The Climate of History: Four thesis è un saggio di Dipesh Chakrabarty del 2008, pubblicato nel 2009 sul n. 35 di Critical Inquiry. Con questo testo Chakrabarty fa un passo al tempo stesso in avanti e di lato rispetto ai suoi lavori di critica post-coloniale (il più noto dei quali è l’ormai classico Provincializzare l’Europa): senza recedere dalla critica marxista e post-coloniale, il filosofo bangladese allarga la propria visuale al di là della semplice dimensione storica, e si sforza di pensare il mondo non dal punto di vista di un soggetto umano, ma al di là di questo soggetto. Non per caso risuonano alcuni echi foucaultiano, in questo tentativo di andare al di là di “un” soggetto e di relazionarsi con qualcosa che, per definizione, è impensabile e non richiudibile nelle categorie della (critica della) ragione classica.
A distanza di 12 anni, questo testo è importante per almeno due ragioni: in primo luogo, anticipa l’attuale dibattito sull’impatto del mutamento climatico, che richiede non solo di ripensare il nostro rapporto con la natura, ma il concetto stesso di “natura”. Le quattro lezioni di Amitav Ghosh raccolte nel volumetto La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile soon uno degli esiti di questa riflessione.
In secondo luogo, Chakrabarty introduce, recuperandolo dall’ambito scientifico, il concetto di “antropocene”, dando l’avvio a un ricco dibattito critico: si pensi, solo per fare qualche nome, al contrapposto concetto di “capitalocene” di Jason W. Moore (e, in Italia, di Emanuele Leonardi), e di “Chthulucene” di Donna Haraway, o alla critica al “razzismo ambientale” di Razmig Keucheyan. Sono tutti spunti che troveranno spazio nelle prossime pubblicazioni della nostra rubrica.
Del testo di Chakrabarty pubblichiamo qui un essenziale estratto (l’integrale lo si può leggere e scaricare qui). La traduzione è di Carlotta De Michele.
L’attuale crisi planetaria del cambiamento climatico, o riscaldamento globale, sollecita una varietà di risposte in individui, gruppi e governi, che vanno da negazione, dissociazione e indifferenza a uno spirito di partecipazione ed attivismo di vari tipi e gradi. Queste risposte saturano il nostro senso del presente. Il libro più venduto di Alan Weisman, Il mondo senza di noi (ed. it. Einaudi 2008) suggerisce un esperimento mentale come mezzo per fare esperienza del nostro presente: «Immaginiamo che il peggio sia accaduto. L’estinzione degli umani è un fatto compiuto. Immaginiamo un mondo dal quale noi tutti siamo improvvisamente scomparsi. Avremo lasciato qualche flebile ma durevole marchio nell’universo? È possibile che, invece di emettere un enorme sospiro di sollievo biologico, il mondo senza di noi senta la nostra mancanza?».
L’esperimento mentale di Weisman dimostra in modo eloquente come la crisi attuale possa far precipitare verso un senso del presente che disconnette il futuro dal passato, ponendo tale futuro oltre la capacità di presa della sensibilità storica. La disciplina della storia esiste infatti sulla base dell’assunzione che passato, presente e futuro sono connessi da una certa continuità dell’esperienza umana. Normalmente noi visualizziamo il futuro con l’aiuto della stessa facoltà che ci permette di immaginare il passato. Seguendo l’esperimento di Weisman, dobbiamo inserire noi stessi in un futuro “senza di noi” per poter essere in grado di visualizzarlo. Così, le nostre usuali pratiche storiche di rappresentazione dei tempi, del passato e del futuro, tempi che ci sono personalmente inaccessibili, sono gettate in uno stato di profonda contraddizione e confusione. L’esperimento di Weisman è un indicatore di quanta confusione segua dal nostro attuale senso del presente nella misura in cui questo presente dò adito a preoccupazioni riguardo il nostro futuro. Il nostro senso storico del presente, nella versione di Weisman, è diventato dunque profondamente distruttivo nei confronti del nostro generale senso della storia.
