Riprendiamo qui un articolo di Massimo De Angelis pubblicato per Effimera il 26 aprile 2022.

In questo approfondito contributo, Massimo De Angelis riflette sulle ragioni della guerra in corso in Europa, a seguito dell’invasione dell’esercito russo in Ucraina. Una guerra che accentua una situazione socio-economica e politica, già provata da due anni di pandemia e di malessere sociale crescente. Di fronte alla nocività della guerra, pur tenendo ben conto delle colpe dirette e delle immediate responsabilità, l’unica possibile risposta che ci si sente di dare è: diserzione. L’autore la rilancia, ricordando i contributi di Franco Berardi e Sandro Mezzadra sul tema. Tale parola può suonare indigesta alle letture che forzosamente contrappongono i (presunti) “valori occidentali” all’aggressione dei “barbari”. La storia ci insegna che quando scoppia una guerra di questa entità, finalizzata (come spiega l’autore), a ridisegnare l’attuale (dis)ordine geo-politico e geo-economico, non esistono poteri buoni.

L’Ucraina è vittima delle tentazioni egemoniche del disegno panrusso di Putin, da un lato, e nella necessità Usa (che comanda la Nato) di mantenere una supremazia militare ed economica fortemente compromessa, dall’altro. Questo sono i pilastri centrali dell’attuale crisi. E tutto ciò con la Cina sullo sfondo. In questo quadro, l’Europa non è in grado, o meglio non vuole, ritagliarsi un ruolo autonomo, andando così incontro al proprio suicidio. Gli eccidi e le morti civili in Ucraina sono il prezzo cinico che deve essere pagato, mentre le potenze imperiali rinfocolano lo scontro, affondando qualsiasi tentativo diplomatico, e i mercanti di guerra festeggiano.

Per questo, disertare non è vigliaccheria, ma l’unico vero atto di coraggio possibile. Perché “disertare la guerra è disertare il comando sul mondo”.

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Oltre la claustrofobia della guerra, la diserzione

Questa guerra ci è piombata addosso dopo due anni di pandemia e corrispondente crisi sanitaria, ci ha distratti da una catastrofe ambientale senza precedenti, e i suoi effetti si adagiano in occidente su un malessere sociale accumulato da 50 anni di politiche neoliberali. Come spesso accade in queste situazioni, attorno a noi gli orizzonti del possibile sembrano chiudersi, e mentre si accentua il senso di claustrofobia e il gusto amaro di una necessità aliena al desiderio, solo una via sembra esserci lasciata aperta, quella della guerra, del riarmo, di un solco netto tracciato tra buoni e cattivi, tra eroi e codardi, tra un noi e un loro che rimescola le carte, che accomuna ricchi e poveri di una parte contro i ricchi e i poveri dell’altra, e così per sfruttati e sfruttatori, violentati e violentatori, inquinati e inquinatori, come se queste distinzioni non avessero più importanza di fronte alla distinzione tra invasi e invasori e i loro alleati. Quest’ultima distinzione è dunque posta sopra tutte le altre, le mette all’ombra obliterando le diverse posizionalità all’interno dei due campi, occultando le trasversalità che le differenti forme della cooperazione sociale ha instaurato nel tempo. La costruzione del reale si fonda sempre su una gerarchia tra le possibili distinzioni, e la distinzione prodotta dalla guerra sta in alto non per negare tutte le altre distinzioni, ma, attraverso sangue, distruzione e dolore, per creare la condizione per la loro riconfigurazione e il loro perpetuarsi.

Quando ogni via di trasformazione positiva del reale sembra esserci sbarrata, sorge quindi forte e disperata ancora la domanda: “che fare”? In un articolo di qualche settimana fa, Sandro Mezzadra ci suggerisce la risposta già nel titolo, bisogna “disertare la guerra”. E certo che bisogna disertarla, con tutte le nostre forze, con tutto il nostro immaginario collettivo, anche se il cosa, il come, il chi, il dove di questa diserzione pongono domande aperte la cui risposta richiede  uno sforzo e un impegno comune. Ma disertare bisogna. Anche in questa guerra ci sono i disertori, sia dal versante russo che da quello ucraino. Ciò che li accumuna come fratelli è la voglia di non uccidere e di non farsi uccidere, oltre ad una pulsione vitale senza se e senza ma che li porta a reclamare il diritto al futuro. La parola “diserzione” invita ad immagini di giovani militari spaventati che scappano dal proprio reggimento, che affrontano i rischi insiti alla fuga da un’autorità che, se li acciuffa, li punirà crudelmente, che si rifugiano in casolari e fienili per passare la notte nella speranza che nessuno li veda, che timidamente cercano la solidarietà di chi li incontra — un pezzo di pane, un bicchiere d’acqua — per poter continuare il viaggio. Disertare non è cosa facile, perché implica una rottura con ciò che ti dicono da tutte le parti che sia giusto o quantomeno doveroso fare, la guerra.  Disertare è anche una scelta pericolosa,  per le conseguenze che possono ricadere su di te (le immagini i tanti ragazzi impauriti e fucilati nella prima e nella seconda guerra mondiale per esempio. Ancora oggi in Ucraina, la legge permette a un comandante di sparare se sorprende un milite in procinto di disertare, soprattutto se questo è di guardia al confine, mentre per i russi ci sono 8 anni di prigione).  Occorre espandere questa immagine che abbiamo di diserzione, dobbiamo allargarla in centri concentrici, ad altri ambiti collegati alla logica della guerra, poiché risulta essere sempre più chiaro che il rinnovamento del nostro mondo si fonda anche su una rinnovata pratica della diserzione in senso lato. Disertare la guerra è dunque anche disertare le sue ragioni, disertare è necessariamente allo stesso tempo cercare e costruire altro, un fuori dalla guerra e un fuori da quel mondo che la genera per la costruzione di un altro mondo. E come ancora ci ricorda Sandro Mezzadra “disertare la guerra è oggi un imperativo, ma le pratiche di diserzione non possono essere efficaci se non sono articolate in una cornice globale. Se non sono sostenute dall’invenzione, che certo non può essere fatta a tavolino, di un nuovo internazionalismo, che potrà anche chiamarsi in un altro modo ma a quello spirito dovrà collegarsi.” Disertare la guerra, è quindi anche disertare una logica di comando sul mondo della quale la guerra — con tutte le sue orribili conseguenze — è la levatrice.

