di FRANCESCO FESTA.

 

 

La città in quanto tale, e a maggior ragione quella contemporanea, emerge oltre il mero accumulo del costruito. L’urbanistica, la sociologia urbana, la statistica ne riflettono la natura demografica. La studiano, la sorvegliano, ne vigilano i processi complessivi. Costituiscono la rappresentazione sintomatica su cui s’installano i discorsi che producono l’immagine in cui la città si riconosce. Vi è però un resto, un’eccedenza che si salva da questo meccanismo di potere: lo spazio dell’abitare, ossia quello spazio all’interno della città dove si possa vivere.

In un volumetto Eterotopia, composto di due scritti, Michel Foucault affronta la questione dello spazio con un approccio relativamente trasversale. Ne isola le parti costitutive del problema, per lo meno entro i discorsi architettonici e urbanistici, per porre la questione dell’intelligibilità dello spazio, ossia lo spazio dove si è soliti abitare o trattenersi con il corpo e con il pensiero. Tra le faglie del potere, Foucault registra l’esistenza di veri e propri «stati topologici d’eccezione»: «le utopie e le eterotopie». Queste ultime sono «spazi differenti […], luoghi altri, una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo»1. Le eterotopie sono dunque «luoghi altri» in cui trovano spazio territori ontologicamente ibridi sospesi tra reale e immaginario, faglie fra i discorsi assoggettanti in cui esercitare contro-condotte, spazi dell’alterità, della libertà e dell’uguaglianza. In altro modo, sono quegli spazi che Italo Calvino inserisce tra le confidenze di Marco Polo all’imperatore dei Tartari Kublai Khan. Tra Le città invisibili, «nell’inferno che abitiamo tutti i giorni», vi sono due modi per non soffrire le città infernali: «il primo riesce facile a molti, accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più […] il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio»2.

 

MM1Ha a che fare con questa ricerca la decisione di Walter Benjamin di non catalogare la città, ma di solcarla, di evaderne la forma e di percepirne la materia: la pura eterogenesi dei fini della destinazione, la strategia benjaminiana per disattivare la cosa-città in quanto esercizio di contemplazione tra gli altri, e di analisi di quelle che sono le densità piuttosto che i modelli della metropoli come “non-luogo”, descrizioni post-moderne dell’esperienza urbana. Un punto di osservazione, quello dei Passages di Benjamin, che nel raccogliere una miriade di dettagli apparentemente marginali ci consegna un fatto di una complessità straordinaria, pari all’inferno di Calvino e adeguato a svelarci la stratificazione, il senso della storicità, i processi di produzione e riproduzione, l’accumulo di merci-spettacolo, e via discorrendo.

In effetti, la metropoli europea, nella propria forma disseminata, assume come centrale lo spazio dell’abitare, lo spazio in cui persone di ogni provenienza e classe sociale si mischiano e finiscono per produrre una forma mutevole e contingente di vita in comune.  Quando Michael Hardt e Antonio Negri definiscono la metropoli «fabbrica della produzione del “comune”», intendono dunque sottolineare che essa costituisce il terreno privilegiato per ogni forma di pratica politica: la metropoli non è un’immagine o un modello catalogabile, bensì il luogo della densità, l’insieme di coloro che abitano lo spazio e ricercano la forma del vivere in comune per fuoriuscire dalle «città infernali».

Nella variante foucaultiana, la metropoli è una grande «matassa», un «campo di produzione», dove non si tratta né solo di produzione di plusvalore, né di «produzione di spazio» nel senso di Henri Lefebvre, oppure di fissazione spaziale dei surplus di capitale nella produzione di spazi urbani di David Harvey. Lo spazio urbano non è solamente uno spazio investito dal capitale ma anche e soprattutto campo di riconfigurazione simbolica e di produzione di nuove soggettività sociali: ossia, una fabbrica di soggettività sociali. È un «corpo senza organi», per dirla con Deleuze-Guattari, in cui nuove forme di assoggettamento e di soggezione vengono sperimentate e, allo stesso tempo, un luogo d’irriducibilità del corpo politico al desiderio dispotico, in quanto sfugge a ogni totalizzazione ultima e sfugge anche alle nuove forme di inibizione e recinzione dei commons, all’ondata di privatizzazione, controlli, dispositivi di ordine pubblico e sorveglianza che si abbatte sulla qualità della vita urbana in generale e sulla possibilità di costruire nuove forme di relazione sociali.

