di MARIO CANDEIAS*.
La crisi europea sta portando a un dilagante sciovinismo, razzismo e alla disintegrazione. Sotto la spinta di questa dinamica lo stato d’emergenza si è fatto strumento di governo. In maniera autoritaria vengono portate avanti l’austerità, lo smantellamento dei diritti sociali e sul lavoro e un regime dei confini militarizzato e disumano, viene cancellato il diritto di asilo. Le affermazioni democratiche, che siano per una vita dignitosa per tutti e tutte, per la speranza di sopravvivere o per l’idea che le elezioni dovrebbero avere ancora un qualche influsso sulle decisioni politiche, queste affermazioni vengono respinte al mittente dalle istituzioni dominanti.
Dal 2011 in poi, a tutto ciò si sono contrapposti i movimenti per la democrazia, in prima battuta in Grecia in Spagna. Ora, dopo l’esperienza greca e la sottomissione del governo di Syriza a un nuovo memorandum, diverse iniziative stanno provando a portare avanti un movimento per la democrazia anche sul piano europeo, prima che sia troppo tardi e la distruzione ci riporti indietro agli anni Trenta.
Piattaforme europee.
A questo fine Yanis Varoufakis e Srecko Horvat hanno proposto la costruzione di una piattaforma europea. Sotto i riflettori dei media, il 9 febbraio scorso a Berlino è stata proposta “DiEM25”. L’interesse era molto alto, le sale della Volksbühne non sono riuscite a contenere la folla, la diretta video, trasmessa sia in altri spazi dalla Fondazione “Rosa Luxemburg”, sia on line, ha aiutato. L’iniziative incrocia una diffusa sensazione, quella di voler finalmente fare qualcosa. In questo Varoufakis e Horvat non puntano esclusivamente ai soliti noti, ma vogliono indirizzare anche alcune specifiche forze socialdemocratiche e liberal-democratiche. DiEM25 vorrebbe connettere l’autorganizzazione, il lavoro politico locale e un progetto transnazionale. “Si può dubitare che questo riesca. I movimenti non si costruiscono con una conferenza stampa. Ma l’iniziativa di Varoufakis è comunque importante”, dice Raul Zelik. Si sta accumulando interesse intorno alla speranza di un’altra Europa. E di questi tempi è molto. Nel frattempo il 23 marzo a Roma si è tenuta la seconda iniziativa. Ma il criterio decisivo sarà quello espresso da Margarita Tsomou: “Se sul piano locale non si producono processi di organizzazione, che incidano nella quotidianità sulle vite e sul pensiero delle tante persone frustrate che oggi siedono sul divano, nelle strade continuerà la rivoluzione delle destre. Proprio quelli che non si sentono rappresentati, che provano rabbia per l’”establishment democratico”, devono avere una prospettiva opposta rispetto alle destre, e questa può venire solamente dallo sviluppo di una propria pratica democratica.” Il piano prevede ora che, in molte città e in rete, si tengano incontri su singoli temi, per poi raccoglierne i risultati a novembre nella cornice di una prima proposta coerente.
Anche l’iniziativa intorno al cosiddetto “Piano B” (Melanchon, Zoe Konstantopoulou, Lafontaine e altri) sta seguendo il dibattito intorno alla ricostituzione di un processo di integrazione europea, non limitato al tema dell’uscita da sinistra dall’Euro, il “Lexit” (Owen Jones). Il focus strategico mira a un sistema finanziario e valutario alternativo e punta a imbrigliare la delusione e il rifiuto per l’Unione Europea. Tuttavia, lo spettro dell’incontro del 23 e 24 gennaio scorsi a Parigi rimane esiguo, e soprattutto caratterizzato dalla partecipazione di politici ed economisti già noti. La rinuncia a qualsiasi tentativo di riforma dell’Euro e delle istituzioni europee limita l’espansione dell’iniziativa e rappresenta al contempo un elemento di divisione all’interno delle sinistre europee.
