Di BENEDETTO VECCHI.
Un merito a Christian Raimo bisogna riconoscerlo. Ha lacerato il velo di ipocrisia che nel corso degli anni ha avvolto l’appuntamento più importante dell’editoria italiana, ovvero il Salone del libro di Torino.
CON UN POST, POI CANCELLATO, inviato sulla sua bacheca di Facebook lo scrittore italiano ha compiuto quell’atto semplice difficile a farsi. Ha scritto che l’antifascismo è una discriminante che non ha perso valore con il trascorrere del tempo da quando partigiani hanno chiamato il popolo italiano all’insurrezione contro il regime della Repubblica sociale italiana e l’occupazione nazista. Raimo, oltre a dispiacersi della presenza di una casa editrice che non nasconde la sua nostalgia per il ventennio mussoliniano, ha puntato l’indice anche contro chi, nel governo, fa quotidiano esercizio di razzismo e xenofobia.
Tutto è nato con l’annuncio che al Salone del libro edizione 2019 sarà presente la casa editrice Altaforte, una specie di megafono editoriale di Casa Pound, che ha recentemente pubblicato un libro intervista a Matteo Salvini. D’altronde il capo della casa editrice, Francesco Polacchi, è anche il produttore delle pacchiane felpe indossate dal ministro degli interni nelle sue apparizioni dove dispendia a piene mani il fiele di «prima gli italiani».
Christian Raimo ha detto che gli intellettuali, gli scrittori e persino i giornalisti non possono chiudere gli occhi su questa marea montante di xenofobia e indifferenza verso vecchio e nuovo fascismo. Apriti cielo. È iniziato subito il fuoco a parole incrociate contro la direzione del Salone del libro. Il sottosegretario ai beni culturali Lucia Borgonzoni ha chiesto a Nicola Lagioia di dissociarsi dalla parole scandalose di un suo consulente, come era fino a qualche giorno fa Christian Raimo.
INVECE DI MANTENERE IL PUNTO, lo scrittore italiano ha preferito inviare un altro post annunciando le sue dimissioni da consulente del Salone del Libro, motivandole con l’intenzione di non arrecare danno all’appuntamento torinese.
Per Nicola Lagioia una gatta da pelare in meno. L’antifascismo è salvo (a parole), ma soprattutto salva è l’amicizia e la stima che lega i due intellettuali italiani. Ieri, infine nuova esternazione di Raimo: lui al Salone ci andrà come scrittore, italiano, cittadino democratico. La polemica poteva finire qui, dato che tutto era ritornato nell’ordine di una iniziativa che nel corso degli anni non ha scontentato mai nessuno. Ottimo palco per scrittori, saggisti, casa editrici. Autori mainstream e controcorrente hanno potuto parlare dei loro libri in una manifestazione che ha visto crescere il pubblico anno dopo anno. Lieto sarà il capo di Altaforte, che mai avrebbe sperato in così tanto clamore per un libro che altrimenti avrebbe appassionato solo la claque plaudente della Lega.
NEL FRATTEMPO hanno preso parola altri intellettuali, a partire dal collettivo Wu Ming che ha annunciato che non sarà a Torino. Sullo stesso tenore le dichiarazioni dello storico Carlo Ginzburg, di Francesca Mannocchi, autrice di libri e reportage sulla guerra a bassa intensità dichiarata dall’Italia e dalla fortezza Europa contro i migranti e di Zerocalcare. Di diverso tenore invece la presa di parola di Michela Murgia, che invita a presidiare in massa il Salone del libro e togliere così spazio ai fascisti. La partecipazione di una casa editrice della destra radicale è un incidente di percorso, dicono i soliti commentatori protagonisti per le loro banalità nelle tempeste in un bicchier d’acqua. C’è da dire che il velo di ipocrisia squarciato, ma subito rammendato da Christian Raimo fa emergere una realtà più articolata e meno rosea di quella dipinta da coloro che guardano al programma del Salone come un esempio di radicalità teorica e di costituzione di una sfera pubblica non omologata.