Negli ultimi anni, mentre la crisi prendeva slancio, capivo che tutte le mie letture riguardo alle teorie sulla globalizzazione, l’analisi marxista del capitale, i subaltern studies e la critica postcoloniale nel corso degli ultimi venticinque anni, se da una parte si rivelavano estremamente utili nell’analisi della globalizzazione, dall’altra non mi preparavano realmente a dare un senso alla congiuntura planetaria all’interno della quale l’umanità si trova oggi. Se in effetti la globalizzazione e il riscaldamento globale sono nati da processi sovrapposti, la questione è: come li teniamo insieme nella nostra comprensione del mondo?
Il consenso scientifico sull’affermazione che l’attuale crisi del cambiamento climatico è fatta dall’uomo, costituisce la base di ciò che ho da dire qui. Nell’interesse della chiarezza e della concentrazione, presento il mio lavoro nella forma di quattro tesi. Le ultime tre derivano dalla prima. Inizio con l’affermazione che le spiegazioni antropogeniche del cambiamento climatico fanno collassare l’ormai superata distinzione umanistica tra storia naturale e storia umana e concludo ritornando alla questione con la quale ho esordito: in che modo la crisi del cambiamento climatico si appella al nostro senso degli universali umani mentre cambia, al tempo stesso, la nostra capacità di comprensione storica?
Prima tesi: le spiegazioni antropogeniche del cambiamento climatico fanno crollare la vecchia distinzione umanistica tra storia naturale e storia umana.
Filosofi e storici hanno spesso mostrato una consapevole tendenza a separare la storia umana dalla storia naturale, a volte procedendo addirittura a negare che la natura possa addirittura avere una storia, proprio nel senso in cui gli esseri umani ne hanno una.
Persino quando Fernand Braudel si ribellò contro lo stato della disciplina della storia, come essa gli si presentava nei tardi anni Trenta del Novecento, e in seguito, nel 1949, quando proclamò la sua ribellione nel suo grande libro Il Mediterraneo, era chiaro che la sua protesta era rivolta soprattutto contro quegli storici che facevano riferimento all’ambiente come mero sfondo silente e passivo delle loro narrazioni storiche, qualcosa da affrontare nel capitolo introduttivo ma da dimenticare subito dopo, come se, per dirla con Braudel, «i fiori non tornassero ogni primavera, i greggi di pecore non migrassero ogni giorno, o le navi non navigassero in un mare reale, che cambia con le stagioni». Nel comporre Il Mediterraneo, Braudel voleva scrivere una storia nella quale le stagioni – «una storia di costanti ripetizioni, cicli sempre ricorrenti» – e altre ricorrenze nella natura avessero un ruolo attivo nel plasmare le azioni umane. L’ambiente, in questo senso, ha una presenza agentiva nelle pagine di Braudel, ma l’idea che la natura fosse principalmente ripetitiva aveva una storia lunga e antica nel pensiero europeo. La posizione di Braudel era senza dubbio un grande passo avanti rispetto al tipi di argomento della natura-come-sfondo, ma ne ha condiviso anche un’assunzione fondamentale: la storia della «relazione dell’uomo con l’ambiente» era tanto lenta da essere «quasi senza tempo». Nei termini dei climatologi odierni, potremmo dire che Braudel e altri che pensavano questo non avevano a loro disposizione l’idea, ora molto diffusa nella letteratura sul riscaldamento globale, che il clima, e quindi tutto l’ambiente, a volte può raggiungere un punto critico nel quale questo sfondo alle azioni umane lento e apparentemente senza tempo si trasforma con una rapidità che può significare solo un disastro per gli esseri umani.
Se Braudel, in certa misura, ha prodotto una breccia nella dicotomia storia naturale/storia umana, si potrebbe dire che lo sviluppo della storia ambientale nel tardo ventesimo secolo ne ha prodotto una ancora più ampia. Ma c’è una differenza molto importante fra la comprensione dell’essere umano su cui queste storie sono state basate e la portata dell’azione umana proposta adesso dagli scienziati che scrivono sul cambiamento climatico.
In effetti, gli studiosi che scrivono sull’odierna crisi del cambiamento climatico stanno dicendo qualcosa di significativamente diverso da ciò che gli storici dell’ambiente hanno detto fin’ora. Nel distruggere involontariamente l’artificiale ma tradizionale distinzione fra storia naturale e storia umana, i climatologi postulano che l’essere umano sia diventato qualcosa di più ampio rispetto al semplice agente biologico che lui, o lei, è sempre stato. Gli esseri umani ora esercitano una forza geologica. Con le parole di Naomi Oreskes: «Negare che il riscaldamento globale sia reale significa precisamente negare che gli esseri umani sono diventati agenti geologici, cambiando i processi fisici più basilari della terra».
