Intervista di MARIA ROSARIA MARELLA a ILENIA IENGO
Ilenia Iengo è attivista dell’assemblea Non una di meno Napoli e dottoranda in Ecologia politica femminista presso il Barcelona Laboratory for Urban Environmental Justice and Sustainability dell’ICTA-UAB nell’ambito del progetto WEGO-ITN. Co-coordinatrice del progetto su storytelling di giustizia ambientale Toxic Bios presso l’Environmental Humanities Lab al Politecnico di Stoccolma, la sua ricerca e le sue attività si muovono su terreni di coalizione tra movimenti trans-femministi e per la giustizia ambientale come politica incarnata e prefigurativa. Con il laboratorio “Ecologie politiche del presente” è co-curatrice e autrice di Trame. Pratiche e saperi per un’ecologia politica situata, Tamu Edizioni. Ho conosciuto la ricerca di Ilenia nella primavera 2021, e l’ho incontrata un seminario con le e gli studenti della clinica legale ”Salute, ambiente e territorio” che coordino presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia. L’abbiamo intervistata, e la discussione che vi proponiamo ci sembra molto utile per pensare i nodi tra militanza femminista, ecologia politica, politiche della salute e rivendicazioni per un nuovo welfare.
- Una delle ragioni forti della tua militanza femminista mi pare sia la patologia di cui soffri, l’endometriosi. È così? Qual è esattamente il significato politico dell’endometriosi nella tua esperienza personale e nella tua analisi femminista?
Sebbene l’endometriosi abbia inviato segnali da quando avevo dieci anni, non sono riuscita a decifrarne il significato e a riconoscere la mia esperienza di malattia come politica finché non ho imparato il linguaggio e le pratiche della giustizia ambientale e del transfemminismo.
Dall’inizio dei sintomi, mi ci sono voluti ventidue anni per arrivare alla diagnosi di endometriosi. La distribuzione spaziale del dolore si è diffusa ed estesa nel tempo, arrivando ad occupare quasi tutti i terreni da quello psicologico a quello muscolare. Per due decenni non ho mai saputo che il dolore che provavo non fosse normale, accampata in una condizione di vulnerabilità, cronicità, invisibilità, parole che non avevo ancora imparato a politicizzare. Nel mentre ho iniziato a studiare nell’ambito dell’ecologia politica e mi sono avvicinata a Stop Biocidio il coordinamento di comitati per la giustizia ambientale in Campania. Il dolore accumulato ha funzionato da istigatore per cercare una comunità transfemminista, di persone con endometriosi e attivist* per la giustizia ambientale con cui crescere e lottare. L’infiammazione cronica è politicamente rilevante in questo percorso perché rivela la produzione di corpi e territori sacrificabili. Il dolore cronico ha acceso il bisogno e il desiderio di sopravvivere e smantellare le condizioni stesse su cui la violenza ambientale e patriarcale si riproduce.
Mi chiedo spesso cosa ne sarebbe di questa esperienza se non avessi avuto le lenti del femminismo per riconoscere che non c’era nulla di normale o accettabile nell’essere sminuita quando arrivavo al pronto soccorso incapace di muovermi o parlare per i dolori, nelle proposte da parte dei medici di gravidanze miracolose che mi avrebbero curata da qualsiasi male oppure nel ritardo diagnostico di circa 22 anni. Nel 2018 infatti ricevo la diagnosi di endometriosi a causa di un endometrioma, una cisti endometriosica all’ovaio ed il ginecologo con tono complice guarda il mio compagno e gli dice: “vi consiglio di tornare a casa e darci dentro”. La diagnosi è uno strumento fondamentale nel percorso della malattia cronica, e spesso è legato a sentimenti contrastanti di validazione e di sconforto al contempo. Eppure, questo strumento “oggettivo” della scienza biomedica fa parte di un campo di sapere che il femminismo ci ha insegnato non essere neutrale. Lo stesso standard scientifico che definisce la validità di un assunto o teoria ha storicamente segnato i corpi femminili e femminilizzati con repressione e violenza. Da Ippocrate e per tutta l’età moderna la medicina includeva nella fantomatica categoria dell’utero vagante qualsiasi malessere affliggesse le donne. Lungo quella stessa genealogia di sapere, le diagnosi di isteria si sono abbattute sui corpi delle donne e dei corpi femminilizzati fino alla loro incarcerazione, medicalizzazione e morte.
