di GISO AMENDOLA.

All’inizio degli anni Novanta, nel 1993, due anni prima della morte di Gilles Deleuze, Michael Hardt pubblica uno dei primi lavori monografici in lingua inglese dedicati al filosofo di Logica del senso e Differenza e ripetizione: oggi Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia torna disponibile grazie a DeriveApprodi e alla “neonata” collana OperaViva (l’edizione italiana è a cura di Girolamo De Michele, la traduzione è di Cecilia Savi).Quando esce originariamente il libro di Hardt, la recezione di Deleuze nei paesi anglosassoni sta avvenendo a seguito di quell’ondata di interesse per il pensiero radicale continentale che ci avrebbe fatto parlare poi di una French Theory. Il libro di Michael Hardt ha davanti originariamente questo panorama: il poststrutturalismo è stato sì accolto nel panorama americano, ma è stato letto soprattutto come una sorta di più o meno ironica e disincantata critica del fondamento, un abbandono lineare e senza scosse della tradizione filosofica, senza che questo congedo riesca a sviluppare una reale potenza costruttiva e critica.

L’obiettivo dichiarato di Hardt è quello di ribaltare questa visione del poststrutturalismo: si tratta di rivendicare al poststrutturalismo la capacità di attraversare la modernità cercandone le “filiazioni alternative”, e di affrontare la questione del fondamento evitando di rimanere impigliati nella meditazione perpetua sulla sua eclissi.

Le tappe di un percorso

Oggi le carte in tavola sono cambiate: più che mirare a spegnere la sua forza critica edulacorandola, l’attacco al poststrutturalismo, e a Foucault e Deleuze in particolare, tende esplicitamente ad accusarlo per una sorta di complicità, più o meno consapevole, con lo stesso neoliberalismo. Il desiderio in Deleuze? Cedimento alle passioni “appropriative” del neoliberalismo. L’attenzione alle soggettività, alla pluralità, al divenire e alla trasformazione? Apologia, più o meno mascherata, dell’individualismo, del soggetto-impresa. Davanti a questa nuova, fastidiosa chiacchiera, la ripubblicazione del libro di Hardt è una boccata d’aria salubre, e, insieme, una sfida quasi provocatoria a tutti i discorsi sull’ambiguità politica del poststrutturalismo.

La lettura che Hardt offre di Deleuze, e più precisamente dei suoi primi grandi incontri filosofici con Bergson, Nietzsche e Spinoza, si separa infatti da qualsiasi concessione alle retoriche di un facile “postfondazionismo”: è anzi una rivendicazione fortissima del nesso tra ontologia, etica e politica nel discorso deleuziano. La forza di queste pagine, oggi forse ancor meglio apprezzabile, è mostrare come il poststrutturalismo, per quanto ci si affanni a mostrarlo come un astruso gioco culturale, se non “culturalista”, sia in realtà ben impiantato nel campo della produzione: produzione dell’essere, della soggettività, e infine dell’organizzazione.

Prima stazione del percorso: la questione ontologica. Questione spinosa, a cominciare dallo stesso uso del termine “ontologia”. Perché – ed Hardt ne è perfettamente consapevole – la tradizione filosofica ha operato un vero e proprio sequestro del discorso ontologico. La ripresa dell’ontologia nel Novecento richiama immediatamente la concezione della differenza in Heidegger, tutta nel segno del sottrarsi dell’essere, del ritirarsi del fondamento: non a caso, è ontologia frequentata da tutte le meditazioni sull’eclissi dell’essere, di indole sia tragica che ironica, che popolano il postmoderno.

Di ontologia in Deleuze, invece, si può parlare a buon diritto proprio in quanto la si installa all’interno di tutt’altra tradizione: quella affermativa e positiva che legge la differenza come produzione interna dell’essere, e immanente all’essere stesso. La differenza non “cade” dall’essere, non lo nasconde, non lo cancella, come avviene nell’emanazionismo di marca neoplatonica: la differenza non è destinata ad errare nel mondo delle ombre. Hegel imputava una concezione di questo tipo, dove l’essere fa impallidire ogni differenza, proprio a Spinoza: Deleuze invece ricolloca l’ontologia spinoziana al posto che le pertiene, all’interno di una concezione, che il filosofo francese chiarisce già nei suoi primi scritti su Bergson, secondo la quale la differenza, anzi le differenze, sono movimento dell’essere, non distanza e caduta dall’essere e suo infinito consumarsi.

