di NICOLAS MARTINO.
Nel suo visionario They Live del 1988 John Carpenter raccontava di alieni che tenevano il nostro mondo sotto controllo colonizzando il desiderio e l’immaginario di milioni di americani: comprate, obbedite e, soprattutto, dormite! erano queste le ingiunzioni trasmesse da un flusso ininterrotto di informazioni e persuasioni occulte diffuse nella metropoli e che solo occhiali forniti di lenti speciali riuscivano a disvelare. Eravamo in piena epoca reaganiana e thatcheriana, la controrivoluzione neoliberista andava all’assalto dei cuori e delle anime delle persone (bisognava farlo, questo era il vero e autentico obiettivo della controrivoluzione neoliberista, così sosteneva esplicitamente la lady di ferro Margaret Thatcher), una controrivoluzione che voleva cambiare radicalmente le anime e i cuori colonizzando appunto il desiderio e l’immaginario delle persone (quella neoliberista, è bene sottolinearlo, è stata una vera e propria rivoluzione antropologica, magnificamente resituita nella sua radicalità e violenza estirpatrice da un altro film più recente, Tony Manero del 2008 opera del cileno Pablo Larraín).
Lo spettacolo della merce era allora un’ideologia potente che solo un visionario come Carpenter poteva restituire in tutta la sua radicalità e violenza extra-mondana. E benché la resistenza, come quella del protagonista del film l’operaio disoccupato John Nada, sia sempre possibile, perché ricordiamolo il capitale non è un Moloch totalitario ma sempre una relazione conflittuale, è anche vero che la colonizzazione è andata avanti, gli zombi dell’altro mondo vivono ancora tra noi e hanno infranto da tempo un’altra barriera, quella del sonno. Dicevamo prima che una delle ingiunzioni trasmesse ossessivamente dagli alieni, la più importante probabilmente, era quella che invitava a dormire, «dormite!» e non pensate appunto, e qui è allora opportuno ricordare anche le straordinarie righe con cui si apre un romanzo italiano pubblicato nel 1989, Le mosche del capitale di Paolo Volponi:
«La grande città industriale riempe la notte di febbraio senza luna, tre ore prima dell’alba. Dormono tutti o quasi, e anche coloro che sono svegli giacciono smemorati e persi: fermi uomini animali edifici; perfino le vie i quartieri i prati in fondo, le ultime periferie ancora fuori della città, i campi agricoli intorno ai fossati e alle sponde del fiume; anche il fiume da quella parte è invisibile, coperto dalla notte se non dal sonno. Buie anche le grandi antenne delle radio-comunicazioni e dei radar della collina. È un rumore del sonno quello di un tram notturno che striscia tra gli edifici del centro. Gli uomini le famiglie i custodi i soldati le guardie gli ufficiali gli studenti dormono, ma dormono anche gli operai: e non si sentono nemmeno quelli dei turni di notte, nemmeno quelli dei turni di guardia di ronda tra le schiere dei reparti o sotto le volte dei magazzini. Quasi tutti dormono sotto l’effetto del Valium, del Tavor e del Roipnol. Ma dormono anche gli impianti, i forni, le conduttore, dormono i nastri trasportatori delle scale mobili che depositano le pozioni chimiche nelle vasche della verniciatura o nei lavelli delle tempere. Dorme la stazione ferroviaria, dormono anche le farmacie notturne, le porte e le anticamere del pronto soccorso, dormono le banche; gli sportelli le scrivanie i cassetti le poste pneumatiche le grandi casseforti i locali blindati; dormono l’oro l’argento i titoli industriali; dormono le cambiali i certificati mobiliari i buoni del tesoro. Dormono i garzoni con le mani sul grembiule o dentro i sacchi di segature. Dormono le prostitute i ladri gli sfruttatori le bande organizzate, i sardi e i calabresi; dormono i preti i poeti gli editori i giornalisti, dormono gli intellettuali; quanto caffè, alcool, fumo tra quelle ore. E mentre tutti dormono il valore aumenta, si accumula secondo per secondo all’aperto o dentro gli edifici».