Mi sono formata politicamente nel movimento per la giustizia ambientale in Campania dove la salute dei corpi era al centro delle contestazioni alla gestione dell’emergenza rifiuti e al fenomeno della terra dei fuochi. Ho lavorato al progetto di ricerca Toxic Bios[i] che raccoglie autobiografie di attivist* che lottano contro l’ingiustizia ambientale e così ho conosciuto la storia del comitato Lider di donne tarantine con endometriosi che si battono per il riconoscimento dell’endometriosi come malattia ambientale. C’è una storia composita di lotte per la giustizia sociale ed ambientale animata principalmente da donne nere, latine, indigene e proletarie che hanno messo al centro la politicizzazione dei corpi, strettamente connessa al riconoscimento che le condizioni di salute di una comunità hanno molto più a che fare con l’accumularsi di oppressioni e tossine e quindi di una violenza istituzionalizzata, che con una colpa o incapacità personale. Come propone Eli Clare, attivista e autor* queer nell’ambito della disability justice, ragionare di salute ha a che fare non solo con le biotecnologie e la scienza medica, ma richiede anche lo smantellamento del razzismo, della povertà dell’ingiustizia ambientale e del sessismo.[ii]
La prima volta che ho letto di endometriosi era in un articolo scientifico durante i miei studi di ecologia politica. L’autrice e mia supervisor Giovanna Di Chiro, studiosa di giustizia ambientale ed ecologia politica femminista, racconta della lotta del comitato Asian Communities for Reproductive Justice (ACRJ), in alleanza con la rete Coalition for Healthy Communities and Environmental Justice della Bay Area a San Francisco, per la chiusura del più grande inceneritore di rifiuti sanitari nello stato della California.[iii] Emettendo composti cancerogeni come diossine e mercurio, sottoprodotti altamente tossici dell’incenerimento dei rifiuti solidi, l’inceneritore esponeva la comunità locale a rischi per la salute e la lista di patologie ad esso collegate erano cancro ovarico, cancro al seno, irregolarità endocrine, endometriosi e tante altre. Così la malattia ha fatto irruzione nella mia pratica politica e di studiosa ecotransfemminista, che mi tiene lontano dall’affrontarla come un fatto privato.
Il femminismo è un percorso che non termina, sarebbe un errore pensare di poter raggiungere un punto di arrivo. Negli ultimi anni, insieme alle comunità politiche di cui faccio parte ci siamo interrogat* sui temi della malattia, dei corpi, della salute. Ad oggi, credo sia importante chiederci: quando il corpo che si ammala è quello di chi ha il carico della riproduzione, cosa accade? Un cortocircuito è la metafora più calzante, perché l’intero sistema relazionale, sociale, economico su cui si fonda la società patriarcale è il lavoro, che sia pagato, sottopagato, non retribuito e non riconosciuto, delle donne e delle soggettività femminilizzate. Se la malattia mi tiene a letto, incapace di far molto, chi si prenderà cura di me, come posso immaginare un futuro? Sono le domande che mi tengono sveglia di notte, quando i dolori non sono poi così acuti e c’è spazio almeno per pensieri pesanti. E allora c’è ancora tanto che dobbiamo fare nelle nostre collettività politiche per riuscire a pensare e praticare alternative che si prendano in carico della vulnerabilità, della cura e dei desideri dei nostri corpi-menti non conformi. Uso il termine corpi-menti come proposto da Sami Schalk nel suo lavoro Bodyminds Reimagined nell’ambito della letteratura e attivismo black feminist e crip, per indagare il contesto in cui si riproducono le oppressioni di genere, razza, classe e disabilità nei corpi e nella psiche.[iv]
2. Ascoltandoti parlare con delle studenti della tua esperienza, mi ha molto colpita la simmetria che descrivi fra il tuo corpo ferito e le ferite inferte nel corpo vivo della terra dall’inquinamento, in particolare dai rifiuti tossici seppelliti nella Terra dei Fuochi. Puoi spiegarci quale il nesso e quale il senso del legame fra il tuo corpo e la tua terra?
Parlando della pervasiva esposizione alla contaminazione ambientale nella società capitalista, la studiosa di tecnoscienza femminista Michelle Murphy evidenzia come i corpi siano materialmente e metabolicamente parte di legami collettivi che lei definisce di “porosità all’esposizione” profondamente ineguali.[v] In Italia già negli anni Settanta, Laura Conti, antesignana dell’ecologia politica, aveva condannato il profitto accumulato sulla base della manipolazione e distruzione della vita.[vi] La storia socio-ecologica della Campania negli ultimi trent’anni è stata plasmata dallo scarico, dall’interramento e combustione di rifiuti industriali e pericolosi, che insieme ad un regime di emergenza ambientale pluridecennale e alle politiche neoliberiste di definanziamento della sanità pubblica e dei servizi di welfare ha reso la regione una zona di sacrificio dell’accumulazione capitalista.[vii] Durante la mia gestazione e crescita, sostanze tossiche come diossina e PCB hanno inzuppato il territorio e attraversato il confine poroso tra il dentro e il fuori, stratificandosi nel mio corpo, eruttando in anni di dolore cronico e ricoveri. Il paesaggio interiore di lesioni endometriosiche, cisti e aderenze che hanno avvolto le mie viscere è rimasto invisibile per molto tempo. Come introducevo già prima, l’infiammazione è stata il filo rosso che mi ha sbattuto in faccia quanto il mio corpo e il mio territorio siano strettamente legati, complici tutti i saperi che deviano dallo sguardo occidentale che distanzia l’umano dal resto del mondo materiale e del vivente. Sono diventata più consapevole della natura relazionale tra il mio corpo e il mio territorio nell’incontro con pensatrici ed attiviste indigen*, decoloniali, e ai femminismi comunitari e territoriali. Questi femminismi insistono sull’inseparabilità tra corpo e territorio come luoghi politici su cui si abbattono molteplici oppressioni e da cui prefigurare percorsi di liberazione ed autodeterminazione.[viii] La mia è una proposta per una politica incarnata del corpo-territorio infiammato che apre lo spazio all’articolazione di un transfemminismo ecologista che non respinge né accetta silenziosamente le ingiustizie ambientali causate dal capitalismo estrattivista e che al contempo trami ecologie di pratiche per la r-esistenza collettiva mettendo al centro i corpi-menti di chi è al magine. In terra dei fuochi, questa politica per me implica riconoscere l’attacco sistematico alla riproduzione e all’autodeterminazione delle nostre vite, al di là delle narrazioni individualizzanti, medicalizzanti e neoliberiste su salute e malattia.