Un Piano B deve diventare più ampio, come caldeggiato dall’iniziativa di Miguel Urban di Podemos, che dal 19 al 21 febbraio ha convocato a Madrid un meeting per il “Piano B”. E hanno partecipato quasi 2.500 persone. Era stato pensato per essere molto più orientato verso i movimenti, anche se i più importanti in Spagna, quali la PAH, erano sostanzialmente assenti, e le sue forme molto tradizionali, per nulla espressione delle caratteristiche dei nuovi movimenti. L’allargamento si è visto soprattutto a livello di temi: moneta e istituzioni, debito, ecologia, lavoro, e non ultimo il regime dei confini e il movimento dei rifugiati, hanno rappresentato il centro del dibattito. Assomigliava più a un Social Forum di qualche tempo fa: alcune reti europee, come quella sul debito, si sono incontrate – il che è positivo, ma sarebbe avvenuto in ogni caso. Tanti altri temi non non sono neppure stati discussi in riferimento all’Europa, per esempio lo smantellamento dei diritti del lavoro e nel sistema sanitario, o la crisi ecologica. A parte pochi momenti, persino il drammatico aggravarsi della crisi europea non è stato affrontato. Se il “Piano B” a Parigi era troppo stretto, il “Piano B” a Madrid si è concluso invece conl’elencazione più o meno arbitraria di desideri e slogan. Ma era anche tangibile la volontà di far convergere diverse cose: DiEM25, il Piano B parigino, Blockupy, così come la GUE/NGL erano invitati alla discussione. Ma ripetutatmente questa buona volontà è stata annullata da tentativi di appropriazione e dichiarazioni unilaterali contro l’Euro e l’Unione Europea, per esempio negli attesi interventi di Zoe Konstantopoulou, subito dopo la lettura di una documento consensuale che era stato faticosamente formulato.
Anche la rete dell’AlterSummit continua a mettersi alla prova con il coordinamento europeo di specifiche attività, con un’efficacia limitata. E movimenti della sinistra radicale come Blockupy si cimentano, d’altra parte, su variegati processi d’intervento concreto nell’organizzazione quotidiana, in connessione con appuntamenti transnazionali e azioni di disobbedienza civile, ma sono ancora all’interno di un processo di chiarificazione strategica. Adesso Blockupy è orientata strategicamente sulla costruzione di azioni verso la primavera del 2017 e l’inizio dello scontro elettorale intorno al Bundestag in Germania.
Allo stesso modo l’iniziativa, portata avanti in particolare da soggetti sindacali, “Refounding Europe” guarda alla situazione in Germania, per mettere a tema le relazioni in Europa. In autunno è previsto un congresso, dal momento che non basta fare affidamento al movimento nelle periferie europee, ma questo deve svilupparsi anche nel cuore del regime autoritario della crisi, in Germania.
La necessità di unire le forze sul piano europeo è evidentemente vista come urgente e perseguita con crescente impegno. Lo sforzo sarebbe sprecato qualora alla fine le diverse iniziative dovessero finire per competere tra di loro, non raggiungendo una massa critica, e non sortendo alcun effetto. Si discute molto del “che fare?”, di tutto ciò che deve essere cambiato, ma raramente ci si pone la domanda sul chi e come lo debba fare. La discussione sulla forma politica dell’organizzazione e del processo per individuare pratiche di connessione adeguate è affrontata raramente. Il dibattito è bloccato programmaticamente – dopo il “colpo” contro Syriza, il tema resta: “se avessimo avuto migliori alternative, le cose avrebbero funzionato.” L’elemento più evidente, tuttavia, rimane la mancanza di solide fondamenta sul terreno della maggior parte di queste iniziative. Così c’è il rischi che diventino un “jet set attivistico” europeo, che può produrre una bolla d’aria di dibattito eccitato, senza minimamente toccare i veri rapporti di forza in Europa.
