di GIROLAMO DE MICHELE.

Il dibattito pubblico sul CoViD19 sta producendo, accanto ad analisi cogenti e utili – talvolta indispensabili (alle quali devono molto queste righe: in particolare, Donatella Di Cesare, Wu Ming e Roberto Ciccarelli) – qualche momento di franco imbarazzo. Passato il quale, emergono i limiti di certi approcci teorici che scricchiolavano sul piano teorico ieri, e mostrano il fiato corto oggi, nel rapportarsi alla realtà dei fatti. O meglio: nel mancare il Reale e fermarsi alla sua “realistica” rappresentazione. Come il pappagallo di McCulloch sembra un bravo economista perché gli è stato insegnato a ripetere “supply and demand“, così pare che ripetere “stato di eccezione” e “biopotere” sia bastante per connettere la teoria ai fatti.

Capita così che la puntina del grammofono torni a saltare sul vecchio vinile del secolo scorso, ripetendo che “per Benjamin lo stato di eccezione è la regola”, omettendo la prima parte della citazione: “la tradizione degli oppressi ci insegna che lo stato di eccezione in cui viviamo è la regola”. Al di là delle dispute filologiche (ma varrà la pena di ricordare che Benjamin non stava citando Schmitt, ma il libro su Marx di Karl Korsch), l’ottava tesi sul concetto di storia vuole ricordarci che lo stato di emergenza è la prassi quotidiana dal punto di vista di classe. Esemplifichiamolo con un caso di attualità. Per gli oppressi, proletari o poveri che li si voglia chiamare, la legge della domanda e dell’offerta, in quanto dispositivo che alloca le merci a chi è disposto a pagarne il prezzo più alto, è, non potendosi permettere questo prezzo, l’eccezione a una supposta regola che un dispositivo linguistico contribuisce a rappresentare come naturale. Capita così che un economista bocconiano affermi che

La neoclassica spiegazione dell’aumento del prezzo del vino d’annata rispetto al vino giovane come motivata dalle preferenze soggettive verso il vino piuttosto che verso il succo d’uva, sulla quale si poteva sorridere, mostra qui tutti i sui limiti: basterà ricordare che non viene presa in considerazione l’ipotesi che ci siano benestanti ansiosi in grado di accaparrarsi mascherine o Amuchina (che è anch’essa un dispositivo linguistico, oltreché un gel disinfettante, per il quale, come un capo d’abbigliamento griffato, fa premio l’effetto-logo) [per questa e altre critiche vedi Baffigi e Gabbuti, Speculatori, economisti e pappagalli]. Insomma, lo stato di emergenza è la condizione per la quale «i clienti non pagano quel che vogliono, ma quel che possono pagare», laddove «ci son tanti che non hanno quattrini sufficienti per comprare i beni di prima necessità» (Ernesto Rossi, lettera a Luigi Einaudi, 1942, citata da Baffigi e Gabbuti).

Lasciando al lettore il compito di rintracciare altri ambiti nei quali si concretizza un’emergenza quotidiana che viola una supposta regola naturale “equa e giusta”, faccio notare come al dispositivo concreti di allocazione dei beni corrisponda un simultaneo (come le due chele dell’astice che scattano all’unisono) dispositivo linguistico che non solo orienta il desiderio determinando le condizioni di “accountability” dell’oggetto (diceva Adam Smith che «A moral being is an accountable being»), ma orienta, regola, norma e governa le relazioni sociali. In questo senso Foucault poteva dire, chiudendo il suo corso del 1976, che uno dei fenomeni fondamentali della modernità è «la presa in carico della vita da parte del potere»: non solo come disciplinamento dei corpi, ma come una tecnologia del potere che

si rivolge alla molteplicità degli uomini […] in quanto costituisce […] una massa globale, investita da processi di insieme che sono specifici della vita, come la nascita, la morte, la produzione, la malattia.

Ma anche qui capita che Foucault venga citato – si potrà parlare di foucaultismo degli stenterelli? – come se esistesse un Foucault biopolitico distinto dal Foucault studioso degli enunciati e delle episteme. Come se lo stesso filosofo non avesse più volte affermato di avere, nelle tre fasi della sua ricerca – sapere, potere, soggettivazione, secondo la corretta tripartizione del corso che gli ha dedicato Gilles Deleuze nel 1985-86 – studiato lo stesso oggetto da tre diverse angolature. In questo modo, si finisce col credere che la società del controllo consista nel proliferare di telecamere. O negli attuali provvedimenti governativi “emergenziali”, che hanno più natura di enunciati linguistici che di tecniche di controllo.