 

La qualità umana di una città è il riflesso delle nostre pratiche nei suo diversi spazi, anche quando questi sono soggetti a recinzioni, controlli ed espropriazioni da parte di interessi privati o pubblici. D’altronde tra beni pubblici e beni collettivi esiste una differenza fondamentale. Gli spazi e i beni pubblici rimanderebbero all’autorità statale e alla pubblica amministrazione, e non costituiscono di per sé un bene comune. Mentre i beni collettivi sono il prodotto esclusivamente delle forme di relazioni sociali, ossia delle soggettività sociali resistenti alla cattura del capitale. Il modo col quale si regolamenta la produzione o l’accesso a uno spazio o un bene pubblico o ancora i soggetti deputati a decidere e gli interessi chiamati in causa, infatti, sono sempre oggetto di conflitto. La conquista e l’uso comune di spazi e beni pubblici sono cioè l’esito di un conflitto costante. Ma per proteggere un bene comune è fondamentale proteggere il flusso di beni pubblici che ne definiscono la qualità, consci che il neoliberismo non fa sconti fra pubblico e privato. O meglio, consci che il bene pubblico nella dottrina ordoliberale è lo svolgimento della nozione di Commonwealth di Hobbes, quale istituzione in difesa di interessi privati concorrenti; tradotto successivamente da John Locke e Adam Smith, grazie all’istituzione di un mercato di scambio libero ed equo, in proprietà privata capace di massimizzare il bene comune. A mo’ di contrappasso, coloro che non riescono a produrre valore non hanno alcun diritto di proprietà e quindi di accesso ai beni comuni. E se, come osservano Hardt e Negri, la metropoli in quanto tale è un comune prodotto del lavoro collettivo, allora il diritto di usare questo bene spetterà a coloro che hanno partecipato alla sua produzione? In tal senso, il diritto alla città sarà lotta da parte del lavoro collettivo contro il potere del capitale, ossia contro la rendita estratta dalla vita comune prodotta da altri. Tutto ciò ci ricorda come il vero problema sia nel carattere privato del diritto di proprietà, e nel potere conferito in nome di tale diritto di appropriarsi non solo del lavoro ma anche del prodotto collettivo di altri. Dunque, la lotta di classe all’altezza della produzione nella metropoli sono i rapporti tra chi produce il comune e chi se ne appropria per fini privati.

 

rimpiantiLa corruzione che attualmente caratterizza le politiche urbane – non da ultimo le inchieste capitoline – deriva dal fatto che gli investimenti pubblici sono allocati per produrre qualcosa che assomiglia a un bene comune e che in realtà produce profitti privati. A ben guardare, non è che siano cambiate molto le pratiche di corruzione a seconda dei modelli di relazione tra pubblico e privato. Oltretutto, un mito che va sfatato è quello per cui la corruzione e il clientelismo siano da associare alle società tradizionali. In realtà esse sono forme di appropriazione sempre più liquide e pervasive che, addirittura, con la costituzione molecolare della governance neoliberale hanno trovato punti di innesto nella matassa di relazioni pubblico-private, nel moltiplicarsi delle amministrazioni periferiche e nella gestione del potere sempre più diffuso e articolato in agenzie, enti, società che a loro volta partoriscono appalti, bandi e subappalti, in una filiera difficilmente percorribile a ritroso verso il suo bandolo.

