più teoretica” nella quale viene calata l’azione presente e futura del ministero, o la facile ironia con la quale è stato liquidato senza essere analizzato criticamente il suo discorso: viene il sospetto che una sinistra che si pretende critica non sappia riconoscere una cultura di destra, se non apertamente fascista, neanche quando se la trova davanti. Ad analizzare i contenuti, come ha fatto sul manifesto del 9 ottobre Arianna Di Genova, emerge non solo una guida politica che, in assenza di fondi, farà cassa col patrimonio culturale, ma la riproposizione di quella cultura – condivisa da molta parte degli amministratori locali “di sinistra” – che considera il patrimonio culturale una merce da mettere a valore, privilegiando l’attrazione turistica sulle politiche sociali, magari ammantando il tutto con una pennellata di “decoro”.
Ciò premesso, ci sono numerosi indizi che rivelano una matrice di nuova destra, o destra radicale, nelle parole di Giuli. Lasciando da parte le battute sui neologismi, il primo indizio è lo stile ricercato, che si vorrebbe aristocratico, raro e algido; che il risultato sia raggiunto, o che si scivoli nel kitsch, l’intento formale del ministro è l’aspirazione ad altezze dalle quali osservare con distaccato disprezzo il formicaio umano giù in basso: il che non è fascista di per sé, ma lascia un sospetto di evolismo (ricordo che le ceneri di Evola furono in parte calate in un ghiacciaio). Così come è un indizio la ricerca insistita di “terze vie” – nella quale Miguel Benasayag viene depotenziato a mera espressione di un mood culturale, senza che la cosa susciti proteste. Di nuovo, non è necessario essere culturalmente fascisti per ricercare una “terza posizione”, anche se a volte il pedigree politico induce a sospettare; ciò che costituisce una cultura fascista (il che non significa essere politicamente fascisti) è la saldatura con tre capisaldi della cultura di destra: l’eclettismo acritico, l’attualismo, e il mito del genio italico. Parafrasando Eco, non è fascista di per sé citare Gramsci – lo è un po’ di più citarlo dopo averne cancellato la lotta di classe e le battaglie culturali (come avviene da tempo con Pasolini): ma è fascista citare Gramsci con Mishima. Perché questo sincretismo senza apparenti limiti rimanda a un’attualizzazione eternizzante: come se i “grandi” avessero tutti (non si trovano donne negli elenchi di Giuli, ma tant’è…) pensato verità eterne in un eterno presente in atto. Che è quell’uso del passato, che trova espressione nell’attualismo gentiliano, contro cui si è scagliato di recente Alessandro Giammei nel suo Gioventù degli antenati: un’attualizzazione che trasforma i classici in uno specchio nel quale l’attualizzatore (compreso lo stesso Giuli) rispecchia se stesso. Ne è riprova il terzo tratto, quell’italianità che caratterizzerebbe una sequenza di personaggi, fra i quali viene annesso, con un colonialismo culturale retroattivo, persino il greco Pitagora, che si muoveva fra i due capi di un mondo greco. Così il fascista Marconi, uomo dalla discutibile morale orientata al profitto, che impose il lucroso monopolio delle proprie stazioni radio, si ritrova accanto a Meucci, che produsse fior di invenzioni fra Cuba e New York, mosso non dallo spirito italiano ma dai bisogni dei poveri, e i cui proventi andavano a finanziare i fuoriusciti mazziniani in America, o l’acquisto di armi per la rivoluzione repubblicana. Che la cultura sia prodotta non dal genio individuale, ma dalla cooperazione collettiva è qualcosa che l’evoliano Giuli non riesce proprio a pensare: ma il problema è Giuli, o i suoi critici che si fermano allo sberleffo senza saperne leggere i segni di un eterno fascismo?