A cura di DIEGO SZTULWARK e PABLO IRES, intervista a TONI NEGRI.
1. La prima domanda, su Marx e Foucault, è metodologica e consiste nel chiedersi come procedere dalla coppia determinazione/soggettivazione ad una caratterizzazione della fase attuale, assumendo, se possibile, le trasformazioni avvenute nel periodo della pandemia.
In fondo, tutto il mio cammino filosofico è consistito nel tentativo di analizzare e di rendere dinamica la coppia determinazione-soggettivazione. Da marxista, ho cercato di désenclaver e soggettivare la determinazione della lotta di classe nella tendenza dello sviluppo capitalista. Qui il passaggio dalla composizione tecnica alla composizione politica della classe è centrale e diventa sempre più importante quanto più la sussunzione si realizza e l’antagonismo (il due[1]) dello sviluppo si estende.
Cerco qui di chiarire questo passaggio seguendo la mia lettura (a questo proposito) dei pensatori francesi nei ’60 e seguenti. Il tema, posto da Althusser, è “come mettere in movimento la formazione sociale determinata”. In Foucault, questo problema è ripreso e, inizialmente, formazione sociale determinata è definito in termini sovrastrutturali come episteme: tal quale funzionava in Althusser, essa si presenta come un volume strutturale e potente, ma non ancora soggettivamente attivo. È evidente che questa chiusura strutturale era intenibile. Lo avverte Derrida, che attacca Foucault proprio su questo punto (vedi la polemica su Descartes, com’è presentato da Foucault in Les mots et les choses[2]). Foucault recepisce questo punto di crisi: deve aprire l’episteme alla soggettivazione… ed è qui che interviene Deleuze – non più in termini critici, mostrando (come aveva fatto Derrida) che la struttura (episteme) ti soffoca, ma indicando nella soggettivazione il possibile avanzamento – un avanzamento ontologico dall’episteme al dispositivo. Questo passaggio, dalla consistenza storica della struttura alla “cura di sé”, diviene in Foucault la chiave della trasformazione della tendenza in proiezione costitutiva del reale. Se Derrida risveglia criticamente Foucault, Deleuze gli indica l’uscita ontologica nel dispositivo e Foucault storicizza la soggettività costituente.
Che aggiungere a proposito della pandemia? Essa intensifica ed estende le dimensioni strutturali del dispositivo – nel bene e nel male, nella generazione e/o nella corruzione dell’essere (ontologica). Le sue conseguenze sono ancora incerte, ma è probabile che esse (le politiche che nella pandemia si sono sviluppate) possano condurre ad un’alterazione, o trasformazione o modificazione dell’epoca stessa (dell’episteme) – almeno sul terreno del modo di lavorare (e/o di produrre). Ma qui non si possono fare profezie – neppure si gioca al lotto.
2. La seconda domanda riguarda quello che tu chiami “sciopero generale astratto”, legandolo alle possibilità di riappropriazione da parte del soggetto macchinico e quindi alla sua capacità di assumere gli algoritmi come un momento di intelligenza collettiva. Quali precursori, esempi, orientamenti potresti fornire per meglio descrivere la nozione di “sciopero astratto”?
Di “sciopero generale astratto” si potrà parlare solo quando, ragionando sulla sussunzione reale, si sia approdati al pieno sviluppo dell’Individuo sociale e al conflitto antagonista con il capitale per l’appropriazione del general intellect. Lo sciopero dell’Individuo sociale, insomma, arresta sfruttamento e accumulazione del capitale, sottraendogli quote di general intellect – per esempio, impedendolo nella sua capacità di costruire ed appropriarsi di algoritmi (prodotti nel processo lavorativo sociale-collettivo[3]. Ho sviluppato questa ipotesi presentando a Berlino la traduzione del mio Marx oltre Marx presso Dietz Verlag. Ma già in altre occasioni, ragionando attorno al concetto – modo produttivo e modo di sfruttamento del lavoro cognitivo –, quest’ipotesi è emersa[4]. In ogni caso, si tratta di comprendere come il lavoratore cognitivo, nel suo rapporto con il capitale, conceda valore solo quando sia stato composto (o ricomposto) nella rete sempre più astratta della cooperazione produttiva. Il valore del lavoro produttivo è qui strappato (sfruttato, estratto) da parte del capitale solo in quanto lavoro cooperante – vale a dire che il valore è estratto dal collettivo (e/o socialmente) piuttosto che ricavato da sfruttamento individuale o di gruppo o di massa (generica, non cooperativa).
Voglio con ciò dire che a livello d’astrazione della sussunzione realizzata (la “sussunzione totale” di Balibar) lo sviluppo capitalista si espone alla lotta di classe in maniera estremamente acuta – laddove ogni momento ed ogni disegno di sviluppo risultano da uno scontro che incide direttamente sulla misura della valorizzazione – intendendo per essa la capacità capitalista di mettere l’intero modo di produzione a sua propria disposizione e, di contro, la resistenza delle lotte proletarie nello sforzo di bloccare (in parte e/o totalmente) quell’avidità capitalista. È dentro questo movimento che si configura il comune, come accumulazione di beni e di norme del “buon vivere” per l’Individuo sociale (e cioè per la soggettivazione di classe proletaria) – sul nuovo tessuto produttivo del general intellect.