Definire gli esseri umani come agenti geologici vuol dire estendere la nostra immaginazione dell’umano. Gli umani sono agenti biologici, sia collettivamente che come individui. Lo sono sempre stati. Non c’è un momento nella storia umana in cui gli umani non sono stati agenti biologici. Ma possiamo diventare agenti geologici solo storicamente e collettivamente – vale a dire, quando abbiamo raggiunto il numero, e sviluppato tecnologie in una scala abbastanza larga da avere un impatto sul pianeta stesso. Definirci come agenti geologici vuol dire attribuirci una forza nella stessa scala di quella liberata in altri tempi, quando si verificò l’estinzione di massa delle specie. Sembra che attualmente ci stiamo dirigendo verso un periodo di questo tipo.
La nostra impronta non è sempre stata così estesa. Gli umani hanno iniziato ad acquisire questa portata dell’azione solo a partire dalla Rivoluzione Industriale, ma il processo è stato notato solo nella seconda metà del Novecento. Gli umani sono diventati agenti geologici molto di recente, nella storia umana. In questo senso possiamo dire che solo da poco la distinzione fra storia umana e storia naturale ha iniziato a collassare. Perciò non si tratta più della semplice questione dell’uomo che ha una relazione interattiva con la natura: questa, gli esseri umani l’hanno sempre avuta, o almeno, così l’uomo è stato immaginato in una gran parte di quella che è generalmente chiamata la tradizione Occidentale. Ora è evidente che gli umani sono una forza della natura in senso geologico. Un’assunzione fondamentale del pensiero politico Occidentale (e ora universale) è stata messa in crisi.
Seconda tesi: L’idea dell’Antropocene, la nuova epoca geologica nella quale gli umani costituiscono una forza geologica, mette in profonda difficoltà le storie umaniste della modernità/globalizzazione.
In nessun discorso sulla libertà, a partire dall’Illuminismo, c’è mai stata alcuna consapevolezza della portata dell’azione geologica che gli umani stavano acquisendo attraverso processi strettamente legati alla loro acquisizione di libertà. È comprensibile che i filosofi della libertà fossero soprattutto interessati a capire come superare l’ingiustizia, l’oppressione e l’ineguaglianza, o persino l’uniformità imposte loro da altri esseri umani o da sistemi di origine umana. Il tempo geologico e la cronologia delle storie umane restavano così non connessi tra loro. Questa distanza fra questi due calendari, come abbiamo visto, è quella che i climatologi attualmente dichiarano essere crollata. Il periodo dal 1750 ad oggi costituisce inoltre l’intervallo nel quale gli esseri umani sono passati dall’uso del legno ed altri combustibili rinnovabili, ad un uso massiccio di combustibili fossili, prima carbone ed olio, in seguito gas. Il palazzo della libertà moderna è posa su una base in continua espansione di consumo di combustibili fossili.
Adesso che gli umani – a causa del loro stesso numero, del consumo di combustibili fossili e di altre attività correlate – sono diventati un agente geologico rispetto al pianeta, alcuni scienziati hanno proposto di riconoscere l’inizio di una nuova era geologica, nella quale gli umani agiscono cioè in maniera determinante sull’ambiente del pianeta. Il nome che hanno coniato per definire questa nuova epoca geologica, è Antropocene. La proposta è stata inizialmente avanzata dal chimico premio Nobel Paul J. Crutzen e dal suo collaboratore Eugene F. Stroermer, un esperto in scienze marine.
In un breve articolo pubblicato nel 2000, dichiarano «Considerando […] [gli] impatti, maggiori e sempre in aumento, delle attività umane sulla Terra e sull’atmosfera, e in tutte le scale, inclusa quella globale, ci sembra più che appropriato enfatizzare il ruolo centrale dell’umanità nella geologia e nell’ecologia proponendo di usare il termine “Antropocene” per la corrente era geologica». Crutzen ha elaborato sulla proposta ciò, in un breve pezzo pubblicato su Nature nel 2002: «Si potrebbe dire che l’antropocene sia iniziato nell’ultima parte del diciottesimo secolo, quando le analisi dell’aria intrappolata nel ghiaccio polare hanno mostrato l’inizio della crescente concentrazione globale di diossido di carbonio e metano. Si dà il caso che questa data coincida anche col progetto della macchina a vapore di James Watt nel 1784».