Lenti

Per ampliare questa nozione di diserzione, bisogna munirsi di lenti ottiche che ci permettano di osservare il mondo a diverse scale, come uno zoom che passa dal teleobiettivo al grandangolo. Il mondo che si vede con tali lenti diverse è lo stesso, eppure esso appare in maniera diversa, perché ad ogni scala scopriamo caratteristiche specifiche di quella  scala. Allo stesso tempo, i fenomeni distinti che intravediamo alle diverse scale, fanno parte in realtà di un unico fenomeno. Una foto panoramica, se ingrandita, rivelerà particolari inaspettati. Eppure quei particolari erano li fin dall’inizio, e costituiscono, insieme ad una moltitudine di altri particolari, il panorama stesso.

Allora, osserviamo la guerra armati di tali lenti. Una delle cose che trovo molto frustrante nelle discussioni sulla guerra, è la netta divisione binaria che emerge nella rappresentazione del “popolo” Ucraino da una parte e gli invasori Russi dall’altra, i primi visti SOLO come vittime indifese o eroici difensori, i secondi SOLO come puri aggressori o brutali esecutori di atrocità. Ovviamente, a un certo livello di osservazione, questo tipo di rappresentazione binaria è comprensibile: l’esercito russo è stato l’aggressore, e quindi il popolo ucraino la vittima dell’aggressione che cerca di difendersi. Non nego la validità (seppur parziale) di questa rappresentazione della realtà. Ma chi vede solo questo, è come se usasse solo una lente, chiamiamola Lente 1. Non è mio compito in questo scritto usare questa lente e ripetere la condanna a Putin, gli orrori dei massacri di civili, le motivazioni interne ed esterne che lo hanno portato a questo, il Nazi-stalinismo, come lo ha definito Bifo, del suo governo sulla Russia e la guerra promossa dal suo regime ad altri popoli in quel che considera il suo giardino di casa. E’ tuttavia utile ricordare che il vecchio Tony Blair quando era primo ministro aumentò le licenze di esportazione alla Russia del 550%, e ciò includeva equipaggiamento necessario alla guerra in  Cecenia, poiché, come disse, è “importante appoggiare la Russia nella sua lotta contro il terrorismo.” D’altra parte la Russia ha agito come potenza regionale, cioè come nodo del comando sul mondo, in diverse guerre prima dell’intervento in Ucraina del 24 febbraio scorso: in Cecenia (2000-03); in Georgia (2008); nell’ est Ucraina (dal 2014 a oggi); in Siria (dal 2015 a oggi). Ha anche svolto brevi interventi militari in Bielorussia (2020) e in Kazakhstan (2022). Come ci ricorda Simon Pirani), a parte il caso dell’intervento in Cecenia nel quale l’obiettivo russo era di rinforzare i confini nazionali ed eliminare il nazionalismo ceceno, tutti gli altri casi di intervento militare sono stati contraddistinti da tre obiettivi comuni: 1. quello di appoggiare regimi o forze militari pro-russe; 2. quello di contrastare movimenti sociali che minacciavano regimi pro-russi (a parte il caso della Georgia), un po’ come nell’intervento dell’unione sovietica in Ungheria (1956) e Cecoslovacchia (1968); 3. in tutti questi casi, e a dispetto della retorica di Zelensky che vede la Russia come minaccia all’integrità territoriale Europea o addirittura mondiale, la Russia ha mostrato poco interesse verso l’acquisizione di nuovi territori, a parte enclavi dove vivono una maggioranza di lingua russa. Simon Pirani quindi conclude che “la Russia, nonostante la sua sottostante debolezza economica, ha cercato in questo modo di rivaleggiare con l’alleanza USA-Regno Unito, che in questo periodo ha fatto guerra in Iraq, Afghanistan e Libia, e ha sostenuto la guerra saudita in Yemen, la guerra israeliana in Palestina e altri guerre per procura.”