Organizzazione nel quotidiano e municipalismo.
Un po’ diverso è invece il nodo strategico posto da quelle forze che potrebbero essere descritte come “neo-municipaliste”: queste partono dal presupposto che ulteriori tentativi di organizzazione su scala europea risulterebbero vani, se non vi fosse una base organizzativa nella vita quotidiana delle persone, nei quartieri, sui posti di lavoro, nelle comunità locali. Nello Stato spagnolo, simili piattaforme connettive sono riuscite a vincere la maggior parte delle grandi città.
E non solo a Barcellona e Madrid, governi locali di sinistra hanno così eletto i propri sindaci. Anche negli Stati Uniti diversi successi, dopo il declino del movimento Occupy, sono stati ottenuti per lo più a livello locale e municipale (ad esempio, nell’approvazione di norme locali per il salario minimo). In Italia vi è una lunga tradizione di sinistra dei centri sociali e delle politiche municipaliste come luoghi di organizzazione, e di sopravvivenza per la sinistra. Ci si deve riappropriare delle municipalità come luogo della politica, dell'(auto)organizzazione e della partecipazione.
Con l’esperienza di Syriza si sono palesati i limiti dei governi nazionali di sinistra in un’Europa autoritaria. Questo è vero anche, e ovviamente, per un nuovo municipalismo, ma in maniera differente. Perciò si tratta anche di affrontare un salto di scala, per la traduzione e la connessione di tali politiche e forme d’organizzazione sul piano europeo – per una rete di città e regioni o, più enfaticamente, per la prospettiva di una “Comune d’Europa” come processo costituente per un’altra Europa dal basso. In questo senso, le piattaforme connettive locali si sono impegnate in prima linea nella fondazione di DiEM25. La rete delle Ciudades Rebeldes, di quelle città che dal maggio scorso hanno governi alternativi, è un esempio di come potrebbe apparire un movimento per la democratizzazione. Una pratica che anche in Germania sta acquistando sempre più importanza, dalle iniziative di accoglienza per i rifugiati, passando per i movimenti per il diritto alla città fino alle nuove iniziative per l’autorganizzazione nei quartieri considerati come centri focali della crisi sociale.
Non è un caso che i nuovi movimenti si siano formati soprattutto a livello di quartieri e città. Nella carenza di risorse, questo risulta essere lo spazio di organizzazione politica necessario, seppur non sufficiente, per i movimenti popolari per “diventare qualcosa di più”, lo spazio dove le forme partecipative di organizzazione, delle assemblee, si possono connettere tra di loro, con una rappresentanza credibile di interessi e pratiche istituzionali che aprono gli apparati “alle masse”, e riportano la consultazione e le decisioni nella società civile. È tuttavia necessario porsi ogni volta la domanda concreta su quale possa essere, a seconda della situazione, lo spazio più adatto di organizzazione.
In Portogallo, dove l’organizzazione nella dimensione quotidiana ha per ora ottenuto risultati limitati, e dove non si può attendere l’avvento di un qualche movimento europeo, la possibilità da parte delle forze politiche della sinistre di appoggiare dall’esterno un governo anti-austerity guidato dal Partito Socialista, ha aperto una prospettiva. Così come il governo di Syriza in Grecia sta cercando di guadagnare tempo e si difende dalle imposizioni europee di tagli e chiusure dei confini, mentre le strutture di solidarietà e i movimenti producono aiuto concreto e organizzazione. Anche in Italia, la dimensione locale ha costituito lo spazio di sopravvivenza delle strutture di sinistra, dal quale avrebbe dovuto sviliupparsi la piattaforma nazionale della Coalizione Sociale, nata per iniziativa del sindacato metalmeccanico FIOM-Cgil e di diverse organizzazioni sociali. Parallelamente, si sta costituendo un nuovo partito di sinistra, che presenterà proprie candidature alle prossime elezioni comunali e nazionali. In altre parole, non si tratta di decidere “tra questo … e quello”, ma delle priorità specifiche di ciascuna situazione.