Storicamente, i meccanismi di corruzione e di clientelismo si sono conformati, da una parte, ai modelli di rappresentanza e alla forma stato, dall’altra alle forze produttive e ai rapporti di produzione. Ad esempio, per quanto riguarda l’Italia, a cavallo fra Otto e Novecento era ben radicato nelle periferie, meno nello spazio urbano, il “partito dei notabili”. I notabili locali, pressoché agrari, rappresentavano gli interessi della classe proprietaria, industriale e agraria, in un «processo storico di modernizzazione delle periferie» che con Karl Polanyi è stato definito «La Grande trasformazione dell’economia italiana»3. Con la costituzione dei collegi uninominali, le realtà locali si mettono in comunicazione partecipativa nuova con lo stato centrale, il clientelismo s’incuneava tuttavia proprio sul sistema elettorale: nel rapporto alterato dagli interessi di classe fra rappresentante e rappresentato, come ben notava Leopoldo Franchetti, economista e meridionalista liberale. Nel dopoguerra, con l’accumulazione fordista e keynesiana, incentrata nelle città, le campagne vengono emarginate, seppur lentamente, dalle decisioni elettorali e anche dalle amministrazioni periferiche; nel frattempo le città esplodono in un processo incessante di urbanizzazione, accogliendo le migrazioni interne di forze produttive provenienti dalle campagne e riconfigurando lo spazio urbano a seconda delle esigenze della produzione industriale e della riproduzione della forza-lavoro. Sicché il “partito di massa” va a sostituire il partito dei notabili, poiché più adatto dal punto di vista organizzativo alla lotta politica nella società dell’operaio massa. La nuova organizzazione con natura elettoralistica premiava l’apparato di partito perché promuoveva la divisione del lavoro tra professionisti della politica e galoppini. Il potere reale restava tuttavia sempre nelle mani degli stessi professionisti locali: dapprima i notabili, ora i boss locali, che controllavano i posti chiave della macchina partitica. Erano coloro che decidevano le candidature e distribuivano le risorse pubbliche che si rendevano disponibili con lo sviluppo del welfare, a partire dal secondo dopoguerra. A differenza dei notabili, ma con gli stessi risultati, i boss mutavano le risorse pubbliche in elargizioni ai privati, dando ai politici prestigio nella società civile.

La graduale dismissione dello stato-forte, delle amministrazioni periferiche, dei servizi pubblici e del welfare, da una parte, e dall’altra il passaggio dalla fabbrica alla metropoli nella produzione e riproduzione non vanno storicamente a coincidere, tuttavia entrambi s’innestano simmetricamente nei processi di modernizzazione delle criminalità organizzate. All’altezza dell’integrazione delle economie-mondo, queste si sono costituite in holding e in associazioni politico-criminali, integrandosi cioè in soggetti sociali e politici che si appropriano violentemente dei commons. Non vanno beninteso trascurati alcuni passaggi storici, che come giri di boa hanno permesso il consolidamento del rapporto fra politica e organizzazioni criminali, prima dei quali la loro attività poteva ancora essere annoverata, per dirla con Eric Hobsbawn, fra le «forme primitive di rivolta sociale»: vale a dire fra le forme pre-moderne ancorate al carattere urbano e plebeo alcune, invece altre ai centri rurali e alle campagne; entrambe però con aspetti di marginalità politico-sociale e riconducili alla categoria di classe pericolosa. Il terremoto del 1980, in tal senso, rafforzerà mediante gli appalti pubblici per la ricostruzione le imprese e gli affari dove primeggiano ormai i clan camorristici. Negli anni Ottanta le camorre e l’alleanza con altre criminalità della penisola per la gestione del rapporto politico negli affari pubblici completano il processo di modernizzazione. Ormai, le criminalità organizzate non sono più ai margini, bensì nel cuore dell’accumulazione capitalistica, al centro della produzione del comune.

In una fase storica in cui si ridefiniscono le forme della politica e i suoi rapporti con l’economia e la società, i clan camorristici, come quelli mafiosi, dimostrano una notevole capacità di porsi al centro di questa rete di relazioni, operando con notevole efficacia nei diversi settori e, cosa ancora più importante, nell’intreccio tra decisioni politiche, relazioni sociali, iniziative economiche. In questo senso le camorre e le mafie non sono affatto esterne o antitetiche, ma stanno ben dentro lo stato, la politica e dentro i dispositivi di cattura del capitale, esse allignano cioè nelle istituzioni sociali che si fondano sul comune. D’altro canto, come ci ricordano Hardt e Negri «non tutte le forme del comune sono positive», in particolare il capitale in quanto relazione sociale è un «potente strumento di corruzione», poiché agisce mediante «il controllo e l’espropriazione segmentando, privatizzando il comune»: in questo modo distruggono la ricchezza sociale ponendo gravi ostacoli alla produttività sociale4.  Le camorre e le mafie sono paradigmi di «comune nocivo».

