Di SANDRO MEZZADRA

Da mesi viviamo una crisi diversa da quelle che ci sono toccate in sorte nella nostra vita. Un virus, una pandemia: non avevamo pensato (almeno io non avevo pensato) che da simili cause potesse rapidamente generarsi un vero e proprio blocco di circuiti essenziali del capitalismo globale – oltre che una trasformazione radicale delle nostre vite. È in ogni caso quel che è accaduto: si pensi solo all’impatto della pandemia sulla logistica, che in molti e molte abbiamo descritto negli scorsi anni come uno degli ambiti più rilevanti per le operazioni del capitale contemporaneo. Certo, anche la logistica si è rapidamente riorganizzata, accentuando per altro i tratti dispotici del suo funzionamento. Ma l’impatto della pandemia è stato violento, e sicuramente sarà all’origine di ulteriori trasformazioni di grande importanza nei prossimi mesi e anni – nella logistica così come in altri settori produttivi, in cui i tassi di profitto sono caduti.

L’irruzione del coronavirus nel nostro quotidiano, certo non inaspettata e anzi più volte annunciata negli scorsi anni dalla stessa OMS, pone sfide radicali, che investono il nostro modo di stare nel mondo e i nostri rapporti con la natura non umana. La fragilità e la resistenza dei nostri corpi, in particolare, sono posti in una luce almeno parzialmente nuova, e il significato dell’essere in salute (dunque, di una “buona vita”) si carica di problematicità e di inedite dimensioni. Il capitalismo stesso risulta investito da questa crisi per molti versi senza precedenti, sia per quel che riguarda il lungo periodo di un modello di sviluppo che ha sconvolto gli equilibri ecologici del pianeta, sia per quel che riguarda tendenze più recenti, che hanno condotto a un crescente intreccio tra capitale e vita, variamente descritto dai diversi usi di categorie come “biocapitale” e “biocapitalismo”. È appena il caso di ricordare, del resto, come in particolare il termine “biocapitale” sia stato impiegato in riferimento a “Big Pharma”, e dunque a un settore oggi strategico per la competizione sulla ricerca di terapie e di un vaccino per il Covid-19.

Questo insieme di questioni, solo accennate, costituisce la necessaria cornice dell’analisi qui svolta, ma non ne è direttamente oggetto. Vorrei soffermarmi piuttosto sulla violenza con cui la crisi economica e sociale oggi si manifesta, in Italia come in altri Paesi: sulla distruzione di posti di lavoro che comporta, sulla lacerazione delle infrastrutture sociali nei quartieri e nei paesi, sull’accentuazione della precarietà lavorativa e della marginalità sociale, sul peso ancor più violento del lavoro di cura (volontario o retribuito) scaricato sulle donne, sulle restrizioni e sui sacrifici che gravano sui e sulle migranti, soggetti mobili per definizione, sull’aumento vertiginoso dei ritmi di lavoro in quelli che nei mesi del lockdown abbiamo imparato a conoscere come “lavori essenziali”. E l’elenco potrebbe continuare… È evidente in ogni caso che la crisi ha conseguenze sociali estremamente violente, che minacciano di inasprirsi ulteriormente con l’esaurimento di ammortizzatori sociali come la cassa integrazione e altre misure di sostegno al reddito. Questa crisi sociale si coniuga con una crisi del capitalismo che lascia in ogni caso intravedere tendenze evolutive che a indubbie discontinuità affianca elementi di approfondimento di processi già da tempo in atto (si pensi, per fare un solo esempio, al capitalismo di piattaforma, certo destinato a uscire dalla crisi tra i vincitori).

È opportuno in generale ricordare che il capitalismo ha una vera e propria “affinità elettiva” con la crisi, sia per il fatto che quest’ultima costituisce un elemento necessario del ciclo dell’accumulazione sia per il fatto che le crisi sono momenti essenziali di trasformazione, rinnovamento e riqualificazione del capitalismo stesso. Le crisi, ad esempio la grande recessione degli anni 1856-1858 analizzata da Marx nei suoi articoli per la “New York Daily Tribune”, sono spesso state occasioni per vere e proprie “rivoluzioni dall’alto” da parte del capitale; mentre in altri casi, in presenza di grandi lotte operaie e proletarie, la nuova configurazione del capitalismo reca impressi i segni della lotta di classe e delle conquiste del lavoro: la crisi del ’29 e il New Deal negli USA sono in questo senso un esempio classico. Si vede bene dunque come la lotta di classe sia una variabile essenziale per definire l’“uscita” dalla crisi e i conseguenti scenari di stabilizzazione. È opportuno tenerne conto, tanto metodicamente quanto politicamente, per l’analisi del presente.