Per capire la complessità della situazione e quindi pensare a come uscirne, si dovrebbero però usare ANCHE altre lenti. In primo luogo, lenti che ci permettono di osservare la guerra in Ucraina nel suo contesto geopolitico, che ci permettono appunto di capire questa invasione, alla luce di una storia di cui ANCHE l’occidente ha avuto e ha tutt’oggi un ruolo determinante. Dunque dobbiamo usare una lente che apre la prospettiva sul contesto della guerra, chiamiamola Lente 2. In secondo luogo, lenti che ci permettono di “ingrandire” l’immagine della situazione rivelandoci che ciò che appariva semplicemente binario, risulta assai più complesso e sfaccettato, chiamiamola Lente 3. Per esempio, tra i militari russi c’è chi diserta, e tra la popolazione russa c’è chi protesta. Allo stesso tempo, il popolo ucraino non è un monolito, ma come tutti i popoli, è differenziato e plurale. E allora c’è chi combatte con entusiasmo gli invasori russi, e c’è chi avrebbe a gran lunga preferito non essere obbligato alla leva obbligatoria; c’è anche chi sta dalla parte dei russi, c’è poi chi diserta il militare e la guerra, chi non gliene importa nulla se comandano i russi o gli americani, e chi gli basterebbe vivere in pace. Ci sono i rifugiati che lasciano l’Ucraina per l’Europa, e chi invece trova rifugio nelle vaste campagne dell’Ucraina occidentale, dimenticati dal governo ucraino, con farmacie e negozi vuoti e senza che un soldo degli aiuti internazionali arrivi da quelle parti. E poi ci sono anche quegli ucraini vicini al potere del governo ucraino che ammazzano, torturano, e zittiscono altri ucraini perché in qualche modo non si identificano nella linea governativa, o magari perché è dal 2014 che sono stati bombardati da milizie ed esercito ucraino nel Dombas. Questa complessità che è parte fondamentale del reale non è visibile a chi usa solo  la Lente 1, o solo la Lente 2. Per vederla, bisognerebbe anche usare altre lenti e lasciare che ciò che esse ci mostrano inquini le nostre certezze ottenute guardando solo con una lente, e attraverso  processo di meticciamento del pensiero, lasciare che esso raggiunga una nuova immagine quanto più congruente del tutto — e quindi una nuova idea sul da farsi. Un processo questo che nessun individuo può da solo affrontare, ma che può solo approssimarsi attraverso una prassi comunicativa di un intelligenza collettiva.

Ora c’è una ragione per la quale chi usa solo la lente 1 — ed è la maggioranza dei commentatori mainstream, dei governi occidentali e dei media — sembra solo usare questa lente, almeno pubblicamente.  La ragione è che la guerra ha bisogno di nemici, non solo il nemico esterno, ma anche quello interno. Come ci ricorda Franco Bifo Berardi, “Il nemico interno è la sensibilità di essere umani: la coscienza, se vogliamo. Ne parla Freud in un testo sulle nevrosi di guerra scritto durante la Prima guerra mondiale: il nemico interno si manifesta come dubbio, esitazione, paura, diserzione. Il nemico interno è la volontà di pensare.” Così come si demonizza il nemico esterno (e la guerra si fonda su tale demonizzazione), allo stesso tempo si demonizza e si silenzia come amico del nemico chiunque usi anche altre lenti. Una vecchia tattica che cerca di chiudere il pensiero ad ogni tipo di ragionamento, demonizzando chi cerca di aprirlo. Una tattica di coloro che credono che per fermare una guerra di questo tipo occorre alimentare la guerra fino alla vittoria. Un pensiero che di fronte alla necessità di uscire dalla guerra è un pensiero perdente, perché se anche la mitica vittoria dovesse arrivare, arriverà dopo anni di combattimenti, torture, sangue e sofferenze, e quindi di tante, molteplici sconfitte. No, quelli che come me sono contro la guerra, non sono amici di Putin, ma non sono neanche amici di Boris Johnson, Joe Biden o la NATO. Se ci interessa la pace, dobbiamo disertare la guerra, e il primo passo della diserzione è capire la situazione dal quale vogliamo fuggire. Una comprensione che ovviamente si deve avvalere anche di altre lenti, per esempio una Lente 4, che indaga il metabolismo tra cooperazione sociale e natura non umana e una Lente 5 che indaga nelle pieghe anche psichiche della soggettività.

In quanto segue, lungi da poter mettere in rapporto le osservazioni scaturite da tutte queste lenti, mi soffermerò su ciò che si intravede usando la Lente 2, anche se vorrei poter scrivere più dettagliatamente su cosa si osserva attraverso la Lente 3. E’  quest’ultima in effetti quella che alla fine ci da un orientamento su come agire nel mondo, quali le trasversalità da istituire tra soggetti attraverso i confini, come creare ponti tra sfruttate/i, violentate/i, e oppresse/i in tutte le nazioni, in modo tale da spingere le distinzioni tra i confini nazionali in fondo alla gerarchia delle cose ed elevare altre distinzioni e metterle al centro della nostra preoccupazione politica. Ma per agire nel mondo che si osserva con la lente 3, occorre anche delimitare i contorni delle forze che agiscono su di esso, cioè usare la lente 2, quella che fa intravedere il comando sul mondo. In quanto segue, voglio provare a mettere a fuoco la guerra in Ucraina attraverso la lente 2.

Il comando sul mondo

Tante domande si aggirano tra i commentatori più attenti della guerra in Ucraina, quelli meno schiacciati su posizioni entusiaste e desiderose di prendere parte in qualche modo alla guerra. Per esempio, perché Biden non ha cercato di far qualcosa diplomaticamente quando la CIA ha mostrato le immagini dell’ammasso di truppe lungo i confini tra Russia e Ucraina? Perché la strategia degli Stati Uniti, come disse in un intervista alla CNN Hilary Clinton, sembra essere la stessa di quella adottata durante l’invasione russa in Afghanistan, cioè mandare armi per contrastare l’esercito occupante e aspettare che i russi si sfiancano, mentre si accumulano i morti tra civili e militari (morti che in Afghanistan durante la guerriglia contro le truppe sovietiche furono stimati tra i 562,000 and 2,000,000, senza parlare del caos successivo)? Perché Biden non dice a Zelensky di andare calmi, di rallentare, di negoziare perché i costi umani della resistenza fino alla vittoria — che include per molti commentatori Ucraini sulle tv occidentali perfino la cacciata dei Russi dalla Crimea— sono incalcolabili? La risposta credo abbastanza ovvia è che l’amministrazione americana spinge per un allungamento della guerra. E quindi la domanda centrale è perché? Che interesse hanno gli Stati Uniti ad allungare questa guerra, e come questo interesse è legato al comando sul mondo in questa fase storica?