 

Sketch31225511_doveravatePer ciò la lotta contro la corruzione, il clientelismo, la criminalità e tutte le forme di comune nocivo sono lotte anticapitaliste. Sono lotte in cui esercitarsi nelle forme di vere e proprie pratiche di esodo mediante la diffusione della libertà e dell’eguaglianza, e da ricercare insieme a coloro che – con Calvino – non desiderano accettare l’inferno tanto da «diventarne parte fino al punto di non vederlo più»: insieme a chi, in nome di una sostanziale libertà e uguaglianza e in difesa di ciò che è comune, non è assuefatto alla corruzione e alla criminalità del capitale.  Esercitarsi all’esodo vuol dire, dunque, combattere le forme di corruzioni, riappropriandosi del comune e dei beni collettivi: difendendo soprattutto il flusso di beni e servizi pubblici che passano dalle istituzioni e dalle amministrazioni periferiche. Ecco perché la conquista e l’uso comune di spazi e beni pubblici urbani sono l’esito di un conflitto costante. Ed ecco perché riappropriarsi del comune vuol dire scontrarsi con i temi della rappresentanza e della transizione: coi due campi in cui la produzione della ricchezza sociale o viene potenziata o viene usurpata e annichilita.

Senza dubbio, ad esempio, la divisione fra rappresentanti e rappresentati è un ostacolo alla produzione del comune. Le modalità di democrazia popolare, sempre più orizzontali, sono invece delle esternalità positive del comune. Così come la transizione ha a che fare tanto con i modi della decisione quanto con le forme della lotta anticapitalistica e dell’esodo verso nuovi modelli di rapporti sociali. La transizione, in quest’epoca, è dunque il superamento della crisi strutturale del capitalismo e, in tale passaggio, la capacità d’interrogarsi sugli strumenti per rappresentare le istanze di libertà e di uguaglianza in un magma sociale che con Gramsci possiamo indicare col termine «subalterno»: vale a dire, tutto ciò che si muove all’esterno della indiscussa centralità operaia, con la quale secondo il marxismo classico il proletario industriale, la punta di diamante del processo rivoluzionario, deve pur sempre fare i conti.

In una produzione del comune che passa dalla metropoli e ha come baricentro dei propri rapporti di produzione tanto le singolarità sociali quanto la cooperazione fra le stesse, il tema della subalternità diviene pressoché ineludibile, e ancor più ciò che è dentro e ciò che è fuori i rapporti di produzione. Subalternità, dentro e fuori, sono campi che rinviano direttamente al tema dell’egemonia. Utilizzando un passo di Ernesto Laclau, alquanto prensile di questi campi d’indagine: «ogni sorta di emarginato, anche nel caso estremo e puramente ipotetico di una classe definita esclusivamente dalla sua posizione all’interno dei rapporti di produzione, dovrà assumere qualche caratteristica del Lumpenproletariat se vorrà trasformarsi in un soggetto antagonistico. Una volta arrivati a questo punto, la netta distinzione di Fanon tra il “dentro” e il “fuori” viene rimpiazzata subito da un gioco più complicato, in cui nulla è del tutto interno o del tutto esterno. Ogni interiorità viene sempre minacciata da un’eterogeneità che non le è mai del tutto esterna, perché appartiene alla logica profonda di costituzione dell’interiorità»5.

Nello spazio dell’Interregno fra il dentro e il fuori, rievocato da Beppe Caccia e Sandro Mezzadra6, ciò che fa la differenza affinché la bilancia penda a favore di una classe – ad oggi quella capitalista – è l’uso della nozione gramsciana di egemonia, ossia il modo di essere del dominio in un mix di persuasione e coercizione. Nel neoliberalismo, e soventemente nell’attuale fase storica verso le istituzioni europee, l’egemonia si manifesta solamente come dominio coercitivo, come esercizio della violenza finanziaria, senza alcun appeal persuasivo. Dominance without hegemony, per dirla con Ranajit Guha.

