Di MARCO BASCETTA
Volendo aggiornare il classico vessillo dei conservatori, a Dio, Patria e Famiglia si dovrebbero affiancare i Combustibili Fossili e l’Energia Nucleare.
Non c’è da stupirsene. Quando parliamo di “tradizione” più che a remote origini ancestrali ci riferiamo alle abitudini e ai modi di vita ereditati dalla rivoluzione industriale. Nostre tradizioni sono il carbone, il petrolio, la plastica, i pesticidi, gli allevamenti intensivi, la deforestazione, le grandi concentrazioni industriali, il consumo forsennato di suolo, e via elencando. E sono queste le tradizioni che il conservatore intende conservare.
Non è dunque sorprendente che le destre di tutto il mondo, pur con storie e in contesti estremamente differenti, avversino coralmente la cosiddetta transizione ecologica.
Spaziando da posizioni di radicale negazione del cambiamento climatico a previsioni spudoratamente ottimistiche sui suoi tempi effettivi, fino alla fede in quelle tecnologie, come la cattura e lo stoccaggio dei gas serra, che consentirebbero di continuare tranquillamente a emetterli. Da Trump a Bolsonaro e Milei, dalle destre europee a Putin e naturalmente ai paesi produttori del Medio Oriente il ritornello è immancabilmente questo. E continuerà a esserlo anche dopo gli “storici” auspici concordati dall’Onu a Dubai. Dove a stento si è riuscito a nominare un allontanamento futuro dal petrolio e dal carbone.
All’ostilità nei confronti di una trasformazione ecologica dell’economia si possono in buona misura ricondurre i successi elettorali delle destre nazionaliste, particolarmente in Europa e nelle Americhe. Si tratta infatti di un formidabile collante interclassista che concilia gli interessi della grande industria, estrattiva e consumatrice con quelli del comune cittadino squattrinato costretto a cambiare l’automobile o la caldaia e con le preoccupazioni operaie e sindacali per la conservazione dei posti di lavoro o degli agricoltori minacciati di restare orfani della chimica.
Per quanto inquietante possa mostrarsi il futuro, il consenso si ottiene ora e qui. Un modello vincente di coesione nazionalista giocata contro la preoccupazione globalista e “cosmopolita” per lo stato di salute del pianeta a spese delle “nazioni”. Che ha potuto inoltre avvalersi dell’insofferenza generata da politiche ecologiche spesso sbrigativamente scaricate sulle spalle dei cittadini o da soluzioni tecnologiche e stili di vita elitari decisamente fuori dalla portata dei più.
Se oggi il vessillo antiecologista è nelle mani della destra, il socialismo e la sinistra europea, affezionati allo sviluppo quantitativo e alle grandi concentrazioni industriali, non sono certo stati campioni di quell’equilibrio ecologico che tardivamente finisce iscritto, tra deroghe e prudenze, nei loro programmi.
Ma ciò che si conserva con i combustibili fossili e ancor più con il nucleare, non è solo una enorme costellazione di profitti e rendite, bensì una poderosa economia di scala, un meccanismo di concentrazione del capitale e un modello di controllo. Le energie rinnovabili sono state lungamente ostracizzate, sminuite e marginalizzate perché potevano rappresentare un sistema energetico policentrico, articolato, perfino autogestito, non solo indipendente dai fornitori di combustibili, ma anche fuori dal controllo e dagli schemi opachi della grande impresa. Basta studiare una bolletta per intuire il potere di imposizione e ricatto esercitato sugli utenti dai grandi circuiti di distribuzione dell’energia.
Questo modello centralistico e impositivo funziona ancor meglio con l’atomo. Ecco perché è in buona sostanza l’unica alternativa ai combustibili fossili presa volentieri in considerazione dalle destre. Gli inconvenienti, gli incidenti e i costi sono ben noti. Ma l’energia atomica sebbene si parli oggi, e non è chiaro con quanto onesto realismo, di piccole centrali di prossimità, richiede comunque tempi lunghi, grandi investimenti e ferreo controllo. Nel 1977 il saggista austriaco Robert Jungk pubblicò un libro Lo stato atomico che incontrò all’epoca grande successo.
Vi si sosteneva che la gestione dell’energia atomica avrebbe richiesto uno stato autoritario, se non proprio una dittatura. Si trattava certamente di una forzatura, peraltro suggerita dai grandi e malsicuri impianti di quell’epoca e dal capitalismo di stato, ma è certo che un sistema di centrali nucleari non può che essere gestito e sorvegliato da un potere di controllo centralizzato e indivisibile. La sua contiguità con l’impiego militare, i problemi di sicurezza che comporta, consegnano necessariamente l’energia atomica a una agenzia specializzata sotto gli occhi dello stato.
Questa combinazione di forza e autonomia nazionale (salvo il fatto che non tutti possiedono l’uranio) si adatta perfettamente alle mitologie della destra, senza badare troppo ai costi alti e ai tempi lunghi di una riconversione atomica che viene retoricamente spacciata per la soluzione di ogni problema. Intanto, in grave ritardo, le energie rinnovabili, oggetto di elogi, complimenti e adulazioni, sono tenute lontane dal centro del sistema energetico. Ben vengano come mercato aggiuntivo, ma la concentrazione della produzione energetica, con i suoi combustibili, continuerà a difendere per decenni ogni palmo di terreno.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 14 dicembre 2023.