Quando parliamo di mondo, parliamo di una complessità in continua riproduzione, una complessità prodotta e in produzione, parliamo di cooperazione sociale che si articola in forme diverse spesso intrecciate e spesso antagoniste. Parliamo di relazioni sociali che si incarnano in quelle ecologiche e viceversa, parliamo di metabolismo sociale, parliamo di soggetti individuali che operano in una moltitudine di reti di cooperazione sociale le cui relazioni danno forma a queste reti, le quali a loro volta danno forma alle razionalità dei soggetti. Per capire questa guerra e soprattutto cosa c’è in gioco bisogna in primo luogo anche munirsi della Lente 2, quella che guarda al comando sul mondo in questo senso, comando sulla cooperazione sociale nella sua totalità, un comando che ha la finalità di dargli una finalità e una direzione. Parlare di comando sul mondo sembra un’operazione puramente ideologica per chi crede che la democrazia occidentale sia la “fine della storia” e insieme la più alta forma di governo sul mondo, una forma che crede di distribuire il potere equamente su ogni individuo del popolo attraverso un voto a scadenze regolari ogni qualche anno. Purtroppo, sappiamo, questa forma di democrazia lascia molto spazio all’esercizio oligarchico del potere da parte del capitale, e addirittura anche monarchico, da parte della sezione egemonica del capitale internazionale. La guerra che si è scatenata in Europa ha delle ragioni che si radicano nell’”ordine” mondiale, un “ordine” che mettiamo tra virgolette, proprio perché sappiamo che è un ordine che si da al capitalismo, ai suoi flussi estrattivi e di sfruttamento, di continua (ri)generazione di gerarchie di potere e comando, che produce l’intelligenza artificiale ma anche la fame, e di un metabolismo tra la cooperazione sociale e la natura non-umana dalle conseguenze catastrofiche. Ma ciò che chiamiamo capitalismo, anch’esso non è un monolito. Il capitalismo oggi è la quasi totalità della cooperazione sociale che si dipana e intreccia a diverse scale, e che include diverse forme del fare e del relazionarsi, quelle che seguono la logica del capitale,  dello stato, e del comune, un intreccio comunque egemonizzato dal capitale, ed è per questo che lo chiamiamo capitalismo. Il comando sul capitalismo globale è il comando sull’intreccio delle reti e dei sistemi della cooperazione sociale. E il capitalismo ha bisogno di direzione e di comando proprio in virtù delle crisi che esso genera, e delle lotte che domandano risposte a queste crisi.

In forme diverse, possiamo derivare dal pensiero post-operaista italiano, dagli scritti di Alquati negli anni 80 a quelli di Hardt e Negri degli anni 2000, un’immagine del comando sul mondo come un sistema di stati gerarchizzati a secondo delle  relative potenze; una serie di reti di miliardari, corporations e organizzazioni economiche e finanziarie, e una selezione di organizzazioni della “società civile”. Questo livello di comando dunque, non è rappresentabile con un faraone in cima alla piramide sociale tenuta in piedi da un bello strato di schiavi. No, questo comando globale è in primo luogo anch’esso un sistema di comando, e ognuna delle parti interagenti, nelle sue molteplici posizionalità, intenzionalità, capacità e poteri,  partecipa al gioco. L’”ordine” mondiale è il risultato di questa interazione tra parti che hanno potere differenziale. In questo gioco, la Russia e le Cina vi hanno partecipato come stati, nelle loro funzioni dentro all’organizzazione delle Nazioni Unite, e come potenze politico/economiche/militari quantomeno regionali e con aspirazione di maggiore compartecipazione in questo comando sul mondo. Il peso che la Russia e la Cina hanno nel definire questo ordine oggi, non è proporzionale alla loro potenza, militare della prima ed economica della seconda. L’egemonia all’interno di questo ordine, almeno da dopo la seconda guerra mondiale, ce l’hanno gli Stati Uniti, un’egemonia tuttavia che da anni è in declino, a fronte della crescita di altre potenze economiche, in particolare quella Cinese.

L’egemonia statunitense nel comando sull’ordine del mondo si regge su due gambe, la potenza militare e il dollaro. Sebbene gli USA siano di gran lunga la potenza militare più forte al mondo, è una potenza che a fronte della crescita economica Cinese e di altre potenze, nonché delle sconfitte militari in Afghanistan e Iraq che hanno seguito gli attacchi dell’11 settembre del 2001, sembra essere una potenza in declino, almeno per quanto riguarda la sua capacità di raggiungere i suoi obiettivi. Ma è soprattutto la seconda gamba su cui si regge l’egemonia statunitense a porre seri problemi: il dollaro e il suo ruolo nella regolazione sia degli scambi internazionali all’interno della globalizzazione, ma anche delle politiche sul debito pubblico americano e le corrispondenti voci di spesa. In questo senso il dollaro fa da cerniera tra conflitti esterni ed interni agli Stati Uniti.

