di CHIARA GIORGI.
Costituzioni precarie (Manifestolibri, 2016) di Adalgiso Amendola è un testo di grande ricchezza e densità: ci consegna una bussola critica attraverso la quale orientarci in questo momento inquietante ma non meno interessante, non solo illustrando i nodi fondamentali della attuale riforma costituzionale, ma facendo soprattutto luce sulla più generale crisi che viviamo (crisi del costituzionalismo, crisi della rappresentanza, crisi della mediazione dei grandi soggetti collettivi novecenteschi, crisi della democrazia, crisi del demos).
Al contempo questo testo ci fornisce indicazioni preziose su quali vie si possano percorrere nel quadro di un inedito terreno «costituente» che proprio oggi risulta «oggettivamente aperto dalla forza di rivendicazioni di uguaglianza e democrazia che non trovano nell’assetto costituzionale dato canali di espressione e articolazione istituzionale» (come osservato da ultimo da Caccia e Mezzadra).
Un terreno nel quale saranno la convergenza e il richiamo a mobilitazioni plurali e transnazionali, a quanto espresso da nuove soggettività eccedenti, alla sperimentazione di nuove istituzioni e di forme di organizzazione politica a consentirci di spiazzare gli attuali processi di «rivoluzione dall’alto», di verticalizzazione estrema, di unificazione del comando, di stabilizzazione del modo di produzione capitalistico. Per iniziare da «noi», da ciò che più ci riguarda da vicino, nell’immediato, Amendola offre un’analisi ad ampio raggio della riforma costituzionale (in combinato disposto con la legge elettorale), collocandola in un disegno complessivo, ossia in quel progetto che ridisegna gli equilibri costituzionali toccando in profondità la forma di governo, il sistema dei contrappesi, delle tutele e delle garanzie costituzionali, la stessa forma di Stato.
Ma c’è di più, come egli osserva, si tratta di un progetto che va ben oltre la manutenzione (peraltro trattando la Costituzione come una legge ordinaria) «per accettare la sfida di due crisi radicali: una doppia risposta, com’è stato detto, alla crisi di governabilità e alla crisi di rappresentanza, incentrata appunto sul rafforzamento deciso dei poteri del capo del governo, e, insieme, sulla riscrittura complessiva del sistema dei partiti e della rappresentanza». La «riforma Renzi-Boschi» è «il prodotto di una più generale «esecutivizzazione» (il termine è decisamente inelegante, ma descrittivamente preciso) degli assetti costituzionali, che è una tendenza di lunga durata degli ordinamenti costituzionali e dei sistemi politici». Essa nella chiave di lettura adottata da Amendola non solo registra quanto già avvenuto materialmente, nell’adeguamento dell’ordine formale al piano materiale delle esigenze del capitale finanziario a livello europeo, ma ancor più riannoda «costituzione materiale e costituzione formale, per ricomporre un assetto neoliberale incentrato sull’integrazione attraverso il controllo monetario». La riforma è dunque «una perfetta sintesi della (post)democrazia (neo)liberale»: quella che inneggia a Schmitt e insieme alla Banca Centrale. Essa è «la risposta (sbagliata) a una crisi (reale)».
Potremmo dire che per certi aspetti siamo di fronte a quanto osservava Gramsci al presentarsi della prima grande crisi del sistema capitalistico, allorquando analizzando tanto americanismo (il nuovo industrialismo americano), quanto fascismo affermava che si trattava di fenomeni analoghi connotati da impronta regressiva, non comportando entrambi alcuna evoluzione progressiva del sistema sociale. Gli elementi di razionalizzazione (e tecnicizzazione) da essi introdotti in contesti di crisi organica, così come di crisi del modello liberale ottocentesco, operavano nel quadro di un fenomeno politico-sociale assolutamente di carattere regressivo. La relativa razionalità e razionalizzazione del sistema (quella stessa oggi tanto sbandierata dai sostenitori della riforma), si inserivano in una logica volta a preservare l’essenziale del modo di produzione e del rapporto sociale capitalistico. Al di là delle differenze tra i due fenomeni, essi erano forme di stabilizzazione, tese a far trionfare la conservazione del blocco delle forze dominanti. Fascismo e americanismo erano dunque analoghe risposte difensive alla crisi, mirate a rafforzare una forma sociale priva oramai di potenzialità evolutiva. Non sembri troppo peregrino il rinvio alle considerazioni gramsciane, dinnanzi alla medesima ratio che informa analoghi tentativi.