Propongo di studiare il conflitto sulla proprietà dei brevetti Big Pharma in una situazione di altissima pandemia come caratteristico di un processo di devalorizzazione del capitale, prodotta da uno sciopero generale astratto (e, contemporaneamente, come dispositivo di autovalorizzazione del lavoro vivo globale).
3. La terza domanda rinvia alla politica e concerne direttamente la tua lettura di Spinoza, ieri e oggi. Poiché dopo il ’68 è nata una filosofia della singolarità e dell’autoaffermazione della potenza, capace di superare le nozioni propriamente borghesi del politico (individuo, merce, sovranità), e tenendo conto del fatto che questo superamento si produce anche nelle politiche postoperaiste, potresti sottolineare come questo processo tocchi e condizioni i discorsi attuali sui contropoteri?
Per rispondere a questa domanda occorre innanzitutto chiarire la differenza tra la definizione leninista del doppio-potere[5] e quella operaista di contropotere. Il discorso leninista individua il dualismo di potere di classe operaia contro lo Stato (del capitale) nel processo insurrezionale – laddove per insurrezionale si intende un processo che si attua in breve tempo. È un discorso di dottrina dello Stato. La definizione operaista di contropotere è invece l’assunzione di una tendenza storica di lotte che attaccano, si fanno spazio, e/o comunque condizionano il potere dello Stato capitalista (di qualsiasi altro regime politico) nel lungo periodo. Il contropotere è dunque in prima istanza un dispositivo sociale del potere della classe proletaria (antagonista). Solo in seconda istanza questo dispositivo può divenire politico e determinare effetti di dualismo di potere.
È chiaro che a chi ama trovare in Spinoza suggerimento per una politica attuale, è soprattutto la definizione operaista di contropotere che può interessare.
Premesso tutto questo, immergiamoci nella situazione attuale. Non sarà allora per noi difficile riconoscere che, dentro un turbolento passaggio epocale, un nuovo modo di produzione qualificabile come “del general intellect” stia faticosamente affermandosi sul lato capitalista (vedi il recente volume di Brett Nielson e Sandro Mezzadra, Le operazioni del capitale[6]). Dal lato proletario sta egualmente sviluppandosi un dispositivo di lotte e di contropotere la cui traccia per quanto riguarda il contenuto è quella della (costruzione e della) appropriazione del comune. Per quanto riguarda la sua forma, contropotere è soggettivazione, produzione di azione soggettiva, laddove per soggetto si intenda molteplicità collettiva di singolarità operanti (su questi temi, Michael Hardt e io abbiamo largamente e lungamente lavorato, fino ad Assembly[7], ultimo nostro sforzo per avanzare su questo terreno).
Sarebbe tuttavia molto scorretto non ricordare che questo nostro sforzo è insufficiente, largamente insufficiente. Inseguendo i canovacci delle lotte di questo inizio di secolo, abbiamo infatti potuto approssimare l’assemblaggio (il concatenamento, l’agencement), l’intersezione (l’articolazione) e le forme di espressione della potenza che nutrono la nuova soggettivazione. Ma siamo ancora lontani da quel poter vivere l’evento che deve produrre il successo: di un contropotere non semplicemente inteso come antagonismo ma anche come protagonista. C’è in Spinoza, nelle pagine del TTP, nelle quali si scopre il Cristo come ultimo dei profeti, un auspicio a quello che noi dovremmo chiamare un “Lenin ideale” – che coniuga alla potenza dell’amore, all’evidenza ontologica di una cooperazione produttiva sempre più stretta dell’umanità intera, l’irruente evento della sua manifestazione e la gioia attuale del vivere in comune.
4. La quarta e ultima domanda è diretta a chiarire un punto: come è evoluta la tua lettura di Deleuze? È una domanda puntata su un aspetto specifico. Nel famoso dialogo che hai avuto con Deleuze su “Controllo e divenire”[8], Gilles ti parla di silenzio contro comunicazione e di considerare la macchina sociale come determinata dalle macchine tecniche, mentre tu proponi di pensare la comunicazione in rapporto all’espressione, e la macchina sociale dentro una politica di riappropriazione. Deleuze parla ancora all’attivismo politico nella nostra epoca?
Mi dicono che un grande amico di Gilles dicesse: “La sera, quando prendo la doccia, penso sempre a qualche suo testo e così vado a letto sognando. La mattina svegliandomi e mettendomi a lavoro, cerco di mettere quel Deleuze sognato dentro la storia”. Questo amico era Foucault. Vero o non vero, probabilmente inventato, credo che il consiglio foucaultiano vada raccolto – in ogni caso, in tutta umiltà, lo raccolgo, accettando di leggere, di sera ed al mattino, l’intervista di un trentennio fa.