Sono anni che gli Stati Uniti tentano di arrestare questo declino egemonico su quest’”ordine” mondiale, un declino che è accelerato dall’11 settembre, che è passato da due grandi sconfitte militari in Afghanistan e in Iraq, e che ha visto infrangere le certezze della governance neoliberale a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008, e che vede la Cina pianificare la sua filiera globale (Road and Belt Initiative) mentre allo stesso tempo domanda rispetto e multipolarismo nella gestione del comando globale sul capitalismo. Il dollaro è importante per gli Stati Uniti  perché permette agli USA di far fronte alle crisi esterne ed interne semplicemente stampando dollari o, attraverso il rialzo del tasso di interesse, rimpatriando dollari che il resto del mondo detiene nelle sue riserve. In ultima analisi, questa egemonia del dollaro permette agli Stati Uniti di regolare il flusso e la composizione degli investimenti nel mondo. Come scrive disincantato il generale cinese Quiao Liang nel suo libro L’arco dell’impero (2018, p. 68), in questo modo gli Stati Uniti, “hanno incorporato risorse e prodotti globali, oltre al commercio di tutto il mondo, nel sistema di regolamento del dollaro; non hanno saccheggiato apertamente le risorse e le ricchezze degli altri Paesi, però le hanno scambiate con un pezzetto di carta verde che a loro costa quasi niente, il che in pratica è un saccheggio invisibile.”

Dopo lo svincolamento del dollaro all’oro proclamato da Nixon il 15 Agosto 1971, l’origine di questa egemonia si è avuta attraverso l’instaurazione di un’altro legame che permetteva ai “pezzi verdi” di circolare in maniera egemonica nonostante le difficoltà economiche nel mezzo della crisi degli anni 70. Così Nixon e la Federal Reserve pensarono di legarlo alla merce più importante del mondo il petrolio, cosa che si ottenne grazie alle rassicurazione saudite agli americani dopo la guerra dello Yom Kippur nel 1973. Oggi il  petrolio rappresenta da solo quasi il 4% del commercio totale e i suoi derivati entrano nella produzione della stragrande maggioranza dei prodotti.

Il legame tra dollaro e petrolio è quindi il legame tra una merce fittizia (il dollaro) e una assai centrale, il petrolio. Dollaro e petrolio diventano quindi due merci fondamentali della globalizzazione, un legame che è avvenuto prima dell’era della cosiddetta globalizzazione economica e anzi, ne ha definito la precondizione. Chi non ha dollari non compra petrolio, e chi non compra petrolio non fa marciare l’economia. Gli Stati Uniti hanno quindi creato un sistema di sopravvivenza economica attraverso questo legame. E hanno difeso questo sistema con la guerra. Non è un caso che la guerra in Iraq nel 2003 che ha deposto Saddam Hussein, e quella in Libia del 2011 che ha deposto Gheddafi, siano state entrambe combattute all’indomani della minaccia di questi regimi di abbandonare il dollaro nel mercato del petrolio.

Così gli Stati Uniti hanno diviso il mondo in due parti. Da una parte gli USA, il cui vantaggio competitivo rispetto agli altri paesi era quello di produrre dollari. E dall’altra il resto del mondo, il cui vantaggio competitivo variava a seconda dei casi. Nel caso della Cina e di altri paesi asiatici dagli inizi degli anni ’80, il vantaggio stava nel bassissimo costo del lavoro, scarse regolazioni ambientali, e forti leggi repressive contro sindacati. Questo permise di rilocalizzare molte industrie americane ed europee in queste e in simili aree del mondo, anche per sfuggire alle lotte salariali e attorno alla riproduzione sociale che in questi paesi si erano accumulate nell’onda degli anni 60 e 70.

Dallo svincolamento del dollaro all’oro il 15 agosto 1971, gli Usa hanno stampato una grande quantità di dollari, che ha contribuito, insieme ad altri fattori, al declino secolare del dollaro rispetto ad altre divise. Tuttavia questo è un declino che ha oscillato tra fasi rivalutazione e fasi di svalutazione. Questi dollari sono stati immessi in circolazione mondiale, oltre che per l’acquisto di petrolio, anche per acquistare prodotti ora manufatti in Cina ed altre aree, materie prime, per la produzione di armi,  e per finanziare col debito regimi in tutto il mondo. Questi ultimi si trovano poi ciclicamente esposti al controllo americano attraverso il Fondo Monetario Internazionale che, nel caso di crisi del debito,  devono subire le famose politiche di aggiustamento strutturale, politiche volte al taglio di spese sociali, dei sussidi alle popolazioni più povere, all’apertura dell’agricoltura alle grandi multinazionali e alla promozione di esportazione e di surplus della bilancia commerciale. Basta qui ricordare brevemente la grande crisi del debito, in concomitanza con una recessione globale, che si è scatenata sui proletari dei paesi più poveri negli anni ’80 dopo il rialzo massiccio del tasso di sconto americano da parte di Paul Volker nel periodo 1979-1981.