 

La domanda da porsi è come all’interno dello spazio metropolitano, nella fabbrica del comune, si possa mettere freno se non interrompere le esternalità nocive che catturano e corrompono la produzione comune e, allo stesso tempo, attivare dei dispositivi di democrazia, uguaglianza e libertà? Per dirla da dove siamo partiti: come inventare luoghi di contestazione, tanto mitici quanto reali, in cui si è capaci di «riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio»? E avendo come osservatorio le urgenti sfide: quali processi di verticalizzazione possano darsi nelle metropoli laddove insistono ciò che Felix Guattari definisce come un «enorme accumulo di capitale», ossia i flussi di ricchezza sociale e, al contempo, le violenti forme di appropriazione del comune?

Per uscire da questo cul de sac, dall’Interregno, sarà necessario combinare forme e strutture rappresentative, tipiche della forma stato, e inediti luoghi di democrazia radicale. Va da sé che nella convivenza di strumenti tra movimenti e partiti, tra pratiche sperimentali e contro-condotte originali, tra autogestione, autogoverno e gestione amministrativa, tra logica orizzontale e logica verticale, la maggiore operatività spetterà sicuramente alla democrazia diretta e alla cooperazione fra le singolarità produttive. Occorre però assumere l’urgenza di contrastare le pratiche corruttive del comune, farlo perché vi è uno spazio da riempire, che si fa sempre più largo nell’Interregno. Il patto di fiducia nei partiti e nelle istituzioni politiche è da tempo saltato; il leader carismatico di weberiana memoria, seppur persuada, in tempo di crisi allorché non soddisfa i bisogni degli elettori perde rapidamente consenso, mentre la comunicazione mainstream funge da anestetizzante. In tale solco, i fenomeni di appropriazione indebita di ciò che è comune, non sono discorso di carte giudiziarie, bensì, parafrasando il titolo di un libro di Juan Carlos Monedero, «politica urgente» di «gente decente».

 

strikeInfatti, luoghi di partecipazione diretta e di democrazia radicale si vanno moltiplicando nelle faglie della crisi e in difesa di ciò che è comune. Seppur abbozzata, l’eterotopia inaugurata a Napoli, all’ex Asilo Filangieri sabato 5 settembre 20157, mediante una grande agorà animata da due tracce, ha incominciato a costituirsi da due urgenze: inventare modelli di partecipazione e prendere in mano la decisione sul futuro della metropoli e del comune. Così come due sono state le tracce che hanno convocato l’appuntamento, “massa critica” e “scirocco”. Il primo evoca sia le piazze degli indignados spagnoli, sia le adunate moltitudinarie cui abbiamo assistito in Piazza Syntagma: masse che raccolgono differenze dove la critica diviene ambizione costituente. Il secondo, lo scirocco evoca la cassetta degli attrezzi meridiana, il vento mediterraneo, dei sud, che interpella nuovamente le esperienze spagnole e greche. Un’agorà molto partecipata si è interrogata su quale grammatica comune utilizzare intorno ai temi dell’ambiente, del lavoro, del reddito, della precarietà, delle politiche culturali, per divenire discorso egemonico e «blocco popolare». D’altronde l’egemonia, come insegna Gramsci, è persuasiva quando si radica negli interessi di classe. E difatti l’interrogarsi sul divenire egemonia è un processo che ha radici ben salde, ossia gli spazi di contropotere che negli ultimi anni a Napoli e nel Sud Italia si sono moltiplicati in contrasto all’impoverimento e alla precarietà: esperienze di occupazione e di cooperazione di spazi abbandonati, di parchi, di immobili, esperienze di assemblee di quartiere e di partecipazione diretta, e via di questo passo.

 

Come da spazi di contropotere divenire potere costituente in anni di crisi cronicizzata? Come oltrepassare la soglia e sottrarre il comune al diaframma della rappresentanza, alle nocività della corruzione e alla pervasività delle organizzazioni politico-criminali? E come gestire il comune e cooperare liberamente in una condizione di uguaglianza, marginalizzando i processi elettorali, e proiettando la potenza costituente sulle esperienze di mutualismo dal basso, di autogoverno dei beni collettivi e di solidarietà come contrasto alla crisi?

