Di ROBERTA POMPILI
Da diversi mesi mi sveglio la mattina per accendere il computer e svolgere il mio lavoro di didattica a distanza. La mia scuola è stata incredibilmente veloce nell’attivare l’insegnamento online supportato dalla piattaforma Google Suite for education. Sembra che la pandemia abbia dato un colpo di accelerazione all’economia di questi giganti delle piattaforme e quel che è peggio all’idea di ristrutturare nel suo insieme la scuola, tanto che quello che sembrava un apprendimento da remoto causato dall’emergenza potrebbe essere seguito da una pianificazione dell’apprendimento online per il prossimo anno scolastico.
Non faccio che pensare a questo mentre accendo il monitor e guardo gli spazi pixelati che assorbono la mia attenzione e riducono il mio potere di elaborazione mentale. Cosa staranno facendo i ragazzi e le ragazze, penso, mentre guardo le icone con i loro nomi e li interpello per capire se qualcuno, almeno qualcuno stia seguendo cosa dico. I primi giorni di lockdown mi era sembrato un miracolo: avevo acceso la telecamera ed erano tutte lì, le mie preziose classi, con il desiderio di sentirsi, pensarsi insieme, collegati, mentre il mondo era in crisi e rotolava. Certo nell’arco di tre mesi molti si sono persi, troppi, e molti hanno continuato stancamente a presentarsi in appello, nascondendosi dietro quelle icone, mentre io mi ritrovavo perlopiù a parlare nel vuoto, in uno spazio artificiale senza occhi e sguardi che mi ricambiavano, senza corpi indocili che si muovevano. Questa emergenza è capitata verso la fine dell’anno scolastico, cosi avevo delle conoscenze pregresse degli studenti e del loro comportamento a scuola – chi è in ritardo, chi è attento, chi partecipa, come interagiscono tra loro – e questo ha reso senz’altro meno alienante, scoraggiante la relazione online. Poi ci sono alcuni aspetti positivi, per esempio quelle finestre che si sono aperte di tanto in tanto sulle loro case e che mi hanno restituito scorci di spazi e animali domestici che mai avrei conosciuto. Il collasso del tempo reale-virtuale ha fatto emergere una molteplicità di mondi e ruoli. Avrei mai visto la fattoria di Nina che si occupa dei suoi nonni anziani, mentre la madre lavora? Oppure avrei mai scoperto che Alessandra, che a scuola soffre di ansia e attacchi di panico ed è sempre in silenzio, potesse recuperare una sua sicurezza con lo schermo e a distanza, così da svolgere un’ottima interrogazione di italiano? Ma questa è solo una piccola parte della lunga catena di avvenimenti che testimoniano una generale e prevalente disaffezione e allontanamento dal monitor di ragazzi e ragazze. Le scontate e ragionevoli fughe degli studenti annoiati, non sono l’unico aspetto, l’altro è quello che riguarda le enormi disparità economiche e sociali che questo periodo ha fatto emergere: c’è una bella differenza nel fare lezione comodamente connessi a Internet dal pc nella propria stanza, oppure vagare cercando un angolo della casa che offra una solida connessione e fare gli esercizi di scrittura sul piccolo schermo del cellulare o peggio non avere affatto una connessione. In termini di efficacia didattica i collegamenti su piattaforma hanno generalmente funzionato per trasmettere informazioni, dare indicazioni su attività da svolgere, monitorare qualche progresso. D’altra parte questa non è che davvero la minima parte della formazione: mentre la piattaforma funziona verso una mente orientata, una opinione pronta, già confezionata per l’uso, l’insegnamento ha bisogno della presenza fisica, si nutre di una interazione e di un dialogo continuo mai scontato, fatto di idee, suggerimenti, incertezze, creatività, pause, riarticolazione collettiva di un discorso polifonico, verbale e non verbale. E non sono solo gli insegnanti ad insegnare: la scuola è un luogo collettivo, plurale in cui gomito a gomito c’è un confronto molteplice con innumerevoli figure, il vicino di banco, l’amica, il gruppo classe, gli altri, gli adulti: un’intera comunità educante.
E cosa dire di noi insegnanti ridotti perlopiù al ruolo di badanti dello schermo e/o dispensatori di incombenze da eseguire a distanza? Un esercito di insegnanti, prevalentemente donne, moltissim* precari/precarie, che in questo tempo sospeso si caricato il compito di mantenere la cura della scuola e contemporaneamente continuare il lavoro riproduttivo familiare. Nell’arco di tre mesi abbiamo dovuto improvvisarci e autogestirci una formazione tecnologica e ormai surfiamo su dispositivi, applicazioni, piattaforme: organizzazione orari sul registro elettronico, incontri su meet, compiti su classroom, decine di gruppi whastapp per informazioni, ogni piano di organizzazione articolato per ogni gruppo classe. I dispositivi hanno divorato il nostro tempo e capita che ti inviino le parafrasi dell’Orlando Furioso su whastapp alle nove di sera.
Sto pensando questo mentre osservo mio figlio, un diciottenne che tra poco affronterà la maturità classica: si è da poco collegato alla sua ennesima videolezione e dopo aver risposto puntuale all’appello, ha chiuso il video e infilato le cuffie per sentire la musica dei Rolling Stones.
Questa è l’ultima settimana di videolezioni prima degli scrutini. Negli altri paesi europei la fase 2, quella della riapertura delle innumerevoli attività economiche e sociali dopo l’emergenza pandemia, ha visto un po’ ovunque la riapertura in presenza della scuola. In Spagna, ad esempio, si è avuto la sensibilità e l’attenzione di fare perlomeno rientrare le ultime classi delle scuole superiori per favorire la preparazione agli esami di stato: da noi gli/le adolescenti sono stati abbandonat* da sol* dietro un video. Una società che non si cura dei suoi rituali di passaggio è destinata ad essere sommersa dal furore delle giovani generazioni, e forse non solo delle giovani generazioni.
Per riconquistare le sue funzioni, invertendo finalmente la marcia dopo decenni di tagli, di nuove gerarchie e di managerializzazione spinta, e allo stesso tempo diventare un presidio sanitario di tutela della sanità pubblica, come richiesto dalla pandemia, la scuola ha bisogno prima di ogni cosa di finanziamenti sostanziosi, di personale non precarizzato, di intelligenze collettive che insieme cooperino: questa è una trasformazione che può avvenire solo dal basso e dentro quegli spazi e quelle mura che contengono voci, affetti, relazioni, una potente forza trasformativa. Le mobilitazioni di questi giorni sul tema della formazione vedono la presenza unita di genitori, insegnant* di ruolo e precar*, personale amministrativo e ATA, student*. Questa drammatica realtà può tradursi in una grande occasione e in tante piccole imprese comuni per costruire la scuola all’altezza di domani.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 6 giugno 2020.