La crisi epidemica in corso ci offre un’inedita prospettiva, una sorta di cannocchiale, per comprendere il fondamentale snodo del biopotere come connessione fra enunciati linguistici e processi di assoggettamento o soggettivazione. Spostando il fuoco dai provvedimenti alla loro tutto sommato placida e passiva accettazione, ci si potrebbe chiedere qual è il senso di questo desiderio di essere governati da un potere politico che ci dice cosa fare e non fare per il nostro bene. È il potere pastorale, certo; ma in effetti, su cosa fanno aggio in questo frangente gli enunciati dei decreti emergenziali? Sulla privatizzazione della malattia, sull’isolamento, sul prendersi cura di sé rimanendo immuni dal contatto con gli altri.

Sia chiaro: è probabile che questo sia mero buon senso – e, a scanso di equivoci: non c’è alcuna intenzione di negare la serietà e la pericolosità dell’epidemia in corso, al netto delle versioni catastrofistiche che, non per caso, ne vengono date. Quello che sto cercando di dire è che non è ovvio, né banale, che un enunciato “ragionevole” sia considerato tale: laddove è l’essere considerato tale che, in molti casi, lo rende ragionevole, con una petizione di principio che viola la logica, ma funziona – ovvero, è persuasiva e performativa.

Questa crisi avviene all’interno di quell’orizzonte contrassegnato dal realismo capitalista, nel quale ciò che viene rappresentato come reale appare l’unica possibile dal punto di vista politico, economico, ambientale, come per un decennio ha sostenuto Mark Fischer. Il realismo capitalista, nel quale vige la regola del There Is No Alternative (=TINA), è stato caratterizzato e al tempo stesso costruito da enunciati performativi come la privatizzazione del disagio (depressione e stress sono fatti individuali, non sociali); la solidarietà negativa (se posso cavarmela scaricando la colpa sull’altro, perché no?); l’estensione delle regole del mercato a ciò che mercato non è, cioè al settore pubblico (sanità, scuola, amministrazione). Attraverso gli enunciati del New Public Management e della Qualità Totale si è ridotto ogni valore qualitativo alle leggi del mercato: la qualità è solo una proprietà derivata della quantità.

Se l’apprendimento è un fatto individuale, perché investire in un sistema educativo (“pagato con le nostre tasse”) esteso? Dopo tutto, se il discente non apprende la colpa è sua (“è un somaro”), ovvero è colpa del docente incapace – il che legittima ulteriori tagli al sistema educativo in ragione delle valutazioni negative causate dai tagli alle risorse: ancora una petizione di principio dall’alto valore performativo.

Se la salute è un fatto privato e individuale, perché investire in un sistema sanitario pubblico (“pagato con le nostre tasse”), piuttosto che privatizzare in forme esplicite o implicite (attraverso il dispositivo delle convenzioni) e domiciliare la cura con l’attuazione del day hospital? Anche la malattia viene risignificata attraverso la categoria della colpa: se ti ammali, se stai male, se sei depresso, è colpa tua, del tuo stile di vita, dell’ambiente in cui vivi. E poco importa se stili di vita e ambienti sono determinati dallo stesso meccanismo di tagli-valutazione-tagli già visto: la società non esiste, esistono solo gli individui.

In questo modo, il potere di gestire le popolazioni si fonda sulla disponibilità degli individui ad adattarsi a un ambiente che viene progettato e realizzato affinché certi comportamenti diventino prevalenti; affinché si concretizzi l’enunciato di von Hayek, che diventa una sorta di profezia autoavverantesi: «ogni tentativo di spiegare i processi economici deve partire dal presupposto che […] per un soggetto economico esiste un solo comportamento possibile coerente con i suoi interessi». È per questo che la vera governance, nell’emergenza in corso, era già in atto, laddove quello che i governi, nella loro pochezza umana e intellettuale, possono fare sono solo enunciati con valore di legge coerenti alla governance preesistente.

Attenzione, però: quella lezione foucaultiana del 17 marzo 1976 concludeva non sulle tecnologie di “difesa della società”, ma ne prolungava l’analisi in una lettura del razzismo novecentesco come intreccio di enunciati e dispositivi nei quali si radica il biopotere moderno:

Il razzismo assicura la funzione della morte nell’economia del bio-potere, sulla base del principio che la morte degli altri equivale al rafforzamento biologico di sé stessi in quanto membri di una razza o di una popolazione, in quanto elementi all’interno di una pluralità unitaria e vivente.