Quello raccontato da Volponi, come quello di Carpenter, era il capitalismo degli anni Ottanta, quello che invitava a dormire mentre nel sonno generale il valore aumentava, ma nel quarto di secolo che ci separa da Essi vivono e da Le mosche del capitale qualcosa di importante è cambiato: se il neoliberismo allora invitava a dormire, oggi è esattamente il contrario, il capitalismo che ha sussunto la vita e messo al lavoro l’anima delle persone si fonda su una veglia continua estraendo valore da un lavoro che si estende ininterrottamente su tutte le ventiquattro ore della giornata, sette giorni su sette. E in effetti si dorme progressivamente sempre di meno, si bevono più caffè, si assumono sostanze psicotrope che allertano l’attenzione, si tagliano i tempi morti, non si perde tempo, si è perennemente connessi alla rete e al flusso ininterrotto di informazioni. Se quello degli anni Ottanta era il capitalismo dell’eronia che invitava a dormire, perché nel grande sonno dell’oppio bisognava affogare l’orda d’oro dei movimenti degli anni Settanta, quello attuale è il capitalismo della cocaina che invita a una veglia continua.
Non è un caso allora che negli ultimi anni si siano moltiplicati i disturbi del sonno e le psicopatologie legate all’insonnia, e che per tutta una nuova generazione di filosofi, artisti e poeti, il sonno e il suo rapporto con il neoliberismo sia diventanto un tema strategico. Pensiamo ai lavoro del filosofo russo Alexei Penzin, che nel 2012 in occasione di dOCUMENTA (13) ha pubblicato un libretto dal titolo Rex Exsomnis. Sleep and Subjectivity in Capitalist Modernity, e ancora al libro del critico americano Jonathan Crary appena tradotto in italiano dall’Einaudi 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (2015), ma pensiamo anche alla nuova opera di una delle migliori voci della poesia italiana della mia generazione, Lidia Riviello, dedicata proprio al sonno e al suo rapporto con la macchina del capitale e significativamente initolata «Sonnology» (uscirà tra qualche mese per l’editrice Zona). Va poi ricordato il lavoro di un artista visivo, anche qui la generazione è la mia, che molto ha lavorato su questo tema, parlo di Danilo Correale e della sua mostra tenuta nel 2015 da Raucci/Santamaria di Napoli dal titolo The Missing Hour, ovvero l’ora mancante che è quell’ora di sonno andata perduta rispetto al secolo scorso nella tensione capitalista a una produzione costante. Quella mostra si completa ora con la pubblicazione di una monografia intitolata No More Sleep, No More, Archive Books (2015), e la realizzazione di un’opera video di quattro ore con lo stesso titolo.
Tutto questo ci dice qualcosa di semplice e molto significativo: il sonno è un atto politicamente rilevante, perché costituisce ormai la nuova linea di resistenza rispetto a un processo di colonizzazione che, spinto dalla fuoriuscita della produzione dai luoghi tradizionalmente preposti al lavoro (la fabbrica fordista principalmente, e gli uffici), tende ora a invadere e sussumere, rendendoli produttivi, gli spazi tradizionalmente dedicati al riposo. Ma perché il capitalismo va oggi all’assalto del sonno? Perché evidentemente è principalmente nel sonno che l’immaginazione lavora, è nel sonno che si elabora un’immaginazione del possibile e quindi una teoria politica della liberazione contro ciò che è, per rovesciare lo stato di cose esistente, ed è quindi proprio per questo che il sonno diventa oggi la nuova linea di resistenza, per preservare la possibilità di elaborare un immaginario non colonizzato e quindi lasciare aperto lo spazio per costruire una politica del possibile. Per afferrare la dimensione davvero strategica del sonno si ricordi lo straordinario lavoro svolto da Ernst Bloch sul Principio speranza, un principio profondamente radicato nell’attività onirica e quindi nel sonno, e qui riassunto da queste sue parole: «Ogni sogno resta sogno perché troppo poco ancora gli è riuscito, si è compiuto. Perciò esso non può dimenticare ciò che resta, in tutte le cose mantiene la porta aperta». È una sfida decisiva quella che ci si presenta, l’ontologia del possibile, quella del sonno, contro quella dell’impossibile promossa dal capitale neoliberista, la produzione di un’immaginazione della potenza, della felicità e della sovversione contro la circolazione di un immaginario della sconfitta, del debito e della colpa.