Sovranità e processo costituente.
Le iniziative del Plan B enfatizzano la rivendicazione di un recupero della sovranità. Insieme al focus sulla difesa delle conquiste ottenute a livello nazionale, l’affermazione viene facilmente riassunta con la “sovranità nazionale” di uno Stato. È così che viene assolutamente interpretata – ma così non dev’essere. Possiamo difficilmente immaginare che, ai tempi delle reti di produzione transnazionali e dei mercati finanziari, si possa rivendicare su un piano nazionale isolato il recupero della sovranità. E in ogni caso, dovremmo chiederci per chi sia questa sovranità. Sicuramente non per uno Stato. Ciò di cui si lamenta la gente è di non avere più alcuna influenza sulle proprie condizioni materiali di vita, che vogliono tornare a determinare. Non si tratta quindi di ricadere in un discorso nazionalista, ma di una sovranità delle classi popolari, di tutti. Questo vale per tutti i livelli della politica – locale, regionale, nazionale e sovranazionale – quindi transnazionale nel senso stretto del termine, trasversale a tutti i livelli. Dal Plan B a DiEM25 tale discorso sulla sovranità potrebbe essere una prospettiva connettiva. La rigenerazione d’Europa dovrebbe quindi avere come mezzo e fine un rafforzamento della sovranità delle popolazioni degli Stati membri, al di là della cittadinanza. In questo modo, le tendenze alla rinazionalizzazione potrebbero essere rielaborato in una spinta verso il decentramento e l’europeizzazione. Da sinistra va quindi sviluppata allo stesso tempo sia una critica della reale evoluzione del progetto europeo dominante, sia l’idea emancipatoria di un’architettura europea alternativa. Al costituzionalismo autoritario andrebbe contrapposto un costituzionalismo progressista, che ricomprenda una riappropriazione della sovranità.
Ci si dovrebbe infatti interrogare se determinate competenze debbano essere restituite dal piano europeo agli altri livelli. Il tema comprende una nuova connessione tra la decentralizzazione e le mediazioni transnazionali: per quanto riguarda le questioni municipali, le decisioni dovrebbero essere prese su questo livello; questioni che potrebbero avere impatti su altri, al di là del singolo comune o di una particolare regione, dovrebbero essere regolate a livello più alto, macroregionale o nazionale, con la partecipazione delle parti interessate; fino ad arrivare a questioni che possono essere affrontate solo sul piano europeo, ad esempio le infrastrutture europee, la politica climatica, la regolazione dei mercati finanziari.
Sarebbe un processo costituente, che punti a un nuovo assetto costituzionale delle istituzioni e del diritto del progetto europeo, a chiarire tali questioni nel concreto. E ciò riguarda anche la rifondazione delle istituzioni esistenti, senza limitarsi a questo.
La questione della rifondazione non può limitarsi alle istituzioni di una democrazia sociale, senza essere completata da una vera democrazia economica, dal livello operativo fino ai consigli aziendali e a gruppi di pianificazione transnazionale, che non siano limitati alle sole parti sociali integrate dalle associazioni dei consumatori e di tutela dell’ambiente, ma potenzialmente a disposizione di chiunque. La democratizzazione e una protezione speciale europea relativa alle imprese pubbliche che operano nel campo dei servizi di base come quelli energetici, idrici o quelli abitativi sarebbero un primo passo importante.