Ho appena parlato di stabilizzazione della crisi. Credo che sia importante portare l’analisi, dal nostro punto di vista, proprio sugli scenari emergenti di stabilizzazione capitalistica della crisi. Per analizzare compiutamente questi scenari, del resto, occorrerebbe indagare le trasformazioni generali che stanno investendo il quadro globale, e gli sviluppi in Paesi cruciali per lo sviluppo e il governo della pandemia, come ad esempio la Cina e la Corea del Sud. È una questione su cui si dovrà tornare. Qui, mi limito a qualche considerazione sull’Occidente, tenendo presente in particolare la situazione europea e solo per alcuni aspetti quella statunitense. Non va del resto dimenticato che la crisi attuale si innesta su una precedente crisi di grande profondità – ovvero su quella crisi finanziaria del 2007-2008 i cui effetti hanno continuato a lungo a circolare a livello globale e in particolare a segnare le dinamiche economiche e sociali in un Paese come l’Italia. Ed è opportuno ricordare che i tentativi di stabilizzazione di quella crisi sono fondamentalmente ruotati attorno a politiche monetarie (il quantitative easing), senza mettere in discussione – e anzi alimentando ulteriormente – i processi di finanziarizzazione e incrementando le diseguaglianze sociali. In Europa in particolare, dove la crisi ha colpito in particolare i “debiti sovrani”, queste politiche si sono combinate con una violenta strategia di austerity, come è apparso particolarmente nella crisi greca del 2015. La continuità del neoliberalismo pareva assicurata, in una forma autoritaria e appunto austera che non era mai stata estranea all’ordoliberalismo di matrice tedesca.

A me pare che oggi, per la forza delle cose, la situazione sia almeno parzialmente diversa. Tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, la politica monetaria ha fatto un salto di qualità, e nei fatti sta coprendo e rendendo possibile la spesa in deficit degli Stati – ovvero quel deficit spending che il dogma neoliberale del pareggio di bilancio ha sempre inteso scongiurare. È un punto di grande importanza, certo determinato (come ad esempio la sospensione dei parametri di Maastricht) dall’attuale situazione di emergenza ma potenzialmente indicativo di un mutamento di paradigma. L’annuncio di Jerome Powell, il presidente della Fed, di prendere congedo dall’inflazione al 2% come riferimento per le politiche monetarie (sostituendovi il suo “valore medio” e privilegiando semmai la “piena occupazione”) è un altro tassello di fondamentale importanza. Come hanno scritto sul “Manifesto” del 12 settembre Marco Bertorello e Danilo Corradi, questo annuncio corrisponde a un sostanziale ridimensionamento della “logica degli ultimi trent’anni”. A questo va aggiunto naturalmente il “Recovery Fund” europeo (“NextGenerationEU”), che mobilita risorse ingenti per la digitalizzazione e la transizione ecologica, ma anche – lo ha ribadito Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo “stato dell’Unione 2020” – per il potenziamento dei sistemi sanitari e formativi.

