di FEDERICO TOMASELLO.
Cade in questi giorni il decennale della rivolta delle banlieues francesi, un avvenimento importante, che ha stimolato nuove prospettive di analisi sulla metropoli contemporanea e sui conflitti che la abitano. Pubblichiamo in questa occasione alcuni stralci dell’introduzione di un libro appena uscito che da quell’avvenimento prende le mosse (Illustrazioni di Sandro Moretti).
Federico Tomasello, La violenza. Saggio sulle frontiere del politico
(Manifestolibri, Roma 2015, 256 pagine)
Introduzione
Giovedì 27 Ottobre 2005, Clichy-sous-Bois – comune della periferia nord di Parigi. Bouna Traoré e Zyed Benna, due ragazzi di 15 e 17 anni,
muoiono fulminati nella centralina elettrica in cui si erano nascosti per sfuggire a un controllo di polizia. Quella stessa notte i roghi delle automobili in fiamme illuminano i cieli sopra Clichy, e successivamente investono i comuni limitrofi per estendersi poi alle banlieues dell’intero paese. Per molti giorni, all’imbrunire, quasi trecento comuni francesi diventano teatro di assalti a edifici pubblici e mezzi di trasporto, incendi di auto, saccheggi e scontri con la polizia. Per la prima volta dal dopoguerra, il governo dichiara sul territorio nazionale lo ‘stato di emergenza’, che autorizza i prefetti a stabilire il coprifuoco in molte città. Si contano oltre duecento milioni di danni, 8.720 veicoli dati alle fiamme, 3.101 fermi di polizia, 274 edifici incendiati, danneggiati o distrutti, numerose centinaia di feriti e sei morti. Solo dopo
ventuno giorni di émeutes, l’indicatore della rivolta, il numero di auto bruciate in tutto il paese, torna ai livelli precedenti al 28 ottobre. «Ogni notte in media novanta vetture vengono bruciate nella nostra dolce Francia. Una sorta di fiamma perpetua, come quella dell’Arco di Trionfo»,[1] scrive Jean Baudrillard, restituendo la cifra dello sgomento che prende forma dall’intreccio fra l’inedita estensione dei disordini e la consapevolezza che essi proiettano sugli schermi del mondo intero fenomeni ‘endemicamente’ radicati nel tessuto delle banlieues da molti anni. «La frequenza delle rivolte urbane in Francia – sottolineano Stéphane Beaud e Michel Pialoux – si inscrive ormai nell’‘ordine delle cose’ che rimanda a fenomeni strutturali».[2]
[…]
Dall’ultimo quarto del secolo scorso, episodi di rioting segnati da caratteristiche relativamente omogenee si susseguono con regolarità nelle aree urbane francesi e inglesi, interessando sovente anche altre città europee, e soprattutto statunitensi. Basti richiamare la rivolta di Los Angeles del 1992 che, con le sue cinquantaquattro vittime e migliaia di feriti, condensava in forma apicale gli ‘ingredienti’ fondamentali del fenomeno. La scintilla: innescata da una violenza poliziesca d’eccezione, che sospende il diritto lasciando vigente solo la forza necessaria a garantire l’ordinamento. Le forme dei disordini che ne scaturiscono: una violenza di massa, eminentemente notturna, votata al saccheggio di beni di consumo e alla distruzione di edifici e mezzi di trasporto, priva di parola, di discorso, di rivendicazioni, e perciò designata come irrazionale, barbara, autodistruttiva. Le categorie mobilitate per l’interpretazione dell’avvenimento: determinanti sociali – povertà, minoranze, disuguaglianza, razza, marginalità, delinquenza – che si innestano su fattori più propriamente urbani, legati all’urban decay, al declino della razionalità industriale di governo, organizzazione e controllo dei territori metropolitani. Cosicché le ‘telegeniche’ e spettacolari immagini dei riots sono al tempo stesso immagini di violenza e immagini di spazi urbani postindustriali.
[…] «La tematica della banlieue con il suo corteo di concetti molli, ‘immigrati’, ‘violenze’, ‘insicurezza’, ‘esclusione’ segnala l’anomalia definita da Thomas S. Kuhn come il sintomo flagrante di una rottura di intellettualità», scrive Alain Bertho a proposito dell’avvenimento del 2005, a partire da cui ha avviato una traiettoria di indagine volta a restituire la penetrazione e diffusione delle émeutes per inscrivervi «uno dei tratti salienti della nostra epoca».[3] Nel suo decimo anniversario, la révolte des banlieues pare in effetti conservare intatti i suoi tratti enigmatici – il carattere aperto e radicale degli interrogativi evidenziati da coloro che ne hanno tentato un’interpretazione politica – e lo statuto emblematico di avvenimenti in via di espansione globale. […] una violenza collettiva ‘espressiva’, in qualche modo identitaria, non riconducibile a una logica politica né a una direttamente criminale, ma semmai genericamente ‘urbana’ […].