I processi di verticalizzazione non possono che mettere radici negli spazi metropolitani, nella fabbrica del comune. Laddove, ad oggi, il consenso è raccolto da forme inedite di populismo, che a ben guardare sulla corruzione e sulla nocività del rapporto fra istituzioni e classi dirigenti producono l’ordine del discorso. Vale forse la pena di ascoltare il ribollire di quell’eterogeneità sociale, situata nell’Interregno del né dentro né fuori, per ricercare il modo di come fuoriuscire dall’inferno, per sperimentare cioè la costruzione di coalizioni fra i subalterni, tra coloro che sono in grado di difendersi mediante forme di sindacalizzazione e coloro che sono invisibili alla sindacalizzazione quando non icasticamente esclusi dagli statuti dei diritti e della cittadinanza.

Occorre, e non in ultimo, uno sforzo di invenzione, di immaginazione, uno sforzo in un certo senso mitopoietico, per costruire uno “spazio altro” della cooperazione, per conquistare una tra le tante “città invisibili” del comune. Uno sforzo che guardi con curiosità a quella che è la storia delle classi subalterne e la storia dei primi embrioni di sindacalizzazione del secolo scorso: una storia fatta di tentativi, di immaginazione e di sperimentazione attraverso l’azione e le pratiche collettive. Ad esempio, l’esperienza dell’Industrial Workers of the World ci consegna degli attrezzi formidabili per la costituzione di coalizione dei gruppi subalterni. Fin dalla nascita i wooblies si proposero l’obiettivo di perseguire la liberazione di tutte le classi lavoratrici, a partire dall’organizzazione dei più deboli, dalle fasce occupazionali più instabili, precarie e poco retribuite, da quella massa di lavoratori senza protezioni che era l’arma di ricatto del padronato. L’originalità e la forza dei wooblies non era data dalla quantità, ma dalla qualità e dalla eterogeneità del proletariato: l’IWW proprio grazie alle differenze è riuscito a sbrogliare il bandolo dello sfruttamento e della segmentazione delle forze produttive per curvarlo in pratiche di solidarietà, di unità e di coalizione.

Come l’Angelus Novus di Paul Klee, l’angelo della storia che procede in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro, sarà giunto il momento di avanzare anche noi con uno sguardo rivolto indietro e il corpo proiettato verso il progresso della lotta e il senso maggioritario dell’intelligenza collettiva, lasciandoci aperte solo le possibilità della realizzazione di nuove coalizioni composte da una eterogeneità qualitativamente radicale; della concretizzazione di inediti spazi di soggettivazione, ossia spazi ibridi fra il reale e l’immaginario. E per vincere occorre essere ispirati, dacché «non si prosegue la lotta contro lo stato di cose presente se non si è ispirati da una qualche narrazione»8.

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  1. M. Foucault, Eterotopia, a cura di S. Vaccaro, T. Villani e P. Tripodi, Mimesis, Milano 2010, p. 13. 

  2. Note e notizie sui testi, in I. Calvino, Romanzi e racconti, a cura di C. Milanini, vol. II, Mondadori, Milano, 1992, pp. 497-498. 

  3. M. Petrusewicz, La modernizzazione che venne dal Sud, in M. Petrusewicz, J. Schneider, P. Schneider (a cura di), I Sud. Conoscere, capire, cambiare, Il Mulino, Bologna, 2009, pp. 105-28. 

  4. M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 164. 

  5. E. Laclau, La ragione populista, a cura di D. Tarizzo, Laterza, Bari-Roma, 2008, p. 144. 

  6. B. Caccia, S. Mezzadra, Sotto il cielo dell’“Interregno”: www.euronomade.info/?p=5573 (10 settembre 2015). 

  7. Si vedano il comunicato stampa e alcuni interventi introduttivi: http://www.exasilofilangieri.it/assemblea-massa-critica-comunicato-stampa/; http://www.zer081.org/2015/09/03/napoli-troviamo-la-strada-o-apriamone-una-nuova/; http://www.exasilofilangieri.it/a-restare-immobili-prima-o-poi-si-cade/ (13 settembre 2015). 

  8. Wu Ming, Giap! Tre anni di narrazioni e movimenti, a cura di T. De Lorenzis, Einaudi, Torino, 2003, p. 207.