L’analisi di Amendola è poi volta a condurre «un’indagine spietata della crisi del costituzionalismo, della quale questo nuovo riformismo costituzionale approfitta», quale risposta a una crisi profonda del costituzionalismo liberale classico. In tal senso è di quest’ultima che dobbiamo occuparci, che è poi crisi della rappresentanza (presupposto delle risposte date tramite l’adozione di leggi elettorali ipermaggioritarie). Quello a cui assistiamo infatti già da qualche tempo, è un più ampio processo di decostituzionalizzazione, nel quale si inserisce la stessa vicenda costituzionale italiana. Processo che secondo l’autore ha fondamento nell’«esaurirsi della mediazione costituzionale prodotta dalle costituzioni del Novecento». Processo che si configura non solo come il prodotto di un’azione dall’alto, ma è anche crisi prodotta «dal basso». Esso coinvolge «entrambi i lati della mediazione» costituzionale novecentesca: «sia quello normativo, della struttura e del funzionamento del sistema giuridico, sia quello dell’efficacia, delle trasformazioni radicali dei soggetti sociali sui quali quell’impianto era chiamato a «ingranare».
Questo processo di decostituzionalizzazione non è identificabile «come una semplice «rivoluzione dall’alto», semmai, «è il prodotto della crisi della grammatica costituzionale classica, sottoposta ad un duplice processo di trazione». Quello che deforma le costituzioni «dall’alto», per effetto della trasformazione transnazionale dei confini politici e dello spiazzamento dei centri nazionali e «sovrani» di decisione»; e che al tempo stesso le sottopone a una notevole trazione «dal basso», per le trasformazioni delle modalità produttive, dei soggetti sociali e politici protagonisti della mediazione classica, e, insieme, per l’irruzione di nuove soggettività» eccedenti le figure tradizionali del soggetto giuridico-politico moderno, sia individuale sia collettivo.
D’altronde il dato è complesso: se guardiamo, per esempio, al progetto di integrazione europea, emerge come costituzionalizzazione e decostituzionalizzazione si diano contestualmente. Se a essere stata costituzionalizzata è l’austerity (con l’inserimento dell’obbligo di pareggio di bilancio nelle costituzioni), a rischio di decostituzionalizzazione appaiono sfere fondamentali dell’«umano». In tal senso la riforma italiana non fa che registrare quanto avvenuto a livello della costituzione materiale europea, nella cosiddetta nuova costituzione finanziaria. L’analisi della crisi del costituzionalismo si accompagna inoltre a una chiave di interpretazione storica, quella che guida il lettore nel percorso delle varie mediazioni realizzatesi: quella liberale e quella novecentesca. Se della crisi della prima ci è oramai noto, rispetto alla seconda Amendola coglie nella eccedenza delle soggettività del lavoro vivo il fulcro fondamentale.
A essere entrata in gioco è infatti la prospettiva governamentale, ovvero la necessità di regolare le nuove soggettività eccentriche, tramite quei dispositivi della governance pronti a far presa su esse. Ma, in una «partita» di sfide reciproche e di co-implicazioni, proprio queste soggettività sperimentano resistenze e fughe, forme di autorganizzazione autonoma fuori dai parametri della vecchia cittadinanza nazionale. Si tratta di «soggettività precarie», di movimenti non riconducibili al perimetro della passata mediazione costituzionale novecentesca. Soggettività interessate piuttosto a rendere aperta la Costituzione stessa allo sviluppo di processi di auto-organizzazione, interessate a rendere aperta lo stesso processo di ri-costituzionalizzazione, sulla base «di un movimento di reale produzione di soggettività», di una dimensione comune e del comune.