Le prossime pagine non si propongono di ‘scoprire’ le ‘cause sociali’ di queste violenze, né i loro moventi individuali, le strategie per evitarle o le politiche atte a prevenirle. Né tantomeno intendono proporre posticce apologie di tali atti enunciandone improbabili significati politici nel lessico che abbiamo già. Esse mirano invece a studiare i riots urbani come fenomeno sociale, politico, culturale dal punto di vista della società in cui avvengono, e dunque a offrire anzitutto una mappa delle loro rappresentazioni sociali e interpretazioni politiche. E, di qui, a interrogare la loro capacità di chiamare in causa e mettere in discussione alcuni ‘utensili politici’ di lettura della contemporaneità. […]
1. Violenza e metropoli
Questo libro comprende il proprio oggetto anzitutto come un fenomeno ‘metropolitano’, in qualche modo riflesso dell’esaurimento di conflitti che abitavano spazialità più specifiche, e che, mutando radicalmente forma, trovano oggi nell’urbano il proprio teatro più rilevante. Le forme di vita urbane dentro la mutazione del contemporaneo costituiscono cioè lo sfondo su cui i riots verranno collocati per interrogarne il rapporto con quella particolare configurazione storica dello spazio cittadino che chiamiamo metropoli.
Il compiersi a ritmi sempre più sostenuti di ciò che nel 1970 Henri Lefebvre nominava come Rivoluzione urbana,[4] conferisce oggi al tema dell’urbanizzazione il rilievo di una metanarrativa cui riferire un numero sempre crescente di questioni – ivi compresa, vedremo, quella della violenza. Una sorta di ‘archivio’ generale cui rubricare ogni discorso sullo sviluppo delle geografie umane, una ‘tendenza’ complessiva che induce gli studiosi a parlare dell’avvento di una civiltà urbana, di un’Urban age, di un mondo-città o metacittà, nel quadro di un generale accordo su una visione ‘urbanocentrica’ dell’attuale momento geostorico.[5] Sembra difficile descrivere e comprendere la fisionomia politica del nostro tempo a prescindere da questi processi, la cui densità ha oggi da essere incorporata in una concettualità politica che il corso della modernità ha forgiato eminentemente su altre scale spaziali (quella statuale su tutte). Si intende qui offrire consistenza alla possibilità di incorporare queste intensità urbane in talune figure del lessico politico moderno assumendo il concetto di metropoli come griglia ermeneutica generale attraverso cui ‘filtrare’ e mettere in questione le categorie politiche di analisi dei fenomeni di violenza, conflitto, soggettivazione politica. […]
Nella sua etimologia greca, il lemma metropoli designava non tanto una spazialità definita e circoscritta, ma il rapporto politico della ‘città madre’ – μήτηρ πόλις – con le sue colonie, e dunque l’intreccio fra un’ontologia urbana e il sistema complesso di relazioni che andavano articolandosi a partire da essa. Su questa falsariga, la nozione di metropoli verrà qui intesa come relazione più che come territorio, servirà a indicare non delle città ‘sconfinate’ […], ma piuttosto un insieme di processi che intervengono sulle forme della coesistenza umana contemporanea, e un enorme dispositivo politico di relazioni e linguaggi composto da condizioni di necessità e da infiniti sistemi di possibilità.[6] Metropoli al singolare, dunque, come forma universale, come ‘universalità’ di una forma spazio-temporale di convivenza urbana tendenzialmente coestensiva allo spazio della Terra. […] Le prossime pagine interrogano la pensabilità di questa condizione metropolitana contemporanea. […]. Metropoli è il nome dei processi che danno forma agli assetti urbani risultanti dalle poderose trasformazioni che hanno investito la città dall’ultimo quarto del secolo scorso, rimettendola a quello che pare un destino di perenne ‘posterità’. Consegnandola cioè a configurazioni transitorie che indicano poco più del mero venir meno delle evidenze proprie agli assetti urbani precedenti, dell’omogeneità e razionalità della città industriale moderna. L’aggettivo contemporanea insiste perciò sul carattere post-industriale della realtà metropolitana, in cui vengono maturando elementi di identità fra produzione, comunicazione, cooperazione sociale, relazionalità, affettività.