L’andamento dei tassi di interesse americani ha anche la funzione di regolare i flussi di investimento globali in modo da favorire la gestione sia dei problemi interni americani, che gli orizzonti strategici degli USA sul capitalismo mondiale. Come avviene per la regolazione della temperatura ambientale per mezzo di una caldaia e un termostato, anche il sistema del dollaro si basa su un sistema di feedback negativi, sebbene sia un automatismo non così preciso come quello che si ha attraverso un termostato. In quest’ultimo caso, il termostato misura la deviazione della temperatura ambientale da un dato valore desiderato di riferimento.  Tale differenza di valori poi segnala alla caldaia come regolarsi: la spegnerà se la temperatura dell’ambiente è superiore al valore desiderato, o l’accenderà se la temperatura ambientale è inferiore al valore desiderato. Invece della regolazione della temperatura ambientale per mezzo di un termostato collegato a una caldaia, qui si tratta della regolazione dei flussi di investimento globali per mezzo di un “termostato geopolitico” che misura la deviazione tra un contesto operativo globale — così come è valutato da parte delle elites americane — e la loro visione degli obiettivi strategici economici, politici e militari. Strumenti tecnici tra i quali il tasso di sconto della Fed possono poi operare nel tentativo appunto di attrarre dollari negli USA o disperderli in giro per il mondo a seconda della necessità. La regolazione cosiddetta a “fisarmonica” comprende dunque due grandi fasi: la semina e il raccolto. In primo luogo, la semina di dollari in giro per il mondo attraverso i meccanismi discussi, provocando in molti luoghi dei boom economici che come ogni boom finisce. Dunque, in secondo luogo, quando il boom si sgonfia, il raccolto di dollari dal mondo, permettendo agli investitori di uscire dalle aree di crisi attratti da condizioni di redditività e sicurezza relativamente migliori da parte degli USA, e offrire agli USA più liquidità per gli usi che rende necessario il conflitto di interessi interno. L’egemonia del dollaro dunque permette agli USA di esercitare il comando di un sistema monetario internazionale, seminando e mietendo dollari al ritmo di crisi alternanti disperse nel mondo. Crisi che si possono anche creare attraverso la guerra, in tutte le sue forme. Il già citato Quiao Liang fa diversi esempi di queste crisi, come quella in America Latina degli anni ’80 del secolo scorso, e del Sud Est Asiatico degli anni ’90.  Inoltre, in questo ciclo della regolazione della liquidità mondiale,  i paesi che ricevono dollari attraverso le esportazioni per esempio, come la Cina  che ha accumulato enormi surplus commerciali e quindi una gran quantità di riserve monetarie, sono chiamati a comprare buoni del tesoro americano, denaro che servirà a finanziare il debito pubblico, a finanziare l’industria bellica, e la spesa pubblica in generale.

La guerra in Ucraina e il comando sul mondo

Cosa centra la guerra in Ucraina in tutto questo? Come accennato in precedenza, la domanda cruciale è perché gli Stati Uniti sembrano voler allungare la guerra, a dispetto degli interessi economici degli alleati Europei? La lunga storia dell’allargamento della Nato lamentata da Putin, nonché il sostegno militare dell’amministrazione americana e della Nato almeno dal 2014, ma con documentate interferenze USA già dal 2004, hanno portato a un lento gioco geopolitico, la cui invasione russa dell’Ucraina a partire dal 24 febbraio di quest’anno, è solo l’ultima fase. Una tragica fase ma, dal punto di vista geopolitico americano, sicuramente una grande opportunità. L’ipotesi è quindi che il “termostato geopolitico” delle elites americane registri l’allungamento di questa guerra come necessario per affrontare tre sfide collegate alla salvaguardia della sua egemonia nel comando sul mondo, in un contesto in cui l’egemonia del dollaro è in declino, e proprio quando l’avanzamento della crisi sociale, economica e ambientale globale ha bisogno di scelte radicali assai rischiose. Perché dunque gli USA vogliono un allungamento della guerra? Perché la guerra è un principio regolatore della composizione del flusso globale degli investimenti quando gli USA ne hanno più bisogno.

In primo luogo, molto semplicemente, la crisi pandemica, e la strategia della cosiddetta “green transition” e le spese militari (un aumento del 5% dall 2021) ha gravato sul debito pubblico americano, il che richiede appunto un afflusso di fondi sui treasury bonds. L’aumento dei tessi d’interesse in corso negli USA servirà anche ad affrontare questa questione. Ma l’aumento dei tassi di interesse avrà molto probabilmente ripercussioni su paesi oggi messi in difficoltà anche dalla guerra in Ucraina. Il debito  di molti paesi era già aumentato durante la pandemia. Ora l’aumento dei prezzi dell’import energetico e alimentare prodotto dalla speculazione, dalla guerra e, per quanto riguarda il cibo, dall’intensificarsi degli effetti del cambio climatico, aggrava la situazione debitoria la quale, a seguito agli aumenti previsti dei tassi di interesse, potrà precipitare una catena di bancarotte statali e private. Si profila quindi, nel mezzo di tanta sofferenza, una condizione ideale per ristrutturare le catene del valore dell’economia globale, ri-configurare la produzione e le filiere, ri-modellare le gerarchie globali di reddito e ricchezza. Il capitalismo vive su questo. Gli esempi odierni di questa crisi sono la punta dell’iceberg: Sri Lanka, Egitto e Tunisia. C’è però una differenza tra la crisi del debito che si profila oggi e quella di qualche anno fa: nella gestione della crisi di oggi e del prossimo futuro, la Cina avrà un ruolo assai più determinante di ieri, poiché oggi comanda una percentuale assai più elevata del credito a fronte di una diminuzione da parte di istituzioni quali Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. Come ci ricorda il Wall Street Journal: “Secondo l’FMI, la quota di debiti esteri della Cina nei confronti delle 73 nazioni povere altamente indebitate è balzata al 18% nel 2020 dal 2% nel 2006, mentre i prestiti del settore privato sono saliti all’11% dal 3%. Nel frattempo, la quota combinata dei prestatori tradizionali — istituzioni multilaterali come il FMI e la Banca Mondiale e i prestatori del ‘Club di Parigi’ di governi occidentali per lo più ricchi — è scesa dall’83% al 58%.”