Quindi, il periodo dal 1750 ad ora è stato quello della libertà o quello dell’Antropocene? L’Antropocene rappresenterebbe allora una critica alle narrazioni della libertà? La portata dell’azione geologica degli umani è il prezzo che paghiamo per la ricerca della libertà? In un certo senso, sì.
Ma la relazione fra i temi illuministici di libertà e il collasso delle cronologie umana e geologica sembra più complicata e contraddittoria di quanto un semplice binario permetterebbe. È vero che gli esseri umani sono precipitati nell’essere un agente geologico attraverso le loro stesse decisioni: l’Antropocene, si potrebbe dire, è stato una conseguenza involontaria delle scelte umane. Ma è altrettanto chiaro che per gli umani ogni formulazione di una via d’uscita dall’attuale situazione difficile non può che riferirsi all’idea di schierare la ragione dalla parte della vita globale, collettiva. Per citare ancora Crutzen e Stoermner: «Un eccitante, ma anche difficile e scoraggiante compito attende la ricerca globale e la comunità di tecnici: guidare l’umanità attraverso una gestione dello sviluppo globale e sostenibile».
Nell’epoca dell’Antropocene continuiamo ad avere bisogno dell’Illuminismo (ossia, della ragione) più che in epoche passate. C’è una considerazione, comunque, che qualifica quest’ottimismo riguardo al ruolo della ragione, e che ha a che fare con la forma più comune che la libertà assume nelle società umane: la politica. La politica non è mai stata basata solo sulla ragione. E la politica, nell’era delle masse e in un mondo già reso complesso da forti diseguaglianze tra le nazioni e all’interno di esse, è qualcosa che nessuno può controllare.
Non è sorprendente, allora, che la crisi del cambiamento climatico possa produrre ansietà precisamente riguardo a futuri che non siamo in grado di visualizzare.
Terza tesi: L’ipotesi geologica che concerne l’Antropocene richiede di mettere in relazione le storie globali del capitale con la storia specifica degli umani.
Le analisi che concernono la questione della libertà e che passano attraverso la critica alla globalizzazione capitalistica, non sono, a ogni modo, diventate obsolete nell’epoca del cambiamento climatico. Se non altro, come mostra Mike Davis, il cambiamento climatico finirà probabilmente per accentuare tutte le ineguaglianze dell’ordine mondiale capitalista, se gli interessi delle persone povere e vulnerabili verranno trascurati. La globalizzazione capitalista esiste: quindi devono esistere le sue critiche. Ma questo modello di critica non ci fornisce una comprensione adeguata della storia umana, una volta accettato che la crisi del cambiamento climatico è qui con noi e potrebbe esistere come componente di questo pianeta molto più a lungo del capitalismo, o a lungo dopo che il capitalismo avrà superato molte mutazioni storiche ancora. La problematica della globalizzazione ci permette di leggere il cambiamento climatico solo come una crisi del sistema di governo capitalistico. Se è innegabile che che il cambiamento climatico ha profondamente a che vedere con la storia del capitale, una critica che sia solo critica del capitale non è sufficiente ad affrontare questioni che riguardano la storia umana, una volta che la crisi del cambiamento climatico sia stata riconosciuta. L’attualità geologica dell’Antropocene è ora legata all’attualità geologica della storia umana.
Gli studiosi che si occupano degli esseri umani in relazione alla crisi del cambiamento climatico e ad altri problemi ecologici che emergono su scala globale fanno una distinzione tra la storia documentata degli esseri umani e la loro storia profonda. La storia documentata si riferisce, molto in generale, ai diecimila anni che sono trascorsi dall’invenzione dell’agricoltura ma, più abitualmente, agli ultimi quattro milioni di anni o giù di lì, riguardo ai quali esistono testimonianze scritte. Gli storici della modernità e della “prima modernità” solitamente spaziano negli archivi delle ultime quattro centinaia di anni. La storia dell’umanità che precede questi anni di testimonianze scritte costituisce ciò che altri studenti del passato umano – non storici professionisti – chiamano “storia profonda”. Come scrive Edward O. Wilson, uno dei principali propositori di questa distinzione, «il comportamento umano è visto come il prodotto non solo della storia documentata, i recenti diecimila anni, ma anche della storia profonda, la combinazione di cambiamenti genetici e culturali che ha creato l’umanità da oltre centinaia di [migliaia di] anni».