Ma ancor più che contro la “differenza ontologica” di Heidegger, l’ontologia deleuziana ha come suo nemico principale la dialettica hegeliana. Per Hegel, la differenza non può che essere concepita come determinazione: a sua volta, la determinazione è un movimento di negazione. Ci si determina negando attivamente l’indifferenziato, l’indeterminato, in ultima analisi negando quel nulla che coincide con la purezza astratta dell’essere.

Oltre Hegel

È, per l’appunto, l’attacco fondamentale di Hegel a Spinoza, poi ripetuto da tutti coloro che vedranno nell’idea dell’essere produttivo sempre una minaccia dell’informe, del caotico, del mancante di differenziazione. La replica di Deleuze è molto decisa: la determinazione come atto di negazione non fa altro che introdurre una dimensione radicalmente esterna al movimento dell’essere. La negazione fa dipendere la determinazione da una causa esterna: l’essere che si determina negandosi è un essere eternamente dipendente, sempre bisognoso di qualcos’altro.

Hardt richiama giustamente l’attenzione sull’importanza che ha il concetto di causa efficiente nell’ontologia deleuziana: la causa necessaria, non contingente, non è mai la causa materiale, cui guardano tutti i materialisti ingenui, che interviene in modo del tutto contingente, e neppure la causa finale, amata dai platonici, che pone l’ordine come fine trascendente: l’unico concetto di causa che può muovere un materialismo fondato sulla potenza produttiva dell’essere, è la causa efficiente, la causa sui degli scolastici.

L’effetto non cade mai al di fuori della causa, e, allo stesso modo, la differenza è sempre produzione interna del movimento dell’essere: l’essere non manca di nulla. Non opposita, sed diversa: non la determinazione per opposizione e negazione, ma l’essere come matrice di produzione di differenze.

Superamento del negativo

Questa opposizione netta all’idea di determinazione per negazione da un lato segna tutta l’ontologia produttiva deleuziana, dall’altro apre alla sua portata etica affermativa. Ci sono nel testo di Hardt alcune pagine bellissime, sulla dialettica servo-padrone, che chiariscono come la scelta deleuziana per il movimento positivo della differenza, contro la determinazione attraverso il negativo, ci porti nel cuore di scelte etico-politiche fondamentali.

Cosa significa, concretamente, immaginare la differenza come negazione? Significa per esempio, che il servo hegeliano sceglie di determinarsi, di fronte all’assoluto indeterminato che è la morte, rivolgendo la propria forza contro se stesso, realizzando la propria autocoscienza attraverso l’educazione al lavoro. Nei termini di Nietzsche, si tratta di una triste e infelice etica del risentimento contro la propria stessa potenza. In termini hegeliani, è attraverso il negativo, tenendo a freno il desiderio, che lo schiavo conquista la sua essenza.

Hardt ricorda qui l’Alfonso voce narrante e protagonista del Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, il giovane migrante meridionale nelle fabbriche del Nord Italia degli anni Sessanta e Settanta: “mai mi è venuto in mente di festeggiare il lavoro”, dice Alfonso, quelli che individuavano pane e lavoro come propria essenza erano irrecuperabili. Primo movimento: distruggere l’idea che ci si determini nel trattenimento, in un dirigersi della propria forza contro se stessi. Appunto, distruggere l’idea che “ogni determinazione è negazione”.

Contemporaneamente, si apre il secondo movimento: la distruzione del negativo diventa scoperta felice che quella esigenza di lotta, di liberazione della propria forza, è esigenza condivisa negli incontri: “la gioia di essere finalmente forti. Di scoprire che ste esigenze che avevano sta lotta che facevano erano le esigenze di tutti era la lotta di tutti”, sempre per dirla con le parole di Alfonso.

