di ROBERTO CICCARELLI.

Luigi Di Maio è impegnato in una battaglia: dimostrare che il sedicente «reddito di cittadinanza» del suo governo non è una «misura assistenzialistica». Così lo ha definito ostinatamente, ancora ieri, il presidente del Pd Matteo Orfini. Di Maio ha ragione: il suo «reddito» è un sussidio minimo condizionato all’inserimento lavorativo e alla riqualificazione professionale dei «poveri assoluti» italiani, e non stranieri residenti, attraverso le cosiddette «politiche attive del lavoro». Non di assistenzialismo si tratta, ma di workfare neoliberale. Per avere un sussidio il «povero» deve lavorare, formarsi, dimostrare di essere disponibile ad «attivarsi» nel periodo corrispondente all’erogazione del «reddito». Workfare significa: work for welfare, lavorare per avere un «benessere» (beneficio), rivolto a chi è obbligato a svolgere lavori per la comunità e a formarsi in cambio di un compenso variabile, decrescente e vincolato a «obiettivi». Come nel terribile ⇒ Io, Daniel Blake, il film di Ken Loach, il workfare è concepito come un modello performativo alternativo al welfare state considerato «assistenziale» [cfr. Il “reddito di cittadinanza” è la cura Daniel Blake, qui].

Non è nulla di nuovo in Italia, un paese che sta scoprendo solo da poco l’applicazione delle più problematiche tecniche neoliberali già presenti in Europa o negli Stati Uniti. Il Pd dovrebbe saperlo: il «reddito» del governo gialloverde è la logica continuazione, con un piano più ampio, del «reddito di inclusione» («ReI») istituito nel 2016 e oggi finanziato con circa 2,5 miliardi di euro all’anno. Alla luce degli elementi conosciuti, fino ad oggi, il «ReI», e i relativi fondi, dovrebbero confluire nella nuova riorganizzazione del sistema che comprende anche un ripensamento dei centri per l’impiego. L’indirizzo politico di ciò che M5S chiama impropriamente, e strategicamente, «reddito di cittadinanza» è definito. I dettagli saranno formalizzati nella loro completezza in un collegato alla legge di bilancio di cui l’aggiornamento del Def è la macro-cornice.

Ieri il vice-premier ministro dello sviluppo e del lavoro Di Maio ha ribadito le intenzioni morali con il quale il legislatore si rivolgerà ai «poveri assoluti». L’obiettivo è mostrarsi inflessibili rispetto a presunti «free-riders» (approfittatori del workfare). «Non darò un solo euro a una persona che vorrà stare sul divano senza fare nulla ha ribadito. Con il reddito di cittadinanza facciamo un patto: vai nel centro per l’impiego, dove ti impegni per 8 ore a settimana nei lavori utili e intanto ti devi formare per un lavoro. Passi la giornata così, poi ti faccio tre proposte di lavoro. Se le rifiuti, perdi il reddito, se le accetti, perdi il reddito».

Quanto all’importo totale del sussidio per individuo Di Maio ha iniziato ad abbozzare una stima. «Il reddito di cittadinanza non dà 780 euro da zero a 6 milioni e mezzo di persone. È integrativo al reddito», ovvero «non ci sarà più nessuno che potrà guadagnare o avere una pensione minima sotto i 780 euro». Per capire come funzionerà non va presa la cifra complessiva di 10 miliardi di euro ufficialmente destinati al «reddito». I «10 miliardi» sono la somma di fondi diversi: 1,5 per i centri per l’impiego, 2,5 per il «ReI», 330 milioni per la «garanzia giovani», 6-700 milioni per il sussidio «Naspi» e altre non ancora precisate voci. Le risorse liberate in deficit permetterebbero di avere più, o meno, 5 miliardi in più per finanziare una misura destinata a 6,5 milioni di persone. Questa dovrebbe essere la somma tra circa 4 milioni di «poveri assoluti» italiani, esclusi gli stranieri residenti «poveri», e circa 1,6 milioni di pensionati che percepiscono un assegno inferiore ai 500 euro. Questi ultimi saranno destinatari della cosiddetta «pensione di cittadinanza».

Platee diverse, per misure diverse, per le quali è stato deciso lo stesso tetto di 780 euro. Per i pensionati è prevista un’integrazione media di 300 euro mensili; per chi è in età di lavoro la cifra finale potrebbe essere il risultato delle differenza tra il reddito familiare e il tetto di 780 euro. In media si parla di un sussidio di 480 euro mensili, cifra che potrebbe essere più bassa perché dipenderà anche dall’analisi di altri requisiti: la disponibilità morale e soggettiva dell’individuo a cercare lavoro, verificata dai 550 centri dell’impiego «riformati» in un tempo non ancora prevedibile e con modalità ancora da scoprire.