L’ossessione paranoico-compulsiva che sia possibile identificare l’untore attraverso la sua provenienza (il suo xenos), che isolando la comunità sana dall’infezione esogena si potesse preservarne la purezza, che il virus si possa arrestare ai confini, fa il paio con il corrispondente atteggiamento di disprezzo verso il migrante che annega in mare, o si trova preso nella trappola della frontiera greco-turca:

L’idea che passa è quella che “l’altro” sia il portatore di contagio, che è quasi peggio dell’altro come nemico. Ma soprattutto passa l’idea della divisione dell’umanità in quelli che sono immunizzati, e che hanno il diritto di protezione chiedendola allo Stato, e quelli che sono “esposti”» [Donatella De Cesare, La democrazia immunitaria nel caleidoscopio del Coronavirus].

Però accade anche che il CoViD19 ci metta davanti ad alcune evidenze: che se invece di strepitare istericamente sulla chiusura delle frontiere quando – ora lo sappiamo con certezza – il virus era già in Italia (e non lo avevano portato i cinesi) si fossero per tempo rafforzati i presidi sanitari, partendo dalla constatazione che il virus non sarebbe rimasto confinato nella provincia di Hubei, è probabile che quello che è stato considerato un picco di polmoniti da influenza stagionale sarebbe stato riconosciuto nella sua vera natura. Se fossero stati predisposti, come in Cina, adeguati ricambi al personale medico, evitando turni stressanti che sono la norma e che hanno offuscato la capacità di riconoscere l’improbabile dietro il consueto; se i primi pazienti fossero stati, oltreché identificati, ricoverati in ambienti idonei; il virus non avrebbe avuto una diffusione epidemica. Così come se negli anni passati la scuola non fosse stata privata di personale e risorse, se si fosse predisposto un piano di aggiornamento e ammodernamento per tutto il sistema-istruzione, oggi le scuole non si troverebbero nella paradossale situazione di essere al tempo stesso presidi indispensabili di un’istruzione da attuare a distanza, e di essere priva di strutture per questa didattica a distanza – salvo rivolgersi a piattaforme digitali private, col rischio di compiere un ulteriore passo verso la privatizzazione dell’istruzione [su questo vedi il testo di Ca_Gi su Giap].

In sintesi: la diffusione epidemica del virus è il frutto, anche, di scelte dettate dalle norme del realismo capitalista; e avrebbe potuto avere un corso differente – con buona pace di von Hayek e dei suoi epigoni del TINA – con una diversa e opposta strategia orientata alla violazione dei criteri della Qualità Totale. E questo è sotto gli occhi di tutti, e detta immediate indicazioni politiche e programmatiche.

Ma al tempo stesso, è necessario riconoscere nella governance attuale quelle pratiche di solidarietà negativa, privatizzazione del disagio, assoggettamento pastorale, e operare in direzione della loro sovversione: le indicazioni che vengono dal movimento Non Una Di Meno, le necessarie scelte rispetto alle navi di soccorso dei migranti sono dirimenti. Il paradosso della quarantena dei migranti salvati dalla Sea Watch e sbarcati lo scorso 27 febbraio, raccontato da Giovanna Procacci parla da solo:

Il 27 febbraio i naufraghi sono fatti sbarcare e messi in quarantena a terra. Bene, i volontari di Sea Watch avevano dovuto spiegare ai naufraghi che sarebbero stati messi in quarantena. Ma loro hanno equivocato, perché erano preoccupati all’idea di sbarcare in Italia con l’epidemia di Coronavirus in corso, e hanno pensato che li si volesse così proteggere dal rischio d’infezione… Solo dopo hanno capito che li si metteva in quarantena perché si sospettava che il virus lo portassero loro!

Scrive Giovanna Procacci: «Abbiamo passato tanto tempo, e con tanto furore, a pensare in termini di “noi e gli altri”: l’altro come tutto ciò che non siamo noi, chi è diverso, chi viene da fuori, prima noi e poi gli altri. E poi tutt’a un tratto ci tocca riconoscere che l’altro siamo noi»: se, come dice l’etimo di Krisis, la crisi è al tempo stesso ciò che la malattia che ci coglie e il processo di guarigione che si innesca, da questa crisi c’è qualcosa da imparare. Dopo tutto, non è vero che si è destinati a morire come si è nati: muore quadrato solo chi ha deciso di rimanere tondo.

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