La parola che studiosi come Paul J. Crutzen e Oswald Wilson utilizzano per designare la vita nella sua forma umana – e rispetto alle altre forme viventi – è specie. Essi parlano dell’essere umano come una specie e trovano questa categoria utile per pensare alla natura della crisi attuale. È una parola che non compare mai in alcuna abituale analisi storica o economico-politica sulla globalizzazione elaborata da studiosi di sinistra, poiché l’analisi della globalizzazione si riferisce, per valide ragioni, solo alla storia umana recente e documentata. Il pensiero della specie, d’altra parte, è connesso al progetto della storia profonda. Il compito di collocare storicamente la crisi del cambiamento climatico ci richiede allora di mettere assieme formulazioni intellettuali che sono in qualche modo in tensione fra loro: planetario e globale; storia profonda e storia documentata; pensiero della specie e critiche del capitale.
Gli scienziati che invocano l’idea dell’Antropocene stanno dicendo che gli umani costituiscono un particolare tipo di specie che può, nel processo di dominazione delle altre specie, acquisire lo stato di forza geologica: in altre parole, gli umani sono diventati una condizione della natura, o almeno lo sono oggi.
È comprensibile che il discorso biologico sulle specie possa allarmare gli storici. Essi temono che il loro raffinato senso della contingenza e della libertà nelle vicende umane debba cedere terreno a una visione più deterministica del mondo. Oltretutto ci sono sempre pericolosi esempi storici riguardo all’uso politico della biologia. Inoltre, l’idea delle specie potrebbe introdurre un grado potente di essenzialismo nella nostra comprensione degli umani. Sul problema dell’essenzialismo, Smail indica utilmente perché le specie non possono essere pensate in termini essenzialistici: «Le specie, in accordo con Darwin, non sono entità fisse con essenze naturali infuse in loro dal Creatore. La selezione naturale non omogenizza gli individui di una specie. Dato questo stato di cose, la ricerca di una normale natura e di un normale tipo di corpo [di qualsivoglia particolare specie] è futile. Lo stesso accade con l’altrettanto futile questione di identificare la “natura umana”».
È evidente che diverse discipline accademiche posizionano i loro esperti diversamente per quanto riguarda la questione di come visualizzare l’essere umano. Ogni disciplina deve creare il suo oggetto di studio. Se la medicina o la biologia riducono l’umano sotto una certa specifica comprensione di lui o di lei, gli storici umanisti spesso non realizzano che le persone protagoniste delle loro storie sono anch’esse delle riduzioni. Se la personalità è assente, non c’è un soggetto umano nella storia.
La crisi del cambiamento climatico chiama gli accademici a superare i loro pregiudizi disciplinari, perché è una crisi dalle molte dimensioni.
Tuttavia rimangono dubbi riguardo all’uso dell’idea di specie nel contesto del cambiamento climatico. Qualcuno potrebbe obiettare, ad esempio, che tutti i fattori antropogenici che contribuiscono al riscaldamento globale – il consumo di combustibili fossili, l’industrializzazione dell’allevamento di animali, la distruzione delle foreste tropicali, e così via – sono parte di una storia più grande: lo sviluppo del capitalismo in Occidente e la sua dominazione imperialistica o quasi-imperialistica sul resto del mondo. Se questo è di fatto vero, parlare di specie o umanità non serve semplicemente a nascondere la realtà della produzione capitalistica e la logica della dominazione imperiale – formale, informale o macchinica in accezione deleuziana – che essa promuove? Perché mai includere i poveri del mondo – la cui impronta ecologica è comunque piccola – usando termini tanto inclusivi come specie o umanità quando la colpa dell’attuale crisi dovrebbe essere direttamente deposta davanti alla porta delle nazioni ricche in primo luogo, e delle classi più ricche nelle nazioni povere?
