Di MARISTELLA PITZALIS
Non si parla d’altro in questi tempi che di transizione ecologica: verso un mondo migliore? E soprattutto migliore per chi? Speriamo anche per i Renatini delle diverse declinazioni di razza e genere che lavorano nell’agroindustria 365 giorni l’anno per tutta la loro vita.
Tra le ipotesi di cambiamento una notevole attenzione si dedica all’agricoltura, attività indispensabile, ma di grande impatto ambientale. Questo settore produttivo fino a quando ha utilizzato piccole aggiunte di energia umana e animale ha comportato un bilancio tra input ed output energetico positivo: a partire dagli anni ’50 del 1900, con la “rivoluzione verde”, l’uso crescente di macchine, fertilizzanti, pesticidi ed altri ausili alla produzione ha moltiplicato i consumi energetici, mentre le superfici coltivate sono aumentate e si sono allontanate dai luoghi di consumo.
La conseguenza paradossale è che il valore energetico ottenuto dalla produzione agricola è in molti casi inferiore a quello impiegato per ricavarlo.
Questo squilibrio viene solitamente giustificato dalla necessità di alimentare una popolazione sempre crescente, volutamente ignorando che una più equa distribuzione renderebbe sufficiente, o addirittura abbondante, la produzione agricola ottenibile.
E la nobile motivazione di eliminare la fame nel mondo propone come percorso di “transizione ecologica” monocolture sempre crescenti, abbattendo di fatto la diversità varietale di ecotipi realizzata in decine di migliaia di anni dal processo congiunto di selezione degli agricoltori nello scegliere le sementi migliori e dell’ambiente che permette la sopravvivenza dei più “adatti”.
Non dimentichiamo che la maggior parte della produzione agricola mondiale è generata da piccoli produttori locali e che le loro conoscenze agricole sono frutto di oltre 10000 anni di tradizione e sperimentazione. Un sapere popolare che è prodotto comune e non individuale, una conoscenza non-scientifica trasmessa oralmente, memoria o sapere bioculturale che implica una visione del mondo e può tradursi in base per l’innovazione scientifica e tecnologica partecipata, risultato di un processo di democratizzazione della scienza, contro il principio di autorità che elegge gli “esperti” ad unica fonte di verità.
Non meraviglia quindi l’emergere di una opposizione ad una agricoltura contadina (che risuonano nelle polemiche prodotte sulla “agricoltura stregonesca” orchestrate ad esempio dalla senatrice Cattaneo), poiché essa di fatto riduce gli acquisti dalle industrie chimiche e sementiere, la cui unità di interessi è manifesta: che l’industria sementiera Monsanto sia acquistata da quella chimica Bayer è significativo di un progetto in cui le caratteristiche della semente devono essere funzionali all’uso di fertilizzanti, pesticidi e diserbanti.
Le proposte di green economy rischiano di intensificare l’ingannevole valorizzazione capitalista della natura e rimangono allineate alle esigenze delle imprese e di chi detiene la ricchezza e riproducono e intensificano modalità di vita e di produzione capitalistiche patriarcali e imperialistiche.
Le alzate di scudi di una retorica politica populistica-mediatica che usa i suoi “modelli scientifici” in questo campo nasconde altro. Non si tratta tanto del timore di perdere piccoli segmenti di mercato attuale, quanto di evitare il futuro espandersi di modalità di coltivazione bio, che mostrano un notevole dinamismo nell’affermarsi, anche per l’aspirazione dei consumatori di prevenire i danni da una cattiva alimentazione oltre che quelli ambientali.
Gli obiettivi dell’agricoltura biologica e di quella biodinamica sono un uso responsabile dell’energia, mantenere la biodiversità, conservare gli equilibri ecologici regionali, migliorare la fertilità del suolo, mantenere la qualità delle acque e curare il benessere degli animali allevati.
Da notare che i metodi di coltivazione che ne conseguono devono soddisfare controlli pubblici (secondo le normative dell’unione europea), che tutte le aziende biodinamiche europee sono soggette agli stessi controlli per la conformità delle aziende biologiche e si sottopongono volontariamente a ulteriori controlli per la certificazione biodinamica (Demeter).
Che il metodo di agricoltura biodinamica ricerchi l’equilibrio con le forze cosmiche attraverso pratiche che appaiono risibili e ascientifiche (peraltro non più delle rogazioni o della fede nella transustanziazione) non esclude che persegua di fatto il miglioramento della fertilità del terreno.
Non sembrerebbe dover creare panico nel mondo scientifico l’uso del compost o di attivatori vegetali, o di calendari di semina basati sui cicli lunari, peraltro patrimonio culturale consolidato dell’agricoltura contadina.
A meno che erodere la credibilità dell’efficacia di metodi biologici in genere non porti ad affermare come unica via percorribile quella dinuove tecniche genomiche che, introducendo nel patrimonio genetico delle piante coltivate geni di caratteri “desiderabili” (geni non appartenenti ad altre specie, a differenza degli OGM) creerebbero nuove varietà “sostenibili” adatte alle esigenze di un’agricoltura sempre più industrializzata o di un clima irrimediabilmente cambiato.
Sono le grandi corporazioni dell’agroalimentare che cercano di contrastare i cambiamenti essenziali del sistema agroalimentare, sia quelli che potrebbero ridurre in modo diretto l’impatto dell’agricoltura sul clima, (riducendo gli apporti chimici, favorendo le strategie di adattamento delle colture, utilizzando la diversità locale delle sementi), sia quelli che, rafforzando le economie locali, contribuiscono all’affermarsi della “sovranità alimentare” e del controllo degli agricoltori e agricoltrici sui sistemi alimentari, e ad una più equa distribuzione dei prodotti, riducendone anche la circolazione e i chilometri percorsi per i trasporti dai luoghi di produzione a quelli di consumo.