Certo, ognuno di questi passaggi andrebbe approfondito con ben altra ampiezza. Mi pare tuttavia che, presi nel loro insieme, delineino un’ipotesi di stabilizzazione (lo ripeto: stabilizzazione capitalistica) della crisi che segna una discontinuità profonda con il neoliberalismo e con l’austerity, lasciando intravedere l’emergere di una diversa cornice macroeconomica. Quella di cui parlo è una tendenza, evidentemente contrastata e dall’esito incerto. In ogni caso, l’indebolimento di alcuni aspetti fondamentali, macroeconomici, del neoliberalismo è ben lungi dal prefigurare una sua crisi terminale. Negli ultimi anni, il dibattito sul neoliberalismo ha mostrato ampiamente, spesso con l’ausilio di categorie foucaultiane, come sia necessario intenderlo e criticarlo anche come una forma di “governamentalità”, guardando alla sua diffusione pervasiva – ad esempio attraverso nozioni quali competitività e meritocrazia – all’interno del tessuto sociale. Mentre ancora echeggiavano le discussioni sul “post-neoliberalismo” proclamato dai governi progressisti latinoamericani, un libro di Verónica Gago (La razón neoliberal, Buenos Aires, Tinta Limón, 2014) ci invitava a guardare al neoliberalismo non solo “dall’alto” (appunto concentrando l’analisi sulla sua cornice macroeconomica), ma anche dal basso – ovvero cartografando comportamenti e logiche di funzionamento di istituzioni sociali.

Mi pare un’indicazione preziosa, da riprendere oggi anche alle nostre latitudini. Il neoliberalismo si è diffuso pervasivamente nelle nostre società, ha riorganizzato attorno alla razionalità d’impresa le stesse istituzioni del welfare (ospedali, scuole, università), ha investito pesantemente il piano delle soggettività. Anche all’interno di una diversa cornice macroeconomica, definita da politiche monetarie espansive, investimenti pubblici, rilancio del welfare, il neoliberalismo resterebbe dunque ben presente (per quel che riguarda il “Recovery Fund”: nella stessa definizione delle priorità e delle logiche di investimento), e occorre dotarsi di strumenti per lottare quotidianamente contro di esso. Ma un’ipotesi non neoliberale di stabilizzazione della crisi definisce oggettivamente un nuovo terreno di gioco, in cui – per dirla in modo molto concreto – il problema non è più quello di resistere allo smantellamento neoliberale del Welfare State, ma piuttosto di lottare in modo offensivo per la costruzione di nuove istituzioni e di nuove politiche di welfare. Perché all’interno di questo nuovo terreno di gioco proprio il welfare acquisisce una centralità inedita.

Parlare di un’ipotesi non neoliberale di stabilizzazione capitalistica della crisi presuppone una accentuata consapevolezza della profondità della crisi che stiamo vivendo, ma non ha di per sé nulla di particolarmente ottimistico. Non è inutile ricordare che storicamente politiche monetarie espansive e politiche di welfare hanno caratterizzato una molteplicità di regimi, alcuni dei quali autoritari e dittatoriali. Una vittoria di Trump alle elezioni presidenziali del 3 novembre potrebbe ad esempio mettere capo a una variante particolarmente violenta e repressiva di questa ipotesi non neoliberale. Più in generale, in qualsiasi regime politico le politiche di welfare possono avere caratteri duramente disciplinari, selettivi e gerarchici – in particolare in base ai criteri di razza e genere, così importanti per i movimenti degli ultimi anni. Nessun particolare ottimismo, dunque: solo la consapevolezza del fatto che l’ipotesi non neoliberale di stabilizzazione capitalistica della crisi che mi pare di vedere emergere determina un cambiamento del quadro al cui interno di svilupperanno nei prossimi mesi le lotte e le mobilitazioni. Credo che sia opportuno tenerne conto.

Su un punto occorre essere chiari. Parlare della centralità del welfare nelle ipotesi capitalistiche di stabilizzazione della crisi e nelle lotte sociali non significa riproporre l’immaginario e il modello dello Stato sociale novecentesco. Di questa specifica forma Stato, che ha avuto una prefigurazione nel New Deal rooseveltiano, abbiamo spesso analizzato criticamente i presupposti. Al tempo stesso riconoscimento e mistificazione della potenza produttiva della classe operaia industriale nel tempo della produzione di massa, lo Stato sociale novecentesco si basava su una composizione di classe, su una configurazione del capitalismo, su istituti e attori politici, su un ordine mondiale che sono venuti definitivamente meno. L’insorgenza operaia e i movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta, che hanno messo in crisi quella forma di Stato prima della reazione neoliberale, ci consegnano piuttosto un insieme di elementi ancora oggi attuali: la critica delle forme di assoggettamento di genere (e in molti Paesi di razza) su cui lo Stato sociale si fondava, il rifiuto della caratterizzazione disciplinare delle istituzioni di welfare, la critica dei processi di burocratizzazione connaturati a politiche che assumevano lo Stato come centro indiscusso. Sono tutti temi da aggiornare a rilanciare, nella consapevolezza (lo ripeto, perché sarà un tema di battaglia politica nei prossimi mesi) che nessun ritorno al passato è comunque oggi possibile.