Da tempo, il processo più generale al quale assistiamo è assai ambivalente, Giano bifronte avrebbe detto Benedict Anderson. Da un lato, una crisi generale investe sia l’assetto entro il quale si sono venuti a definire i parametri nazionali della cittadinanza, a fronte del disarticolarsi dello spazio giuridico dei moderni Stati-nazione; sia il concetto stesso di cittadinanza moderna, quale status omogeneo racchiuso in determinati confini territoriali, giuridico-politici – sempre più sfidati dalle migrazioni odierne; sia la configurazione del mercato del lavoro novecentesca; sia i processi di produzione giuridica, dinnanzi alla moltiplicazione dei luoghi in cui si producono atti normativi e dinnanzi a una deregolamentazione, alla privatizzazione cioè della produzione del diritto1; sia il ruolo dello stesso Stato, che infatti appare detronizzato, poroso, disaggregato, ma che nondimeno continua a esercitare un ruolo strategico nello scenario globale2.
Dall’altro lato, in positivo si rende evidente l’emergere di molteplici soggettività che avanzano richieste «eccedenti», incarnando nuove forme di agency politica. Si tratta di istanze che eccedono l’inclusione all’interno degli argini prestabiliti della democrazia, che travalicano le logiche dell’appartenenza tradizionale, messe così in profonda crisi «dal basso», e che, invece, sostanziandosi di «comportamenti di secessione ed exit» esprimono la volontà propria di queste diverse soggettività di essere direttamente artefici delle proprie vite e dei propri destini3.
Le pratiche che si delineano nei movimenti attuali, nelle varie esperienze dei conflitti in corso hanno dunque molto a che vedere con un ripensamento tanto delle forme della partecipazione ai processi costitutivi della cittadinanza, quanto delle stesse condizioni rispetto alle quali essa fonda i propri criteri di appartenenza (a partire da una configurazione nazionale); quanto di quella «antropologia politica« implicita nel suo moderno discorso. È in questo orizzonte che la stessa cittadinanza è divenuta un campo di perenne tensione, «un terreno di lotta» permanente, all’interno di un processo aperto e dinamico (nel quale sono le concrete pratiche sociali a porre in discussione e riplasmare i modelli istituzionali e politici dati)4. Qui sta l’efficacia dell’analisi di Amendola: cogliere le crepe, le sconnessioni, le fratture presenti nel panorama odierno, saper vedere cioè la forza del capitalismo neoliberale e al contempo cogliere sia i punti critici della sua egemonia, sia le istanze nuove emergenti in seno alle differenti soggettività, in ordine ai bisogni e alle potenzialità produttive a livello sociale. Le sfide insomma poste alla stessa governance e all’ordine neoliberale.
Leggendo questo libro torna alla mente la nota tesi luxemburghiana delle «due logiche contraddittorie», capace di cogliere il conflitto presente oggettivamente nella società tra due opposte tendenze. L’una tesa a mettere in moto spinte sempre più progressive, sociali, collettive, le quali si muovono sulla cosiddetta logica socializzante dello sviluppo delle forze produttive; l’altra intenta a resistere e a bloccare in senso conservatore lo sviluppo delle spinte socializzanti. È in questa complessità che occorre muoversi, nelle tensioni del presente: dentro e contro l’attuale ordine neoliberale, le cui basi si pongono come noto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, a partire da quella de-democratizzazione (per dirla con Wendy Brown), realizzatasi a seguito della autonomia conquistata dai maggiori centri di potere rispetto alla sfera politica5.
Sulla scia di quanto si registra al livello della cosiddetta logica socializzante in termini di produzione di soggettività, di nuove forme di lotta e di conflitto, di istanze di égaliberté e giustizia diffuse a livello planetario, di laboratori di nuova proliferazione istituzionale, capaci di valorizzare e di «agganciarsi» a quanto agito in comune. La lettura di Amendola è in questo senso quella gramsciana della crisi: la crisi anche come premessa di una transizione differibile ma non evitabile. Il contesto in cui siamo immersi è di una decomposizione dello «Stato nazional-sociale» (per dirla con l’efficace espressione coniata da Balibar), del compromesso raggiunto tra capitale e forza lavoro, è quello di un forte arresto «di ogni progetto di riqualificazione espansiva, a livello europeo, del Welfare state e della cittadinanza sociale»; così come è quello di un «momento di blocco rispetto alla «teleologia» implicita tanto nelle dottrine dell’«integrazione attraverso il diritto», quanto in quelle del «costituzionalismo multilivello». Tale decomposizione mette d’altronde in moto tanto la virulenza dell’attacco neoliberista al lavoro e ai lavoratori, quanto il «produttivo emergere di soggettività eccentriche le quali possono produrre assetti costituzionali nuovi».