Sono queste intensità che in potenza fanno lavorare l’idea di metropoli come un concetto compiutamente politico, volto a cogliere talune espressioni della vita in comune dell’animale umano, le pratiche e strategie che su di esse si innestano, e determinate condotte di forme di vita che possono essere colte solo nel loro rapporto con le spazialità urbane su cui insistono. Fra esse, le violenze collettive acquistano un rilievo particolare perché nell’immaginario contemporaneo sono imbricate nelle percezioni e rappresentazioni dei processi di mutamento metropolitano della coesistenza urbana. Di una metamorfosi dell’esperienza cittadina che essi stessi contribuiscono ad alimentare insediando disordine dove ieri v’erano orizzonti di trasformazione più o meno generali. «Negli anni Settanta […] l’immagine della violenza come comportamento prettamente urbano entra nell’immaginario sociale», scrive Paola Rebughini: «oggi la città e i suoi elementi spaziali […] hanno rimpiazzato e oscurato, come nuove metafore, i concetti fondamentali per la comprensione della violenza – come quelli di conflitto, potere, conservazione e innovazione, vincitori e vinti».[7] Le sommosse metropolitane abitano questo spostamento di paradigma, la transizione al postindustriale che investe le spazialità urbane portando la violenza al centro delle loro rappresentazioni. […]
2. Violenza e pensiero politico: uno scarto fra linguaggio ed espressione?
Una volta assunto il loro carattere metropolitano, la centralità del loro intimo concatenamento con gli spazi urbani su cui insistono, i riots vengono qui indagati come fenomeni di violenza, come azioni frutto della generica capacità dell’essere umano di danneggiare o distruggere oggetti e corpi. Così definita, la violenza costituisce una situazione elementare della vita sociale, che al tempo stesso è vissuta però come un’eccezione, un’esperienza-limite carica di significati, il cui rilievo politico scaturisce da un’istanza di immunità su base collettiva, da un problema di protezione da affrontare e risolvere in comune […]. Gli ordini sociali sono soliti inscrivere un proprio punto di origine in corrispondenza del momento in cui tale problematica è stata positivamente sciolta, e l’‘invenzione’ della politica moderna si presenta, soprattutto con le teorie contrattualiste, come un progetto di ordine contrapposto alla violenza. […] Ecco perché l’improvvisa irruzione di una violenza incivile, ‘barbara’, incontrollata nel cuore della città contemporanea suscita sempre sgomento e interrogativi radicali, e, accanto a suggestioni post-moderne o ‘post-politiche’, evoca immaginari apocalittici di natura ancestrale, primigenia, ‘pre-moderna’ o ‘proto-politica’.
[…] Il pensiero politico del secolo scorso si è esercitato sulla definizione dei criteri di legittimità della violenza. Da una parte, quelli che consentono di attribuire a una soggettività – lo Stato – un ‘diritto alla violenza’ teso a salvaguardare l’immunità collettiva, a ‘difendere la società’. Dall’altra quelli in base a cui conferire funzioni e significati politici a una ‘controviolenza’ esercitata su base collettiva. Si vedrà che questo ordine di questioni determina le tipologie di violenza assunte a oggetto di teoria e riflessione politica, le fenomenologie della ‘violenza politica’. Da queste, gli avvenimenti al centro della presente indagine rimangono esclusi: si vuole qui indagare le ragioni di tale assenza, e questionarle anche in vista di un possibile aggiornamento del ‘catalogo’ di fenomeni violenti caricati di significato politico.
Fra i motivi di questa esclusione si potrebbe annoverare la dismisura che i riots urbani manifestano rispetto alla violenza ‘più violenta’ su cui è solito esercitarsi il pensiero politico – guerra, terrorismo, tortura, genocidio, pena di morte.[8] Rispetto a queste fattispecie, è bene sottolinearlo, la sommossa metropolitana non è violenta: perché non uccide, non è rivolta contro la ‘vita del vivente’. […]. E tuttavia, dar fuoco a un palazzo abitato, a un autobus in transito, saccheggiare, picchiare, attaccare la polizia possono essere studiati in quanto atti di violenza senza che ciò si traduca necessariamente in giudizio etico o politico. Ignorare questo aspetto non serve invece ad assolvere gli attori della sommossa, ma forse solo a ricondurne l’analisi a problematiche più confortevoli e paradigmi più familiari, che rischiano però di oscurare portata e natura del fenomeno. Si tratta piuttosto di osservare i riots come una forma di violenza tenendo presente che, in questa veste sociale e collettiva, la violenza è sempre anche una costruzione sociale: esiste anzitutto laddove viene designata e riconosciuta come tale da una posizione autorizzata a conferire senso alla situazione. […] Si potrebbe dire che la ‘verità della violenza’ si determina in corrispondenza di un rapporto di forza: si tratta allora di indagarne forme e significati, e le ragioni per cui il contenuto violento appare tanto in primo piano nelle rappresentazioni dei riots, nel modo in cui essi vengono costruiti come eventi.