L’incontro con Spinoza

Non si potrebbe indicare meglio che con questa gioia di operai irriducibili al lavoro che scoprono la pars construens della loro lotta, il passaggio dall’ontologia all’etica: dall’essere come produzione, all’essere come producibile, per dirla con Hardt. L’affermazione ontologica dell’essere come produzione immanente, causa sui, distrugge l’alterità del fondamento, la sua lontananza, e contemporaneamente, afferma l’essere stesso come il risultato, sempre aperto, di un processo di produzione da parte delle differenze.

Hardt, indagando soprattutto l’incontro di Deleuze con Spinoza, aiuta qui a fare piazza pulita di un altro ritornello, spesso recitato dai custodi del “negativo”: quello per cui questa visione dell’essere come produzione ci consegnerebbe a una sorta di beatitudine statica, a un ottimismo metafisico paradossalmente impotente. Il punto è che l’ontologia della produttività dell’essere ci apre sì a un essere “mobile e malleabile”, dinamico e produttivo: ma, allo stesso tempo, ricorda Hardt “alla potenza di esistere e di agire corrisponde la potenza di essere affetto”.

Deleuze trova specialmente in Spinoza questa congiunzione tra produzione e affezione: affezioni attive, che corrispondono all’essere causa di noi stessi, adeguati alla nostra potenza attiva d’essere e produrre, ma anche affezioni passive, da cause esterne, dove la potenza non coincide con la propria causa. E questo incrocio materialistico di produzione e affezione apre tutto il gioco degli incontri, felici o infelici, delle variazioni della potenza, del suo accrescersi in combinazioni che corrispondono felicemente alla struttura dei corpi, come del suo andare a male negli incontri inappropriati. L’essere non solo non è il fondamento che, immoto, ci sostiene, non solo è il processo sempre aperto che ci produce ma è, al tempo stesso, anche il prodotto della nostra capacità, sempre reversibile, di trasformarci attraverso affetti e passioni.

La politicità riscoperta

Da questa etica della produzione della soggettività, ontologicamente impiantata, si genera una politica degli assemblaggi e della sperimentazione di organizzazione, a partire dal piano sempre aperto della trasformazione sociale. Alla determinazione attraverso il negativo corrisponde l’idea di un Ordine che si impone sempre come causa esterna su un molteplice, letto inevitabilmente come campo del mancante e del carente, bisognoso dei suoi pastori: l’ontologia produttiva apre invece lo spazio di una politica che certo “benedice” il molteplice e la pluralità, ma che non per questo ignora il nemico, le sanguisughe che separano continuamente la potenza dalla sua causa, che provano a recintarla attraverso le “strutture verticali dell’ordine”.

Un campo aperto: e certo aperto resta completamente il tema, intensamente politico, dell’organizzazione e della costituzione, in altri termini il problema di come evitare che questa incessante produttività della società si affermi solo in un campo d’orizzontalità liscio, senza riuscire a darsi consistenza e durata. Molti materiali, nel lavoro remoto e recente sulla politica deleuziana, possono approfondire concetti fondamentali come, per esempio, quello di istituzione: pensiamo per esempio, alle ricerche che sull’istituzione in Deleuze ha condotto negli anni Ubaldo Fadini, nel segno di uno sviluppo originale del tema della “positività” in Deleuze, o a tutto il dibattito recente sulla giurisprudenza in Deleuze come modello alternativo alle concezioni legalistiche del diritto (ne è un esempio un libro di De Sutter su Deleuze e il diritto di qualche anno fa).

Intanto, questo solido materialismo radicato nella produzione/produttività dell’essere può lottare contro il neoliberalismo strappandogli il vero segreto della sua potenza: l’infamia con cui traduce nel linguaggio della proprietà e della valorizzazione capitalista la forza dell’autonomia della cooperazione sociale, del pluralismo e dell’autorganizzazione. Altro che alleati del neoliberalismo: questi poststrutturalisti che scansano felicemente il negativo e benedicono il molteplice sono quelli che insegnano come affrontare il nemico senza attestarsi su posizioni reattive o nostalgiche, come non lasciare ai neoliberali la forza di un sociale capace di affermazione e di trasformazione.

Questo articolo è uscito su Il Manifesto il giorno 08.07.2016

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