In questa lettura del tempo presente nella duplice prospettiva evocata, quella che ha fatto parlare di tempi inquietanti ma anche interessanti6, si colloca la battaglia del «No oltre il No», ovvero la sfida che vuole avviare nuovi processi volti a reimmaginare «una forma costituzionale all’altezza delle nuove forme della produzione e della vita». Qui sta tutta la pars costruens del libro, la proposta di un «costituzionalismo critico» radicato nella materialità dei nuovi bisogni e nelle soggettività eccentriche che si muovono oltre il binomio lavoro salariato-stato nazionale, costitutivo della cittadinanza nazionale classica».
La pars costruens è quella che individua negli esperimenti democratici, nelle lotte legate ai beni comuni, alla cooperazione sociale, al reddito di base, al welfare (rinnovato), nelle citate pratiche delle soggettività eccentriche e nelle loro rinnovate istanze di égaliberté il terreno di una nuova politica all’altezza delle sfide che «la nuova ragione del mondo» ci mette davanti. Si tratta di immaginare la produzione di un nuovo spazio politico costituzionale europeo attraverso campagne mirate a reinventare la dimensione collettiva della decisione, a sperimentare spazi di autogoverno e di autonomia, a reinventare la relazione tra istituzioni e soggetti. È in questo spazio che gli stessi diritti fondamentali trovano nuova vitalità, collegati a soggetti plurali non identificabili con il classico «cittadino lavoratore (maschio, eterosessuale etc.)», soggetti assunti nelle loro irriducibili differenze e potenzialità, artefici delle proprie scelte di vita.
In fondo questo è il rivoluzionario, e sempre più imprescindibile, portato delle lotte e delle pratiche femministe, e ci chiediamo allora se in un inedito orizzonte di «costituzionalismo costituente» non valga la pena rimettere in moto la tensione propria del costituzionalismo democratico, intendendoci però su di esso. Il costituzionalismo democratico quale frutto di un processo storico concreto, che è giunto a maturazione nel momento in cui i principi enunciati nei documenti scritti hanno trovato soggetti politici in grado di farli valere. Il costituzionalismo democratico quale movimento storico che irrompe in posizione dialettica con lo Stato, una dialettica permanente di opposti e quindi – prospettiva centrale anche nel libro – un costituzionalismo senza Stato.
Il costituzionalismo capace di esprimersi entro il fondamento materiale della «lotta per i diritti», quale esito e orizzonte – ideale e normativo – di conflitti incessanti agiti in nome delle comuni aspirazioni all’uguaglianza e alla libertà. Il costituzionalismo democratico espressione delle richieste di giustizia (ma anche di attuazione dei diritti fondamentali) globalmente crescenti; capace di porre limiti alla sovranità del mercato, di mirare a un cambiamento dei rapporti materiali della società, nutrito di istanze materiali e culturali, «incarnato» da soggetti reali, radicato in battaglie concrete7.
Infine, nell’indicazione ad andare oltre la mera difesa, l’operazione messa in campo da Amendola è quella genealogica, sulla scia di Luciano Ferrari Bravo. Ma forse il discorso sulle genealogie risulta vincente e prezioso in termini ancor più complessivi, nella scelta di genealogie «altre», capaci tanto di individuare le tensioni del presente, quanto di essere all’altezza di una inedita stagione di conflitti.
Questo articolo è stato pubblicato anche su OperaViva Magazine
S. Rodotà, Soggetto astratto e soggetto reale, in Id., a cura di, Diritto e culture della politica, Carocci, 2004, p. 152. ↩
B. Neilson, S. Mezzadra, The State of Capitalist Globalization, in «Viewpoint Magazine», 2014. ↩
S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, Globalizzazione, ombre corte, 2001, p. 77. ↩
Ivi, p. 9 e p. 24. ↩
Sulla centralità degli Ottanta rispetto nondimeno alla riorganizzazione del capitale, alla finanziarizzazione «onnivora» attuale si rinvia da ultimo a S. Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, il Mulino 2015. ↩
L. Bazzicalupo, Crisi della democrazia, Mimesis, 2014. ↩
G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Laterza, 2013; Id., Contro il revisionismo costituzionale. Tornare ai fondamentali, Laterza, 2016. ↩