Parlare di welfare oggi è dunque parlare di una necessaria innovazione, che riguarda tanto i temi delle politiche sociali, quanto i loro soggetti e le istituzioni di quelle politiche. Non manchiamo di bussole concettuali per orientarci in questa ricerca dell’innovazione. Il “modello antropogenetico” o “la produzione dell’essere umano attraverso l’essere umano”, di cui hanno spesso parlato Christian Marazzi e Carlo Vercellone, indicano chiaramente ad esempio il ruolo cruciale che il settore educativo, il settore della sanità e quello della cultura hanno sia per il capitalismo contemporaneo sia per le lotte sociali. Negli scorsi mesi abbiamo ripreso dal movimento femminista (da “Non Una di Meno”) l’indicazione di assumere la riproduzione sociale – politicizzata dalle lotte – come chiave complessiva per ripensare non soltanto il welfare ma più in generale il nesso tra riproduzione e produzione, e dunque anche i movimenti che si determinano all’interno di quest’ultima. Mi sembra che questo sia un punto particolarmente importante, perché ci ricorda come le lotte sul welfare non possano essere sganciate da quelle sulla “produzione” – un concetto che abbiamo imparato a problematizzare e ad ampliare, tanto per via dell’analisi delle trasformazioni del capitalismo contemporaneo quanto sulla spinta delle lotte (ed è inutile ribadire che quelle femministe sono state particolarmente importanti in questo senso, così come, sia pure in modi diversi, quelle dei e delle migranti).

Il welfare, oggi, si presenta in ogni caso come essenziale terreno di contesa. È in primo luogo sul terreno del welfare che si tratta oggi di organizzare e indirizzare le lotte sociali, facendo emergere quel profilo molteplice, attraversato dalla differenza e tuttavia unito nella cooperazione, che caratterizza oggi la composizione del lavoro vivo – e di cui abbiamo intravisto l’insorgenza nelle piazze di Black Lives Matter. Occorre ribadirlo: senza lotte, senza lotta di classe all’altezza del presente, c’è solo rivoluzione (o restaurazione) dall’alto. È l’irruzione della soggettività del lavoro vivo nella sua molteplice composizione che può aprire spazi di democrazia e appropriazione di ricchezza dentro un processo altrimenti destinato a svolgersi, magari in una nuova cornice, nel segno di una sostanziale continuità con il passato. Ed è lo sviluppo delle lotte, che già oggi si esprime in particolare nei settori dell’educazione e della sanità, che può e deve guidare la nostra ricerca di nuovi assemblaggi istituzionali e di nuove forme di protagonismo sociale sul terreno del welfare.

Lotte sul terreno del welfare, ho detto. Ma nella consapevolezza che non c’è nuovo welfare senza quella che ho appena chiamato appropriazione di ricchezza. Il tema del reddito, nell’insieme delle forme in cui si presenta, è certo fondamentale, in particolare per contrastare il dilagare di quella povertà di fronte alla quale le politiche di welfare non possono che essere politiche assistenziali e fortemente paternalistiche. Ma altrettanto fondamentale è la lotta sul salario, il contrasto di politiche padronali che puntano chiaramente a imporre una specifica forma di austerity nell’insieme della fabbrica sociale. Senza lotte sul reddito e senza lotte sul salario, il welfare si presta a dispiegare i suoi caratteri disciplinari e a perdere ogni spinta espansiva. Quelle lotte sono dunque un elemento fondamentale per ogni ragionamento e per ogni intervento politico sul welfare – così come per altri versi lo sono le lotte femministe, le lotte dei e delle migranti, le lotte sulle questioni ambientali. La qualità dello sviluppo, la determinazione soggettiva delle politiche di welfare, la costante messa in discussione dei confini nazionali della cittadinanza sono infatti altrettanti tasselli irrinunciabili di una politica di classe all’altezza dell’epoca che stiamo vivendo.

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