DIETRO LA PARTECIPAZIONE di una casa editrice di destra estrema alla kermesse torinese c’è un nodo che rischia di diventare un nodo scorsoio al pensiero critico. A essere messa in discussione da decenni è la presunta egemonia della sinistra nella produzione culturale, un fantasma che si aggira tra chi vuol archiviare l’antifascismo come dato fondante della Repubblica nata dalla Resistenza; e tra chi, sulle colonne dei maggiori quotidiani italiani, da oltre un ventennio agisce come un agit prop del decisionismo, del riduzionismo nelle procedure democratiche e di chi guarda all’individuo proprietario come il faro che dovrebbe guidare la riflessione sulla modernità più o meno liquida del neoliberismo.
IL PENSIERO CRITICO deve cioè essere ridotto a fabula tra le tante, variazione sul tema ossequioso del potere costituito basato su quella postverità che costituisce ormai l’asse portante della discussione pubblica. Per costoro vale ricordare la riflessione di Enzo Traverso sul vecchio e nuovo fascismo (il manifesto, 24 aprile 2019).
Il fascismo di oggi ha punti di contatto ma significative differenze con quello storico. Compito del pensiero critico è individuare le une e le altre. Altro discorso è se c’è un pericolo fascista alle porte. Siamo cioè come quella scena descritta da Ian McEwan in Cani neri: nel momento del trionfo della democrazia liberale, possono danzare sulle macerie del Muro di Berlino neonazisti impenitenti. Peccato che il Muro di Berlino sia caduto ormai da trenta anni.
Più realisticamente va affermato che montante è semmai l’ideologia di chi vuole cancellare l’antifascismo senza per questo auspicare necessariamente un regime fascista. Infine, un dato viene spesso dimenticato. Il Salone del libro è da anni lo spazio pubblico dove scorre il sotterraneo conflitto teso ad addomesticare la produzione culturale. Più che programma radicale, quello dell’edizione 2019, come quello degli anni passati, è un programma politicamente corretto, buono per tutti i palati.
NELL’ULTIMO BIENNIO, Nicola Lagioia ha dovuto fronteggiare la competizione di imprenditori culturali che volevano far diventare Milano il centro nevralgico dell’editoria italiana, allorquando hanno pensato di allestire una fiera del libro alternativa a quella torinese. Con intelligenza, il direttore del Salone lo ha riqualificato, sottraendolo innanzitutto al gorgo di corruzione, affari poco chiari che alcune iniziative spregiudicate rischiavano di trascinare a fondo. Così Torino è tornato ad essere l’appuntamento più importante dell’editoria italiana. Con il rischio però di una forte riduzione della bibliodiversità. Ormai essere presente ala Lingotto costa molto.
E se le grandi case editrici possono permetterselo, le piccole e gli «indipendenti» hanno difficoltà ad affittare stand, pagare le trasferte di dipendenti spesso con contratti precari, al punto che negli anni passati gli immensi spazi dell’ex stabilimento Fiat sono stati teatro di contestazioni, cortei interni organizzati da precari che volevano mettere in evidenza come spesso i libri sono frutto di bassi salari, diritti ridotti al lumicino e sfruttamento a tempo indeterminato. Anche la disposizione spaziale, geografica degli editori riflette il potere di mercato.
Gli edifici centrali del Lingotto sono infatti saldamente presidiati dai grandi editori; gli altri sono spesso relegati in «periferia». Il Salone non riesce cioè ad essere il contraltare di quella concentrazione oligopolistica della produzione, distribuzione e vendita che caratterizza, in Italia come nel mondo, l’editoria (a quando la polemica contro Amazon?). Chi ne soffre sono gli indipendenti e i piccoli. Questo è il panorama che si impone al visitatore, una macchina organizzativa che mobilita centinaia di uomini e donne e che alimenta un indotto economico che fattura milioni e milioni di euro.
Che l’antifascismo sia una discriminante non è qui messo in dubbio. Fa bene chi ne attualizza il valore. Il modo migliore per farlo vivere, rompendo la gabbia di una logora retorica dove è stato richiuso, è però fare i conti con quella concentrazione nelle mani di pochi editori della produzione di contenuti basata sulla svalorizzazione del lavoro culturale.
Questo articolo è stato pubblicato per il manifesto il 7 maggio 2019.