Certo, in alcuni momenti, la sovversione anticapitalista aveva già individuato quella del sonno come una esperienza strategica, penso a quella straordinaria Théorie du sommeil, trattatello semiclandestino scritto da Auguste Blanquì sulle barricate della Comune per sostenere una politica del sonno in una Parigi in armi dove gli operai sparavano sugli orologi che scandivano il tempo del progresso, perché il progresso, come diceva Walter Benjamin, appartiene sempre alle forme tradizionali del pensiero borghese. Una politica comune del sonno è quindi una politica contro questo tempo lineare e progressivo nelle cui maglie continuiamo, nonostante tutto, a inciampare. E poi penso anche a quel manifesto degli IWW americani dei primi del Novecento dove c’è una donna sotto le lenzuola che non ha nessuna intenzione di alzarsi per andare a lavorare ed esprime così tutto il suo rifiuto, rifiuto del lavoro e della disciplina di fabbrica (devo l’indicazione a Ilaria Bussoni che ha parlato di questo manifesto in una bella intervista sul rifiuto del lavoro pubblicata qualche mese fa su alfabeta2). In conclusione, per tornare alle ultime produzioni sul sonno e il suo rapporto con il capitalismo, voglio riportare alcuni versi dalla nuova opera di Lidia Riviello che citavo prima:
davanti alle soluzioni
frenare per recuperare il sonno.
troveremo il modo di consumare
all’aperto il pasto per finirlo
prima che il dispositivo ci ami troppo
da frenare l’avanzata del godimento.
cliente snobbato rinviato al sogno
nello strillo paterno
lamenta
un allontanamento dal significato
diagnosticato anche dall’ infermiera intenerita
dallo slogan dormire meglio dormire tutti.
si sta nella vita sapendo che
l’abbronzatura precede la morte.
una volta si sognava senza produrre
una sola volta imparammo la semantica.
l’apertura dell’istituto
non impedisce il proliferare di atti inutili
come il sovrallenamento.
sull’uso e non sul significato dei sogni
lavorano incessantemente
sottotitolando misticamente il profitto.
e così determinano forse il valore di ogni relatività.
freddano nel moto infranto
la questione animale
nella propria deità stordita.
per non dormire fanno una croce sul petto
poi imparano a non progettare più di un mondo alla volta
nessuna produzione se l’estasi finisce per sfinire
in forma di visione e immagine incontrastata da un uso continuo
del pronome personale plurale.
non sanno se hanno dormito a lungo nelle notti di primavera o in caso non ci sia primavera come abbiano dormito.
non prendono parte al sonno degli altri intravedono la tragedia
chi allontana la famiglia sorpassa il sogno del vicino.
Insomma oggi è di nuovo qui, in questo spazio inaugurato nel Novecento da L’interpretazione dei sogni di Freud, che si gioca una battaglia decisiva e diventa quindi più che mai strategico un lavoro politico sull’immaginazione. La lotta di classe è, oggi più che mai, anche dentro ognuno di noi, anche nel sonno e quindi nella capacità di produrre ancora un immaginario sovversivo facendo propria la parola d’ordine: Dormire meglio, dormire tutti!
* Questo testo, letto all’Accademia di Belle Arti di Firenze in occasione del seminario Fibrillazioni tra arte e politica, è stato pubblicato anche su Doppiozero il 13/12/2015.