di TONI NEGRI.
Siamo alla terza giornata dello sciopero SNCF, sentiamo alla televisione il «padrone», il ceo Pépy: «ci saranno pochi treni», preannucia – poi aggiunge che lo sciopero fatto in quella maniera, due giorni alla settimana, rischia di essere più pesante di quanto già lo sia, disorganizzando completamente il traffico ferroviario, provocando mancanza di materiali per l’aggiustamento e la conduzione del sistema. Sto guardando la televisione con un compagno di SUD-RAILs. Ridacchia, ascoltando Pépy. Poi mi dice: «lo sciopero va bene, lo spirito è alto. Fra i conduttori c’è attorno all’80% di adesione, nascondendo il fatto che l’altro 20% (che secondo loro non sciopera) in realtà è a riposo. Poi dicono che il personale non viaggiante non sciopera quasi più – non è vero – comunque a molti glielo diciamo noi di non farlo, così SNCF spende soldi improduttivi… Il fatto grosso è che non ci sono isteria e panico nelle stazioni, che la gente ci sostiene da quando lo sciopero è cominciato. Guarda come stanno crescendo le casse di sostegno allo sciopero, sono cifre da sogno, che non avremmo mai pensato di poter raggranellare, in pochi giorni milioni di euro…». Ma la reazione di Macron è durissima, continuo io, la pressione sui media comincia ad essere pesante. «La SNCF sta dando di matto – aggiunge lui – vuol far pagare agli scioperanti anche il danno procurato nei giorni successivi allo sciopero, finchè non ricomincia l’andamento normale delle linee. E poi sono durissimi, le donne e gli uomini di Macron, anche al tavolo della trattativa – che in realtà non esiste più – l’ultima volta che ci siamo visti è finita quasi a botte. E intanto comincia la discussione in parlamento, dove vogliono senz’altro votare subito la nuova legge».
Mi viene da chiedergli: se questo avviene, su cosa lotterete più? Porto la discussione su altre cose che lui già perfettamente conosce. Gli ricordo quanto avanti siano già andati avanti i padroni e quanto il meccanismo di apertura alla concorrenza (privatizzazione) delle ferrovie sia avanzato. È già dal ’97 che la direttiva europea è stata fatta propria dal governo e dalla SNCF e sono stati divisi il settore merce e il settore viaggiatori. E tra il 2003 e il 2006, prima i trasporti internazionali, poi quelli interni (per un buon 40% del mercato) sono stati privatizzati; e dal 2009 si può andare su treni privati da Parigi a Venezia e da Marsiglia a Milano, e poi… è già previsto che dal 2019 le regioni possano privatizzare i treni regionali e dal 2020 anche i TGV. Siamo in un ritardo che fa schifo dal punto di vista della resistenza al progetto. Il mio compagno mi fa notare quanto questi ritardi siano ora generalizzati: «anche nella scuola e nell’università la capacità di intervento del sindacato si era stancata – ed ancora oggi ristagna. Non c’è stata, ad esempio, da parte dei docenti e dell’amministrazione universitaria, la capacità di reagire alla legge che appesantisce la selezione nell’accesso all’università. È impressionante – aggiunge – quello che è avvenuto lì – i prof. si sono trovati imprigionati e ricattati da un algoritmo predisposto dal Ministero, che non richiede in realtà una loro partecipazione se non per dare un volto umano – e gratis – al lavoro di selezione (che già l’algoritmo può d’altronde tranquillamente completare). Son professori… non si capisce più di cosa, se non capiscono che l’attacco va portato all’algoritmo, pretendendo innanzitutto la sua trasparenza ed in secondo luogo essendo capaci di trattare di trattare, di intervenire sul suo funzionamento. Anche nelle ferrovie la lotta è impari finchè non si riesce a capire che i problemi del salario, così come quelli dell’organizzazione del lavoro, dipendono dall’algoritmo e che il nostro problema è quello di metterci su le mani prima che sia privatizzato».
«Non prendiamocela troppo. Questo sciopero non sarebbe possibile se il neoliberalismo non mostrasse forti segni di crisi». Non è un discorso consolatorio, quello che entrambi, il mio compagno ferroviere ed io, facciamo – è il sentimento che la pentola bolle e che, anche se non scoppia, bollendo può ben liquefare quel sistema di anticipazioni tecnologiche e performative della governance e quell’insieme di conseguenti misure regolamentari e di privatizzazioni che hanno messo la massa dei lavoratori al tappeto. Questa è una rivolta contro la precarizzazione, contro la condizione generale cui la società messa al lavoro è stata ridotta. Se poi la pentola scoppiasse… Insomma, concludiamo, ci sono un sacco di cose che funzionano dentro questo sciopero – e soprattutto comincia a realizzarsi quella convergenza necessaria a ristabilire un nuovo rapporto di forza. La sente bene il potere, questa convergenza, e ne ha paura. Eduard Philippe, il primo ministro, continua a dichiarare che «la convergenza non si vede» – sono persino simpatiche queste sue dichiarazioni performative, rispetto ad una stampa e a dei media che non desiderano altro che essere imboccati a questa pratica repressiva. Di fatto, ci sono due cose che vanno in parallelo: la percezione sociale che Macron è fino in fondo un uomo della destra neoliberale (smascherando così ogni illusione prodotta dalla sua elezione presidenziale) e dall’altra parte lo svilupparsi di un’intensa aggregazione di forze autonome sul terreno della lotta. In primo luogo, dunque: i sondaggi dicono che più del 50% dei francesi considera ormai Macron un «uomo di destra». È questa lotta che produce, sul chiaro sfondo dello scontro di classe, lo scivolamento a destra del regime e ne rivela l’intensità – uno scivolamento a destra che ormai si esalta nell’apologia securitaria della repressione di ogni movimento (2500 gendarmi mandati a sgomberare qualche centinaia di difensori della ZAD di Notre-Dame-des-Landes; l’utilizzo di bande fasciste per creare i presupposti dell’intervento poliziesco contro le occupazioni di università che si intensificano; ecc.) e, più in alto, nelle stanze della politica, in un cammino (ormai intrapreso e inarrestabile) per trasformare i luoghi di decisione del governo repubblicano in una macchina autoritaria. Guardando quel che succede fra l’Eliseo e il parlamento, ci si può divertire a ritrovare somiglianza con quel che Marx descriveva nel Diciotto brumaio. Non è noioso ripeterlo: sono il potere repubblicano francese e le sue diverse e ripetibili maschere ad essere noiose… ed un tantino infami, oltre che comiche.
Di contro, d’altro lato, i primi segni del formarsi di un nuovo linguaggio politico nel rapporto tra operai e studenti, tra lavoratori del terziario logistico e opedaliero, insomma, fra gli attori di uno sciopero sociale che sempre di più viene configurandosi. Certo, è Davide contro Golia, un rapporto di forza del tutto sproporzionato: eppure è solo procedendo così, che questo nuovo, frammentato e precario proletariato può conquistare una potenza d’attacco adeguata, e ricostruire e rilanciare una proposta di liberazione. In questa mefitica epoca di agonia della socialdemocrazia, è una primavera, un’eccedenza vitale, quella che sta qui, in Francia, configurandosi in queste settimane. All’interno della «stabilizzazione reazionaria» che domina l’Europa, divengono evidenti i segni della crisi neoliberale. Da quel che avviene in Francia può trarsi l’ipotesi dell’inizio di un nuovo ciclo di lotte di classe.
Diamoci da fare: stiamo di nuovo imparando quanto male fa la lotta di classe ai padroni.