In secondo luogo, l’allungamento della guerra in Ucraina offre agli Stati Uniti un vantaggio nella competizione EU-China-US sullo sviluppo delle tecnologie verdi e corrispondenti mercati. Al momento, a dispetto sia del forte bisogno di cooperazione per affrontare la crisi ambientale, sia delle promesse sul tavolo di lasciare i mercati aperti e condividere le tecnologie verdi per abbattere i costi, a detta di alcuni commentatori  diventa plausibile che “le considerazioni geoeconomiche stiano diventando fattori politici sempre più importanti”, poiché “l’UE, gli Stati Uniti e la Cina sembrano più determinati che mai a promuovere politiche industriali verdi nazionali e sostenitori delle energie rinnovabili.” Questo vorrebbe dire due cose.

Primo, l’Europa si trova in casa una crisi geopolitica di straordinaria potenza, che ha già incominciato ad affrontare devolvendo una parte consistente delle proprie risorse riservate dal green deal all’aumento delle spese militari, riducendo quindi la sua capacità competitiva nel campo dello sviluppo delle tecnologie verdi. Secondo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stanno spingendo l’Europa a tagliare nettamente il suo legame con la Russia, e ciò significa non solo permettere agli USA di guadagnarci con la vendita del gas liquido all’Europa in sostituzione di quello russo — con effetti aggravanti sull’ambiente aggiuntivi — ma anche di impedirgli di avere un’accesso relativamente più economico alle fonti energetiche che sono assolutamente necessarie anche per la transizione ecologica. Se si pensa che queste siano delle tesi audaci, mettetevi per un momento in testa il cappello ideologico che ci hanno propinato in tutti questi anni, quello del managerialismo neoliberale, il cappello delle “opportunità”. Leggiamo per un momento il mondo con quel cappello: una situazione così, per gli americani è un’opportunità  irriproducibile. Ma quando si ripresenta l’opportunità di mettere l’Europa nella condizione di reindirizzare le proprie risorse alla difesa e alla gestione della crisi geopolitica di fronte a tutte le altre crisi sociali, ambientali, economiche ecc., e la necessità strategica di investire nella transizione ecologica? Quale migliore opportunità di questa avrebbe potuto dare Putin a Biden per avvantaggiarsi nella corsa competitiva con l’Europa per la leadership tecnologica della green transition? Questo scenario può voler dire solo una cosa per l’Europa: “there may be trouble ahead”, per riprendere il tema della famosa canzone.

In terzo luogo, il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, l’impegno dell’Europa sul versante ucraino/russo, e l’aumento delle spese militari in Europa libera risorse per gli Stati Uniti, risorse che possono usare per  impegnarsi su un’altro fronte, quello asiatico, e in particolare  l’Asia orientale, dove la strategia americana è quella dell’accerchiamento e di contenimento della Cina.  Questo strategia di contenimento ha anche a che fare con il tentativo Americano di contrastare lo sviluppo della Belt and Road Initiative, un progetto di sviluppo di una infrastruttura globale adottata dalla Cina nel 2013, e che porta investimenti in quasi 146 paesi. Un’iniziativa che si basa sulla costruzione di strade, ponti, ferrovie, oleodotti, gasdotti, porti e via dicendo, e creerebbe potenzialmente una grande infrastruttura geoeconomica nell’area euroasiatica, una struttura il cui controllo è in mano cinese, e permetterebbe alla Cina di supplementare il trasporto marittimo (necessario oggi per l’importazione di gran parte dell’import di gas e del petrolio e tutta l’esportazione di merci) con quello di terra. Ora, si vede che un’allungamento della guerra in Ucraina è anche funzionale alla compressione di questa strategia cinese, poiché nodi importanti della Belt and Road initiative dovrebbero appunto passare per l’Ucraina e, in secondo luogo, una Europa drasticamente sganciata dalla Russia dal punto di vista delle materie prime mutilerebbe il progetto euroasiatico della parte europea.

Per mantenere la propria egemonia, gli Stati Uniti sembrano quindi spingere per una de-globalizzazione dell’economia nel senso di una creazione di due grandi poli. Uno atlantico, con fulcro tra Stati Uniti e un’Europa ad essi subordinata, e uno asiatico, con Cina e Russia che si complementano dal punto di vista delle materie prime, della tecnologia e della produzione industriale. Nell’ipotesi di una de-globalizzazione  basata sull’emergenza di almeno due grandi poli geopolitici e geoeconomici, puntare al contenimento ha un senso strategico per gli USA. Così come avrebbe un senso strategico per gli Stati Uniti, contenere la Cina nel suo sviluppo e commercializzazione delle tecnologie di punta, inclusa quelle per la green transition, anche nell’ipotesi di una più debole riglobalizzazione. La dirigenza cinese infatti, dopo la crisi del 2008, nonché dopo il lungo ciclo di lotte per aumenti salariali, migliori condizioni di lavoro, ma anche lotte ambientali, sembra convinta di dover pianificare una politica industriale per risalire la catena del valore. E ovvio che questo progetto contrasti con gli  interessi occidentali e soprattutto americani. Costruendo sulla linea di Trump sulla Cina, l’amministrazione di Biden ha quindi promosso il “decoupling tecnologico selettivo” nei confronti della Cina, nel senso di restringere selettivamente nelle aree di interesse strategico, le esportazioni, le importazioni, gli investimenti diretti e gli investimenti finanziari, cosa che sta riconfigurando in maniera fondamentale il rapporto tra USA e Cina.