Se lo stile di vita industrializzato ci ha condotto alla crisi, la questione è dunque: perché pensare in termini di specie, categoria che sicuramente appartiene a una storia molto più vasta? La narrazione del capitalismo – e dunque la sua critica – non può essere sufficiente come quadro analitico per interrogare la storia del cambiamento climatico e comprenderne le conseguenze? Sembra corretto affermare che la crisi del cambiamento climatico sia stata causata dal ricorso massiccio a modelli di consumo energetico elevati, modelli che l’industrializzazione capitalistica ha creato e promosso; ma la crisi attuale ha portato alla luce altre condizioni necessarie alla vita nella sua forma umana, condizioni non intrinsecamente legate alla logica delle identità capitaliste, nazionaliste o socialiste. Esse sono connesse piuttosto alla storia della vita su questo pianeta, al modo in cui differenti forme di vita sono connesse l’una all’altra, e al modo in cui l’estinzione di massa di una specie può costituire un pericolo per un’altra. In assenza di una tale storia della vita, la crisi del cambiamento climatico non possiede un “significato” umano. Perciò non è una crisi per il pianeta inorganico in alcuna accezione sensata.
In altre parole, lo stile di vita industrializzato ha funzionato come la tana del bianconiglio nella storia di Alice: siamo precipitati in uno stato di cose che ci impone un riconoscimento di alcune delle condizioni parametriche (ossia di confine) dell’esistenza di istituzioni centrali per la nostra idea di modernità, e i significati che traiamo da esse. Si prenda il caso della cosiddetta rivoluzione agricola di diecimila anni fa. Non era solo un’espressione dell’umana inventiva: è stata reso possibile da certi cambiamenti nella quantità di biossido di carbonio nell’atmosfera, una certa stabilità del clima e un grado di riscaldamento del pianeta che è seguito alla fine dell’Era Glaciale (l’era del Pleistocene) – cose sulle quali gli esseri umani non avevano alcun controllo. In altre parole, a prescindere dalle nostre scelte socio-economiche e tecnologiche, e dai diritti che vogliamo celebrare come nostre libertà, non possiamo permetterci di destabilizzare quelle condizioni (come la fascia di temperatura occupata dal pianeta) che funzionano come parametri limite e che consentono la nostra stessa esistenza. Questi parametri sono indipendenti dal capitalismo e dal socialismo. Sono stati stabili per un periodo di tempo molto più lungo rispetto alla storia di queste istituzioni, permettendo agli esseri umani di diventare la specie dominante sulla terra. Sfortunatamente, noi stessi ci siamo trasformati in un agente geologico che disturba queste condizioni parametriche necessarie per la nostra stessa esistenza.
Non si tratta di negare il ruolo storico che le più ricche e perlopiù occidentali nazioni del mondo hanno rivestito nell’emissione di gas serra. Ma la scoperta scientifica del fatto che gli esseri umani sono diventati, nel processo, un agente geologico segnala una catastrofe condivisa nella quale siamo precipitati. Spiegare questa catastrofe richiede un confronto tra discipline e tra storia documentata e storia profonda degli esseri umani nello stesso modo in cui la rivoluzione agricola di dieci milioni di anni fa non può essere spiegata se non mediante la convergenza di tre discipline: geologia, archeologia e storia.
Quarta tesi: La commistione tra storia della specie e storia del capitale è un processo che mette alla prova i limiti della comprensione storica.
La comprensione storica, si potrebbe dire seguendo la tradizione diltheyana, comporta un pensiero critico che fa appello ad alcune idee generiche sull’esperienza umana. Come rileva Gadamer, Dilthey ha visto «il mondo privato di esperienza dell’individuo come il punto d’inizio per un’espansione che, in una trasposizione vivente, completa la ristrettezza e la fortuità della sua esperienza privata con l’infinità di ciò che è accessibile rifacendo esperienza del mondo storico». «La coscienza storica», in questa tradizione, è quindi «una modalità della conoscenza di sé» guadagnata attraverso riflessioni critiche sulle esperienze proprie dell’uno e degli altri (attori storici). Le storie umaniste del capitalismo ammetteranno sempre qualcosa chiamato “l’esperienza del capitalismo”. Il brillante tentativo di E. P. Thompson di ricostruire il farsi working-class della manodopera, per esempio, non ha senso senza quest’assunzione. Le storie umanistiche sono storie che producono un significato appellandosi non solo alla nostra capacità di ricostruzione del passato, ma anche dalla nostra capacità di rimettere in atto, nelle nostre menti, le esperienze passate.