Proprio a questa altezza si coglie il decisivo rilievo di una caratteristica comune del fenomeno: l’ostinato silenzio pubblico dei rioters, la loro
radicale riluttanza a unire all’uso della violenza altre pratiche volte a indicare cause e scopi dei propri gesti, il loro rifiuto di avanzare rivendicazioni, di indicare ‘nomi comuni’ per l’assunzione di questi atti collettivi, di manifestare pubblicamente le ragioni delle violenze e di indicare le condizioni per la loro cessazione.[9] […] L’ostinato silenzio che regna sui fuochi del tumulto urbano indica la possibilità di pensare questa violenza come una sorta di eccedenza dell’espressione rispetto al linguaggio, rispetto al lessico della politica, a poderose operazioni di nominazione con cui il pensiero ha saputo inscrivere dentro categorie analitiche molti comportamenti e manifestazioni del vivere e dell’agire collettivo. In questa dimensione eccedente, la violenza appare come un fatto che si colloca al di là del linguaggio, una modalità espressiva che giace oltre la parola. Ma essa dice al tempo stesso di un cortocircuito di quella particolare violenza che agisce dentro la pratica del linguaggio: di quella forza necessaria a ridurre oggetti e fenomeni sociali a simboli linguistici, a comporre una complessità di significato nella caratteristica unica espressa dal significante, a far sì che gli avvenimenti possano essere ricondotti a simboli di riferimento condivisi.[10] Una presa di parola da parte dei rioters riguardo a ‘cause’ e moventi delle loro azioni poggerebbe anzitutto sulla capacità di questa forza di istituire un accordo fra l’esperienza soggettiva di tali cause e le categorie in cui il linguaggio deve costringerla per nominarla.
L’ipotesi è allora che una nuova fattispecie di violenza collettiva abbia fatto la propria irruzione sul palcoscenico della metropoli nel momento in cui percezioni soggettive dei termini in cui il problema è posto sono arrivate a lambire la dimensione dell’‘indicibile’. La sommossa metropolitana sarebbe dunque esperienza materiale dello iato che pare scavarsi fra una condizione e le parole a disposizione per nominarla. Fra forme di vita e bisogni propri ai territori urbani contemporanei e l’apparato categoriale volto a rappresentarli in linguaggio e in immagini del mondo condivise. […] Da questo punto di vista, l’interpretazione politica della violenza urbana coincide con quella di alcuni vuoti che paiono scavarsi al centro della contemporaneità, erodendo la capacità di presa analitica sul reale di talune figure cardine della concettualità politica moderna e della sua grammatica giuridica. […]
3. Le ‘frontiere del politico’
I riots contemporanei sono segnati dalle stimmate di radicale impoliticità cui analisti, studiosi e commentatori sono soliti consegnarli. L’ordine dei discorsi attivati intorno a episodi come quelli del 2005 e del 2011 è attraversato da una comune tensione fra la generale attitudine a riconoscervi dei fatti politici significativi – perché ‘sintomatici’ di problematiche e contraddizioni del presente – e una, altrettanto generale, riluttanza a inscrivervi degli atti politici veri e propri. Così, ad esempio, Étienne Balibar ha parlato di una «violenza infrapolitica»,[11] Gérard Mauger ha indicato negli avvenimenti del 2005 una «rivolta protopolitica»,[12] mentre per Simon Winlow e Steve Hall quelli del 2011 erano «post-political riots».[13] Tale tendenza a designare le violenze metropolitane chiamando in causa un’interazione ambigua e liminare con il campo del politico dice già di una pressione che esse vi esercitano, e della loro capacità di toccare alcuni nervi del nostro tempo. Proprio lo statuto enigmatico, quando non aporetico, del loro rapporto con la dimensione dell’agire politico, fa sì che i riots offrano una prospettiva privilegiata attraverso cui elaborare un’interrogazione sul politico contemporaneo; sui confini che ne definiscono e delimitano il campo istituendone un regime di verità contingente, anche attraverso implicite opposizioni rispetto alle vischiose e informi lande dell’impolitico.