Viste le istituzioni dell’UE che riceviamo in eredità, i partiti della sinistra necessariamente fallirebbero se non si ponessero come obiettivo quello di riconfigurare radicalmente quelle stesse strutture, e di spostare il terreno della lotta: senza una fondamentale messa in discussione delle istituzioni esistenti e la creazione di nuove, qualsiasi iniziativa rimarrà senza alcuna possibilità di successo. Anche il solo concentrarsi sul Parlamento europeo, all’interno quadro d’insieme degli apparati statali europei, significherebbe limitarsi a un campo senza sbocco e senza speranza. Perciò bisogna cambiare terreno e costruire contro-istituzioni democratiche. Un processo partecipativo costituente, inter-connesso a livello locale e macroregionale, di consultazione e di organizzazione in strutture di carattere consiliare – dai quartieri fino a livello europeo – avrebbe l’enorme compito di far convergere e consolidare le molteplici posizioni della sinistra sociale in un’alternativa comune. E nel fare ciò, non c’è affatto bisogno di aspettare che le istituzioni consentano o addirittura diano il via a un tale processo; sarebbe “semplicemente” da organizzare senza alcun permesso.
Non solo a livello di società civile, ma anche a quello delle istituzioni dell’Unione Europea, “andrebbero organizzati un discorso pubblico e processi politici di deliberazione. Questi processi, ad esempio, potrebbero fare un uso attivo del Parlamento europeo e dell’idea di una Convenzione europea, senza limitarsi a ciò” (Wolf, 2016). Alla fine del processo forse potrebbe risultare un’assemblea costituente per l’Europa, eletta a suffragio universale – una strategia che agli inizi del Ventesimo secolo ha permesso l’irruzione delle masse in politica e che oggi viene riattualizzata, tra gli altri, da DiEM25. Che tipo di Europa vogliamo? E come vogliamo vivervi?
Ma questo è il terzo passo. Un’alternativa non può essere formulata in termini astratti e idealistici, ma a partire dai problemi quotidiani della gente e dai rapporti di forza reali. Nella teoria, un processo costituente descrive innanzitutto la creazione di un soggetto politico dei Molti, non una procedura costituzionale; in caso contrario, la discussione resterebbe astratta e tenderebbe ad essere tecnocratica, senza alcuna prospettiva di realizzazione.
Tale processo costituente può e dev’essere lanciato ad ogni livello: dal piano municipale a quello europeo, può essere considerato contro e al contempo dentro e contro le istituzioni esistenti.
Un esempio sono le “città ribelli” in Spagna che, contro lo Stato nazionale, stanno lottando per conquistare una serie di nuove competenze o che, attraverso gli audit sull’indebitamento, provano a imporre la rinegoziazione e l’annullamento dei debiti. Un altro esempio è il processo di indipendenza catalana; ma anche il dibattito dell’iniziativa madrilena del Plan B su come un governo di centro-sinistra (o nel caso specifico, un’alleanza di governi di centro-sinistra del Sud Europeo) possano sfruttare una ridefinizione “unilaterale” del rapporto con l’Unione Europea con l’obiettiva di un processo ricostitutivo all’interno dell’intera UE – una nuova fondazione, che difenda gli elementi positivi della Unione e la trascenda al tempo stesso. Tutto ciò dovrebbe poi essere completato da un processo di comune decisione in Europa, come avviato dalle diverse piattaforme europee.
Referendum selvaggio.
Troppo complicato? È forse utile pensare al processo costituente come un ombrello comune, con la rivendicazione di una reale democrazia come punto di fuga. In questo “significante vuoto” i più diversi gruppi e iniziative possono iscrivere i propri interessi e progetti, perseguire le loro specifiche pratiche e, allo stesso tempo, continuare a portare avanti i loro temi caratterizzanti (dal TTIP al debito, dalle lotte anti-austerity alle iniziative di accoglienza, dall’indipendenza catalana ai dibattiti sull’Euro e il sistema valutario) – ma come parte di un processo costituente dal basso, indicandolo continuamente come un punto di riferimento, come una prospettiva. Ciascuno di questi temi e movimenti implica infatti la cruciale questione della democrazia e della costituzione di un’altra Europa.