E lo faccio perché in questo modo potrò evitare che la conclusione della mia risposta alla questione 3) possa esser presa in maniera errata. Voglio dire che quando parlo di evento, della sua necessità, non ne parlo per attenderlo ma per provocarlo. Non c’è nulla di miracoloso nell’evento, e niente di mistico nella sua attesa – è piuttosto quell’opera continua di contropotere di cui prima si parlava che qui si mostra necessaria. Un’opera intesa a mettere in crisi e, possibilmente, a distruggere l’equilibrio dei fattori che costituiscono la potestas[9]. Diciamolo in termini blasfemi per tutti i suoi cultori: dobbiamo svelare il katechon[10] nel suo contenuto di dominio, che è solo in maniera mistificata dispositivo di prudenza e di sopravvivenza (per evitare la catastrofe finale), mentre invece è la figura stessa della potestas – occorre dunque demistificare il katechon e distruggerlo.
Ora, lo stesso proposito stava alla base del discorso deleuziano nella sera nella quale ne discutemmo nell’intervista – ed ogni richiamo alla “macchina astratta” nell’enunciazione del desiderio non è qui mai un invito alla fuga, alla diserzione, e tantomeno al silenzio: è piuttosto l’affermazione che anche il silenzio può vincere contro la comunicazione dominante… e via di questo passo. La mattina, nella storia, l’analisi critica deleuziana si rivela dunque come dispositivo di attivismo politico.
È ben vero che oggi il richiamo alla macchina astratta deleuziana e, prima, spinoziana viene recuperato soprattutto fra gli ecologisti allo scopo di ridefinire la consistenza ontologica nel rapporto uomo-natura. E che, essendo piegata a quest’operazione, della “macchina astratta” si dimenticano le pieghe – così evidenti nei libri su Capitalismo e schizofrenia – antagoniste. A me esse risultano difficili da assumere perché troppo immediatamente disposte ad un fine insurrezionale – così lo sentivano Félix e Gilles in quella fase. Il doppio-potere si rappresentava in quel quadro come base efficace ed immediata di lotta rivoluzionaria. Mi sembra dunque difficile ricombinare la “macchina astratta” sia ad una concezione insurrezionalista sia ad una cauta figura “ethologica”. Forse, anch’essa è solo dell’esplosivo surrettiziamente introdotto nella casamatta del nemico nel lungo periodo della lotta di classe.
Questa intervista è stata pubblicata in spagnolo per Editorial Cactus.
[1] Cfr. Diego Sztulwark, “La inmanencia productiva y el juego de los dobles en Toni Negri“, prologo a Spinoza ayer y hoy, Editorial Cactus, Buenos Aires, 2021.
[2] Cfr. Jacques Derrida: “Cogito e storia della follia”, in La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 2002 e Michel Foucault, ” Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco”, in Storia della follia nell’età classica, Milano, BUR, 1980.
[3] Vedi il mio articolo “Annotazioni sullo sciopero astratto”, Euronomade, 22 maggio 2015 (ripreso in Antonio Negri, De la fábrica a la metrópolis, Cactus, Buenos Aires, 2020, p. 229).
[4] Si veda per esempio il mio articolo “Appropriazione del capitale fisso: una metafora?“, Euronomade, 3 marzo 2017 (ripreso in Neo-operaísmo (Mauro Reis comp.), Caja Negra, Buenos Aires, 2020).
[5] Per una revisione e uno sviluppo del doppio potere di Lenin in chiave operaista, si veda Antonio Negri, La fabbrica della strategia. 33 lezioni su Lenin, Libri rossi, Padova, 1976, ripubblicato per i tipi di manifestolibri, Roma, 2004.
[6] Mezzadra, Sandro e Neilson, Brett, The Politics of Operations: Excavating Contemporary Capitalism, Duke University Press, Durham NC, 2019; trad. it di T. Rispoli, Operazioni del capitale. Capitalismo contemporaneo tra sfruttamento ed estrazione, Roma, manifestolibri, 2021.
[7] Cfr. Michael Hardt e Antonio Negri, Assemblea (2017), Ponte alle Grazie, Milano, 2018, ultimo volume di una serie che inizia con Impero (2000), seguito da Moltitudine (2004) e Comune (2009).
[8] Intervista realizzata da Toni Negri con Gilles Deleuze e pubblicata in “Futur antérieur”, n. 1, primavera 1990. Ora in G. Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata, pp.223-233.
[9] Nel diritto romano, la Potestas è il diritto giuridico del potere di esercitare la sovranità.
[10] Nel linguaggio della teologia politica di origine paulista, il Katechon è usato come un dispositivo di contenimento del male (che cerca di rinviare la distruzione). Questo concetto viene ripreso nella filosofia politica da autori diversi come Carl Schmitt, Walter Benjamin, Giorgio Agamben e Paolo Virno.