Di Maio ha presentato su Facebook Mimmo Parisi [qui], fondatore del «National Strategic Planning and Analysis Research Center», creatore di un sistema di «On-demand work» il «Mississippi Works» adottato dal governatore del Mississippi Phil Bryant per fare incontrare la domanda e l’offerta di lavoro in uno degli Stati americani con il costo del lavoro e il tasso di partecipazione al mercato del lavoro più basso negli Usa. Nelle settimane scorse era circolata anche la notizie di colloqui con esperti tedeschi che gestiscono il mercato di mini-jobs e dei centri di collocamento.

Il Mississippi è il primo stato Usa ad avere adottato una tecnologia elaborata dal Nsparc, il Mississippi Works system, un’applicazione web e mobile che abbina l’utente ai lavori disponibili nello Stato incrociando i dati del suo retroterra educativo e quello lavorativo. Questo è possibile perché esiste un data base centralizzato a livello statale che permette di profilare il lavoratore mettendolo a disposizione delle esigenze delle imprese. La piattaforma è stata sviluppata dal Nsparc diretta da Parisi secondo il curriculum vitae docente anche all’università di Catania raccoglie e combina i dati di diverse agenzie statali.

L’incrocio tra domanda e offerta realizzato su piattaforma è stato definito Workforce on demand. Sul sito dell’iniziativa [qui], ad oggi, ci sono 48.177 lavori disponibili. Si va dal medico, al vigile del fuoco, dal barista part-time al baby-sittering. Le posizioni sono profilate anche rispetto alla distanza in miglia necessarie per raggiungere il lavoro. Il software può essere scaricato anche su uno smartphone e il lavoratore può procedere alla ricerca. In sé non è nulla di nuovo. Simili tecnologie sono usate anche nel nostro paese. Ma sembra che in Mississippi siamo molto soddisfatti al punto che il governatore Bryant ne ha fatto la cifra della sua politica. Nell’ottica della competizione tra Stati Usa per attrarre investimenti dalle multinazionali, la piattaforma è presentata come il supporto che ha dato al Mississippi un vantaggio rispetto agli stati con una popolazione più numerosa. Sul territorio hanno installato le loro attività la Nissan, la Toyota e altre.

Al di là della presunta efficienza della piattaforma, è forte l’impressione che l’arrivo di queste imprese in Mississippi sia dovuto al basso costo del lavoro. Secondo l’analista economico Corey Miller [qui], va considerata un’altra caratteristica dell’economia locale: il basso tasso di disoccupazione (4,5%, record in Usa) è accompagnato dal basso tasso di partecipazione al mercato del lavoro (55.9, il più basso dopo la Virginia dell’Ovest). Significa che la forza lavoro, anche se on demand, si attiva molto poco. E l’altra metà della popolazione? Semplicemente non è attiva, non è rilevata dalle statistiche.

Situazioni come queste vanno studiate per capire cosa accadrà in Italia se, e quando, arriverà la rivoluzione della app-che-trova-lavoro. In un’economia dove la disoccupazione è più che doppia, il tasso di partecipazione al mercato del lavoro è altrettanto basso (siamo al 58%), e l’economia informale e in nero è presumibilmente diffusa anche tra i poveri assoluti ci si chiede il grado di efficacie e le prospettive di queste tecnologie.

Di Maio sta scommettendo sul salto quantico dalla situazione pre-analogica dei centri per l’impiego verso l’applicazione dell’intelligenza artificiale in una manciata di mesi. Non è possibile, al momento, misurare l’attendibilità di tali pretese, ma è possibile constatare almeno un dato: in Italia non è mai decollato il cosiddetto fascicolo elettronico che, secondo il Jobs Act, avrebbe dovuto costituire il primo passo per un database capace di incrociare i dati dei cercatori di lavoro. Il modello di ricerca, on demand, dei profili dovrà anche scontrarsi con l’inadeguatezza delle infrastrutture digitali dei centri per l’impiego esistenti (nel 72% dei casi a Sud e nelle isole). Senza contare che qualsiasi intervento sul collocamento, a partire dall’uso dei dati dei lavoratori, dovrà essere concordato con le regioni. E non va nemmeno dimenticato che anche i comuni sono coinvolti nell’attività di profilazione, analisi e controllo sociale del grado di partecipazione al mercato del lavoro da parte dei lavoratori.

A questi fattori va infine aggiunta la carenza del personale formato e capace di affrontare la rivoluzione digitale che sembra prospettarsi. In Italia ci sono solo 8 mila persone impegnate nel settore. In Germania ce ne sono 100 mila. Nel 1,5 miliardi di euro per i centri per l’impiego sarebbero contemplate anche le assunzioni, oltre che la formazione (chi la farà?). Il governo punta ad avviare, addirittura da marzo, il nuovo modello. Considerata la natura, e la vastità, dei problemi è un impegno scarsamente credibile. Ma le elezioni europee 2019 incombono e il reddito di cittadinanza è usato come strumento del consenso sulle spalle dei poveri assoluti.

questo testo è stato pubblicato sul manifesto del 30 settembre 2018 col titolo: “Di Maio: «Il nostro reddito di cittadinanza non è assistenzialismo»”

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