Ma l’appello di Wilson ad acquisire, nell’interesse del nostro futuro collettivo, un’auto-consapevolezza di noi come specie non corrisponde ad alcuno dei modi in cui storicamente comprendiamo e connettiamo i passati ai futuri mediante l’assunzione che ci sia un elemento di continuità nell’esperienza umana. Chi è questo “noi”? Noi umani non ci siamo mai pensati come specie. Possiamo solo comprendere intellettualmente, o inferire l’esistenza della specie umana, ma mai esperirla come tale. Non può esserci una fenomenologia del noi come specie. Anche se possiamo emotivamente identificarci con un termine come umanità, non potremmo mai sapere cosa significhi essere una specie poiché, nella storia delle specie, gli umani sono solo un’istanza del concetto di specie, proprio come lo sarebbe qualunque altra forma di vita. Ma non si percepisce mai di essere un concetto.
I discorsi sulla crisi del cambiamento climatico possono quindi produrre affetti e conoscenze riguardo ai passati e ai futuri collettivi dell’umanità ai limiti della comprensione storica: percepiamo gli effetti specifici della crisi, ma non il fenomeno nella sua interezza. Diremo dunque, con Geyer e Bright, che «l’umanità non viene più all’essere attraverso il “pensiero”», o con Foucault che «l’essere umano non ha più alcuna storia»? Geyer e Bright proseguono, scrivendo con spirito foucaultiano: «Il compito di questa [storia del mondo] è di rendere trasparenti i lineamenti del potere, sostenuto dall’informazione, che comprime l’umanità in un singolo tipo umano».
Questa critica che vede l’umanità come un effetto del potere è naturalmente preziosa per tutta l’ermeneutica del sospetto, che ha insegnato la disciplina postcoloniale: è un effettivo strumento di critica, nei confronti delle formazioni nazionali e globali di dominio. Ma non la trovo adeguata nell’affrontare la crisi del riscaldamento globale.
In primo luogo, perché confuse immagini di noi e altre narrazioni sulle sorti dell’umanità colpiscono invariabilmente la nostra percezione della corrente crisi. In quale modo, altrimenti, si potrebbe comprendere il titolo del libro di Alan Weisman, Il mondo senza di noi, o l’impatto del suo brillante, benché impossibile, tentativo di raffigurare l’esperienza di New York dopo che ce ne saremo andati?
In secondo luogo, il muro fra la storia umana e quella naturale è stato abbattuto. Potremmo non riuscire a fare esperienza di noi stessi come agenti geologici, ma sembra che ci siamo unificati a livello di specie. E senza quella conoscenza che sfida la comprensione storica non c’è modo di dare un senso alla crisi attuale che ci riguarda tutti quanti. Il cambiamento climatico, riflesso attraverso il capitale globale, evidenzierà senza dubbio le logiche di ineguaglianza che attraversano il dominio del capitale; qualcuno sicuramente guadagnerà temporaneamente a spese di altri: ma l’intera crisi non può essere ridotta alla storia del capitalismo. A differenza delle crisi del capitalismo, non ci sono scialuppe di salvataggio per il ricco e il privilegiato. L’ansia cui il riscaldamento globale dà luogo ricorda i giorni in cui molti temevano una guerra mondiale nucleare. Ma c’è una differenza molto importante: una guerra nucleare sarebbe una decisione consapevole da parte dei poteri esistenti. Il cambiamento climatico è un’involontaria conseguenza delle azioni umane e mostra, solo attraverso analisi scientifiche, l’effetto delle nostre azioni come specie. “Specie” potrebbe essere in effetti il nome di un simbolo per una emergente, nuova storia universale dell’essere umano che appare nel momento del pericolo costituito dal cambiamento climatico. Ma non potremo mai comprendere questo universale.
Il cambiamento climatico ci interroga comunque su una collettività umana, su un noi, indicando un’immagine dell’universale che sfugge alla nostra capacità di esperire il mondo. Sembra piuttosto un universale che emerge da un condiviso senso di catastrofe: fa appello a un approccio globale alla politica privo del mito dell’identità globale in quanto, a differenza dell’universale hegeliano, non è in grado di sussumere dei particolari. Potremmo chiamarlo provvisoriamente “storia universale negativa”.