Ed è stato già dimostrato come le campagne europee possano servire per la nuova fondazione dal basso di uno spazio politico in Europa. Già ci sono diverse esperienze, come le campagne sull’acqua, contro l’ACTA, sui porti, e ovviamente contro il TTIP.
Tra la corrente generale perplessità, si fa spesso riferimento alla campagna anti-TTIP come al nuovo progetto connettivo. Ma sarebbe ancora troppo stretto. La campagna anti-TTIP è essenziale, ma per quale motivo gli attivisti dell’accoglienza per i rifugiati, o i movimenti anti-austerity o la campagna sul debito dovrebbero ora dedicarsi al TTIP? Con la stessa argomentazione ciascuno cerca di mettere il proprio progetto al centro, portando ottime ragioni: Plan B lo fa con l’uscita dall’Euro, la Rete sul debito con la conferenza sul debito o gli audit, le/gli attiviste/i NoBorder con la solidarietà nei confronti dei rifugiati. Ma nessuno di questi singoli progetti è abbastanza ampio e concentrato. Oltre a questi progetti estremamente importanti, è quindi necessario vi sia un altro progetto connettivo.
Un elemento per un processo costituente europeo dal basso potrebbe essere una Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) che identificasse pochi chiari obiettivi, tutti da definire: per esempio, a) la fine delle politiche di tagli, privatizzazioni e smantellamento degli standard sociali e sul lavoro, e per gli investimenti in un’infrastruttura sociale europea (sanità, istruzione, casa ed energia), così come b) una soluzione solidale con i rifugiati: una “cittadinanza sociale europea” (come ha scritto Katja Kipping) a prescindere dalla cittadinanza in uno degli Stati membri dell’Unione. Potrebbero sicuramente essere formulati meglio e più in concreto, ma si tratterebbe di non più di due o tre punti. Che si possano sviluppare con successo campagne europee, ce l’ha dimostrato da ultima la campagna anti-TTIP. Questa volta dovrebbe essere una sfida ancora più ambiziosa.
In ogni caso, in un sondaggio d’opinione condotto da Emnid, i cittadini europei si sono espressi in modo chiaro in favore di un’Unione Europea più sociale. La committente del sondaggio, la Fondazione Bertelsmann (insieme ad altri soggetti – vedi Vision Europe Summit, 2015) si è pubblicamente dichiarata sorpresa dai risultati: in Belgio, Finlandia, Francia, Italia, Polonia, Portogallo e nel Regno Unito, dal 63 all’86 per cento degli intervistati si è espresso a favore dell’istituzione di standard minimi per la sicurezza sociale; in Germani in particolare la percentuale è del 77. Ovunque si guarda con preoccupazione al mantenimento futuro della sicurezza sociale. “I dati dell’indagine sostengono un ruolo molto più importante dell’UE rispetto all’attuale, al fine di garantire attraverso riforme la sostenibilità dei sistemi sociali nazionali, e per l’introduzione e il rispetto di standard minimi di sicurezza sociale, che siano vincolanti per tutti gli Stati membri.” (Vison Europe Summit, 2015, p. 2f). Allo stesso tempo, la maggioranza degli intervistati, nei Paesi discutibilmente definiti “membri a contributi netti rilevanti” (ad eccezione della Finlandia), si esprime nettamente a favore di trasferimenti finanziari a favore degli Stati membri più poveri – perfino in Germania questo è vero per i due terzi degli intervistati.