La presente riflessione non poggia dunque su alcuna definizione, per così dire, ontologica del politico stesso, ma mira piuttosto a un’indagine del modo in cui, in determinati momenti, si cristallizzano quelle soglie che abilitano i criteri attraverso cui i nostri apparati categoriali distinguono ciò che è politico da ciò che non lo è. Questi processi di produzione delle frontiere sempre labili e mutevoli che fissano norme di politicità/impoliticità sono il soggetto di questa ricerca. La quale verte sulle rivolte metropolitane proprio in ragione della loro collocazione liminare rispetto al politico stesso, della pressione che esse esercitano sui confini che ne organizzano il significato anche per opposizione a enunciati e avvenimenti che relegano a un’impolitica esteriorità. «I riots – scrive Marilena Simiti – sfidano le nostre percezioni della politica, che sono basate su strette dualità, del tipo politico/non politico»:[14] è questo genere di partizione che le violenze collettive delle metropoli contemporanee paiono continuamente chiamare in causa, mettendo in tensione le dimensioni di interiorità/esteriorità al campo del politico attraverso cui processi sociali e comportamenti collettivi vengono rappresentati. Si vuole allora disporre lo sguardo in corrispondenza di questi territori liminari per osservare, da lì, le frontiere del politico contemporaneo, riconoscerne la forma e l’estensione, ricostruirne le ragioni passate e presenti a partire da quei vuoti che oggi sembrano intaccarle e crescervi in forma di voragine. Si userà quindi l’espressione ‘verità del politico’ per indicare l’effetto generale della fissazione dei confini del politico in quanto configurazione contingente di un rapporto di forza che, per un certo tempo, cristallizza le condizioni di verità cui enunciati e avvenimenti devono rispondere per vedersi riconosciuti interni a tale campo.
[…] [Illustrazioni di Sandro Moretti]
INDICE
INTRODUZIONE
1.Violenza e metropoli
2.Violenza e pensiero politico: uno scarto fra linguaggio ed espressione?
3. Le ‘frontiere del politico’
CAPITOLO PRIMO
‘PAPER RIOTS’: DALLE VIOLENZE URBANE AL DISORDINE DELLE PAROLE
1.1 Politica e Polizia
1.2 Razza e violenza
1.3 Le ‘cause sociali’ della violenza: variazioni sul concetto di società
1.4 Il consumo come cultura: perimetro di un mondo senza più fuori?
Appendice: i nomi della violenza
CAPITOLO SECONDO
VIOLENZA E SOGGETTIVAZIONE:
SU UNA ‘FORMA DI PRODUZIONE’ DEI COLLETTIVI
2.1 Marx e le aporie di un’interpretazione ‘ostetrica’ della Gewalt
2.2 A partire da Engels: movimento operaio e civilizzazione
2.3 Georges Sorel: un dispositivo di produzione di soggettività
2.4 La critica benjaminiana della violenza e i significati politici di
un’eccezione
2.5 Metropoli e spazio
2.6 Banlieue
Appendice: la metropoli come fabbrica
CAPITOLO TERZO
VIOLENZA E POTERE: IL PROBLEMA DELLA QUALIFICAZIONE POLITICA
3.1 Da Weber a Popitz: il potere della violenza
3.2 Controviolenza e contropotere: sul conflitto sociale
3.3 Hannah Arendt e la critica di un ‘assioma’ della teoria politica
3.4 Violenza politica e disordini urbani
3.5 Riconoscimento e rappresentazione mediatica
3.6 Metropoli e tempo
3.7 «Dovevano depositare una petizione al Palais-Bourbon?»
Appendice: norme sugli usi non strumentali della violenza
CAPITOLO QUARTO
VIOLENZA E LIBERTÀ: LA METROPOLI COME FRONTIERA
4.1 Wolfgang Sofsky: una crudele libertà
4.2 Su alcuni motivi minori in Michel Foucault
4.3 «L’uomo che scalpita alle frontiere»: anatomia di una metafora
4.4 Frontiere interne: il ‘fuori’ della metropoli e la sua produzione
4.5 I Nuovi Barbari
Appendice: cronologia degli avvenimenti citati
[1] J. Baudrillard, Nique ta mère! Voitures brûlées et non au référendum sont les phases d’une même révolte encore inachevée, «Libération», 18 novembre 2005 […].