Queste strategie si possono chiaramente attuare in maniera molto approssimata e anche per vie sporche come la guerra, o la promozione del suo allungamento nel tempo, e l’instaurazione di un’economia di guerra (si veda per esempio l’articolo di Andrea Fumagalli). La formazione di due poli, se questo è quello che avverrà, può essere solo graduale, poiché sganciarsi dalla Cina significa rimpiazzare altri centri di produzione globale mentre si cerca di mantenere nel contempo l’egemonia del dollaro, un’egemonia che passa anche per la destinazione del surplus commerciale della Cina con gli USA all’acquisto di Buoni del Tesoro americani. Ma c’è un altro fattore da tenere in conto, la minaccia di uno sgonfiamento della bolla speculativa e di debito che si è gonfiata negli anni successivi al 2008. E molto probabilmente che, tra guerre, inflazione e stagflazione si avrà una nuova grande recessione mondiale, che dal punto di vista del capitale, se non si sollevano le moltitudini in maniera costituente per ridisegnare la loro cooperazione sociale in forme assai più eque, inclusive e rispettose della natura non umana, significa un’opportunità ulteriore per dirigere gli investimenti e riprendere una nuova fase di accumulazione. L’arrivo di una grande recessione (e magari dar la colpa a Putin anche di questo come ha già fatto Biden) può servire appunto a svincolare almeno parte dell’economia USA all’import cinese, e con la sua  fisarmonica darle spazio e tempo per dirigere investimenti e capitali in quelle aree del mondo che possono sostituire la produzione cinese.

La guerra in Ucraina e la subordinazione strategica dell’Europa gli Stati Uniti, spinge dunque verso la visione strategica degli USA, cioè del distaccamento economico dell’Europa dalla Russia, cosa che contemporaneamente avvicina quest’ultima alla Cina per la costruzione di un polo geo-economico e geo-politico. Ma questa strategia può ritorcersi contro agli stessi Stati Uniti, come sembra indicare l’impatto delle sanzioni, soprattutto quelle che lo escludono dal sistema di pagamento SWIFT. La reazione della Russia è stata quella di instaurare la parità del rublo con l’oro che ha permesso, insieme alla richiesta di pagamento del gas in rubli, a contrastare la caduta del rublo dopo le sanzioni, a ricuperare quasi tutto il valore, e a definire un pavimento oltre il quale il tasso di cambio tra rublo e dollaro non può andare. E’ giusto quindi chiedersi se gli smottamenti nell’egemonia del dollaro possano aprire appunto all’emergenza di un sistema monetario separato centrato su un paniere di valute legato alle commodities (materie prime strategiche) delle quali la Russia, ma anche la Cina, sono grandi produttori. Questa sembra essere la lettura che ne deriva il Credit Swiss . La mossa della parità del  rublo con l’oro forse presagisce appunto la costruzione futura di un pacchetto di monete legate alle commodities che può valere come alternativa al dollaro, specialmente se la Cina deciderà un giorno di aggregarsi. Specialmente in questa fase, dove le commodities, per via della guerra ma anche del green deal tendono a rafforzarsi. Si vedrà. Da aggiungere infine, che queste dinamiche monetarie si stanno sommando ad altre tendenze che diminuiscono l’importanza ancora egemonica del dollaro, come per esempio le consultazioni tra Arabia Saudita e Cina attorno al pagamento in Yuan del petrolio.

Disertare la guerra è disertare il comando sul mondo

Non so come, ma a me sembra che questi giochi strategici attorno al comando sul mondo siano come il riarrangiare la disposizione delle sedie sul ponte del Titanic, mentre questo sta per affondare. Per tornare alle nostre preoccupazioni iniziali, cosa significa quindi disertare la guerra alla luce del comando sul mondo, delle dinamiche interne a questo comando, alla lotta per l’egemonia su di esso? In questo ambito, disertare la guerra significa disertare questo comando, e poiché questo è l’ambito del comando verticale sulla cooperazione sociale dal quale in fondo dipendiamo, disertare questo comando vuol dire specularmente creare cooperazione sociale  che non dipenda da e non sia sottomesso a questo comando, cioè creare comune, progettare comune che ci offra quanto più possibile riparo dal comando e dai suoi effetti devastanti. In piccolo, è l’immagine del soldato disertore che scappa dal suo reggimento, la cui vita dipende dal comune che instaura con chi gli da del cibo e un tetto. Un’immagine che può evocare anche quella dell’“abbandono di ogni campo di battaglia, sopravvivenza ai margini di una società che si sta disfacendo, autosufficienza nell’esilio dal mondo” come scrive Franco (Bifo) Berardi. Ma anche una sopravvivenza ai margini di questo mondo e quindi del suo comando non può evitare di costruire un altro mondo, anche se marginale. Allo stesso modo, abbandonare completamente ogni campo di battaglia in questo mondo, non può evitare che il comando di questo mondo sposti il  campo di battaglia ai confini dell’altro mondo, soprattutto se si tiene in mente la logica espansiva del capitale. Cosa rimane dunque del disertare la guerra? Rimane, spero, un’ambivalenza produttiva. Il fatto che la diserzione sia un momento, una fase necessaria, nella costruzione di un’altro mondo, mentre sopravvive forte anche la consapevolezza che molto di questo mondo ci appartiene e può, e deve essere, riappropriato nella costruzione dell’altro mondo.

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