Le stesse politiche egemoniche delle istituzioni tedesche ed europee, la sottomissione e l’impoverimento imposti alla Grecia, si scontrano anche in Germania con una significativa minoranza, tra il 20 e il 30 per cento della popolazione, che si esprime criticamente, e questo punto di vista coinvolge settori del centro-sinistra liberale, dei verdi e del centro borghese: personalità politiche e intellettuali, distanti dalla sinistra, come Jürgen Habermas, Gesine Schwan, Reinhard Bütikofer e molti altri hanno condiviso questo atteggiamento critico. E il dramma dei rifugiati ha intensificato considerevolmente questo disagio. “Più che mai, dobbiamo ora oltrepassare i limiti incontrati fin qui dalla protesta e costruire un campo sociale del no (OXI) al taglio alla spesa sociale e alla distruzione della democrazia, che vada oltre i classici ambienti della sinistra” (Riexinger, 11/08/2015). Nel resto d’Europa, inoltre, è enormemente cresciuto il risentimento, in particolare nei confronti del governo tedesco. Non sarebbe male se i partiti di sinistra, i movimenti sociali e i sindacalisti più critici si confrontassero a livello europeo e individuassero alcune minime rivendicazioni per avviare una campagna di questo tipo.
Le Istituzioni europee rigetterebbero sicuramente una simile iniziativa. Come è accaduto per il TTIP, proprio questo rifiuto potrebbe avere un effetto trainante – per rilanciare un “referendum selvaggio” (Werner, 2015) per un’Europa dal basso, come inizio di “self-empowerment” verso un processo costituente.
Queste e altre strategie saranno discusse in una Conferenza europea, organizzata dalla Rosa-Luxemburg-Stiftung ai primi di giugno 2016, con la partecipazione delle più svariate iniziative sociali, gruppi, movimenti e organizzazioni. Oltre ai contenuti politici, si tratterà di ricercare le forme politiche più adeguate, la loro interconnessione, nonché una strategia per collegare i diversi piani – locale/comunale, nazionale ed europeo – misurandosi con le scarse risorse attualmente a disposizione della sinistra sociale.
La questione da porsi, in ogni caso e situazione specifica, è la seguente: qual è il livello corretto di intervento e organizzazione politica? Lo scopo non può che essere – al di là delle attuali diverse posizioni ed obiettivi, e nonostante tutte le divisioni – quello di individuare prospettive e pratiche che connettano, che non puntino ad un unico modus operandi, ma ad una sincronizzazione di lotte e iniziative per un’altra Europa. Questa volta insieme. Il primo passo di ogni processo costituente è la creazione di un soggetto politico.
* politologo e direttore dell’Institut für Gesellschaftanalyse della Rosa-Luxemburg-Stiftung di Berlino.
Testi citati
Tsomou, Margarita, 2016: “Kick it like Varoufakis”, ak – analyse & kritik No. 613 (16 February 2016), www.akweb.de/ak_s/ak613/42.htm ;
Vision Europe Summit, 2015: Zukunft und Reform des Sozialstaats. Ergebnisse einer Umfrage in acht europäischen Ländern, November 2015, www.bertelsmann-stiftung.de/fileadmin/files/BSt/Publikationen/GrauePublikationen/Studie_IFT_VES-Survey-Results-Summary_dt_2015.pdf ;
Werner, Alban, 2015: “Für ein wildes Referendum gegen Merkels Europa”, Neues Deutschland, 13 August 2015, www.neues-deutschland.de/artikel/981073.fuer-ein-wildes-referendum-gegen-merkels-europa.html ;
Wolf, Frieder Otto, 2016: Wie kann aus der gegenwärtigen Krise ein konstitutiver Moment erkämpft werden?, RLS-Berlin (in corso di pubblicazione);
Zelik, Raul, 2016: “Ernste Lage, nächster Versuch. Zur Gründung der DiEM”, Neues Deutschland, 11 February 2016, www.raulzelik.net/kritik-literatur-alltag-theorie/475-ernste-lage-naechster-versuch-zur-gruendung-der-diem-in-der-berliner-volksbuehne .
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Originale tedesco pubblicato in Zeitschrift LuXemburg, aprile 2016: http://www.zeitschrift-luxemburg.de/diem-und-co/
e in inglese da Transform Network: http://www.transform-network.net/blog/blog-2016/news/detail/Blog/diem-and-co.html
Traduzione di Marco Neitzert e Beppe Caccia.