[2] S. Beaud, M. Pialoux, La “racaille” et les “vrais jeunes”. Critique d’une vision binaire du monde des cités, in «Liens Socio», 2, novembre 2005, on-line: http://www.liens-socio.org/article.php3?id_article=977. […]
[3] A. Bertho, Nous-autres nous-mêmes. Ethnographie politique du présent, Croquant, Paris 2008, p. 81, e Id., Le temps des émeutes, Bayard, Montrouge 2009, p. 14 […].
[4] Cfr. in part. H. Lefebvre Le Droit à la ville, Seuil, Paris 1968; Id., Du rural à l’urbain Antrophos, Paris 1970; e Id., La Révolution urbaine, Gallimard, Paris 1970 […].
[5] L’espressione Urban age è emersa in particolare nell’ambito delle Nazioni Unite: nel 2009 la quota della popolazione mondiale residente nelle aree urbane ha superato la soglia del 50 per cento (già varcata nel 1950 nel solo ambito dei paesi occidentali). Una tendenza che vede ogni anni aumentare di diverse decine di milioni la popolazione residente in aree urbane, cosicché le proiezioni indicano che nel 2050 dei (previsti) nove miliardi di abitanti della terra, 6,4 saranno ‘urbanizzati’. Si vedano in proposito i materiali del progetto Habitat delle Nazioni Unite: http://unhabitat.org/
[6] Debbo questa prospettiva in particolare a P. Virno, Un dedalo di parole. Per un’analisi linguistica della metropoli, in M. Ilardi (a cura di), La città senza luoghi. Individuo, conflitto, consumo nella metropoli, Costa & Nolan, Genova 1990, pp. 61-89 (cfr. infra § 2.5). Si può richiamare poi la formula con cui Giorgio Agamben indica nella metropoli il «dispositivo, o insieme di dispositivi, che si impone sulla città quando il potere assume la forma di un governo degli uomini. […] il luogo per eccellenza della nuova figura economico-governamentale del potere» (La città e la metropoli, in «Posse», 13, novembre 2007). Ma si farà qui riferimento, con il concetto di metropoli, a una profondità temporale ben più limitata. Utilizzando l’espressione «deterritorializzazione» si allude qui anche a quel movimento che Gilles Deleuze e Felix Guattari attribuiscono alla città greca per la sua spinta ad «adatta[re] il territorio a un’estensione geometrica prolungabile nei circuiti commerciali» (Che cos’è la filosofia?, trad. it. Einaudi, Torino 1996, p. 78). Si noti infine, per inciso, che alla voce Metropoli, l’Enciclopedia Utet sottolinea che «la geografia antropica chiama oggi metropoli le città molto importanti e popolate»: indica cioè oltre al riferimento all’unità urbana e alla consistenza della sua popolazione, pure un criterio – l’importanza – indipendente dallo spazio e fondamentalmente politico (L’Enciclopedia, Redazioni Grandi Opere di Cultura UTET, Novara 2003, vol. 13, p. 744).
[7] P. Rebughini, Violenza e spazio urbano. Rappresentazioni e significati della violenza nella città contemporanea, Guerini, Milano 2011, pp. 78 e 73-74.
[8] Discorso a parte meriterebbe la fattispecie della guerra civile, che, nella sua versione ‘rivoluzionaria’, sarà considerata nel secondo capitolo.
[9] I rioters «non formulano alcuna richiesta esplicitamente […] e non rivendicano nessuna identità specifica individuale o collettiva», sottolineano Didier Chabanet e Frédéric Royall, From social movement analysis to contentious politics, in Id. (eds.), From silence to protest. International perspectives on weakly resourced groups, Ashgate, Burlington 2014, p. 7.
[10] Cfr. S. Žižek, La violenza invisibile; trad. it. Rizzoli, Milano 2007.
[11] É. Balibar, Uprisings in the banlieues, in «Lignes», 21, 2006, p. 88 […].
[12] G. Mauger, L’émeute de novembre 2005. Une révolte protopolitique, Croquant, Broisseux 2006.
[13] S. Winlow, S. Hall, Gone shopping: inarticulate politics in English riots of 2011, in D. Briggs (ed.), The English Riots of 2011: A Summer of Discontent, Waterside, London 2012, p. 157.
[14] M. Simiti, The volatility of Urban Riots, in Seferiades, Johnston, Violent protest, Contentious Politics, and the Neoliberal State cit., p. 133.