Ogni volta che respiriamo, beviamo, mangiamo e sudiamo l’ambiente circostante ci entra dentro così come siamo noi in esso, la nostra salute è legata alla salute del territorio e all’accesso che potremmo o meno avere a un’assistenza sanitaria dignitosa, alla classe sociale, al colore della pelle, al genere assegnato alla nascita. Contrassegnati da classe, razza, genere, abilità ed orientamento sessuale, i corpi sono influenzati da sistemi di oppressione ed esposizione che si intrecciano e si rafforzano a vicenda. Esiste una vasta letteratura nell’ambito della giustizia ambientale, l’ecologia politica e le scienze umane ambientali che racconta delle molteplici esperienze in cui i saperi situati, come li chiama Donna Haraway,[ix] delle comunità affette da contaminazione ambientale insieme a studi epidemiologici e la tossicologia hanno prodotto quella che Jason Corburn[x] definisce scienza di strada per dimostrare il danno arrecato e fare pressione sulla valutazione e gestione della salute pubblica ed ambientale.
Una doppia violenza che subiamo è quella di essere prima considerati territori e comunità sacrificabili per il profitto ed il benessere altrui, pertanto ci ammaliamo riflettendo la scarsa salute dei nostri quartieri e delle nostre città. Ci ammaliamo e al contrario della narrazione dominante non è colpa nostra, degli stili di vita o dell’importanza data più alla carriera che al fare figli come è stato detto a me. Quando ci ammaliamo siamo ancora più sotto il giogo della violenza di un sistema per cui se non siamo produttiv* non valiamo nulla, non siamo soggetti degni di diritti, siamo scartat* ad ogni giro della vita. Il movimento della disability justice ribalta la narrazione: le persone disabili, con malattie croniche e mentali invalidanti prendono parola e fanno quel lavoro fondamentale di costruzione di immaginari per smantellare l’abilismo insito finanche nella prefigurazione di futuri radicali, dove spesso non sono contemplati i corpi-menti disabili.[xi]
In linea con questa pratica, è fondamentale che le persone disabili e malate croniche prendano parola nelle battaglie ecologiste e transfemministe per ampliare la voce di chi difende la terra e il vivente, perché sappiamo quanto sia importante liberare il lavoro di cura dalla femminilizzazione, perché in un mondo che scarta la differenza noi abbiamo la possibilità di affermare cosa intendiamo per salute e reciprocità, per rendere gli spazi della militanza e delle lotte più inclusivi per tutt*. Questa è la sfida contro un mondo che ci vuole solo vittime passive, silenti e mai desideranti.
3. L’endometriosi è spesso descritta come malattia di donne bianche, middle class, del Nord globale. Tu al contrario affermi che ne soffrono anche donne migranti[II1] , ma che tutto questo è semplicemente ignorato dalla medicina ufficiale … Ritieni che sia possibile un’analisi intersezionale del problema? A quali conclusioni può portarci?
Nel libro The Makings of a Modern Epidemics: Endometriosis, Gender and Politics, l’autrice Kate Seear, dedica un intero capitolo alla storia di come la scienza biomedica abbia storicamente definito un prototipo di persona affetta da endometriosi con complesse conseguenze per i soggetti individuati e quelli invisibilizzati.[xii] L’endometriosi è stata per decenni definita la malattia della donna in carriera. In questa definizione si manifesta la costruzione di una medicina patriarcale, classista e razzista. Negli anni Trenta del ventesimo secolo, il medico Joe Vincent Meigs preoccupato per il calo di nascite nelle comunità abbienti e bianche degli Stati Uniti, definisce l’endometriosi conseguenza di mestruazioni prolungate e senza interruzioni. Facendo un parallelo con le femmine dei primati le cui mestruazioni sono un fatto raro tra una gravidanza e l’altra, il medico propone le molteplici e precoci gravidanze come naturale condizione della salute femminile. Inoltre, Meigs ha speso molte energie nel consigliare ai medici di incoraggiare le proprie pazienti di classe agiata a riprodursi, per superare la crescita demografica delle classi subalterne. Ad oggi, non è comune ascoltare argomenti di questo tipo, seppur resta uguale il modo in cui vengono definite la “tipologia di paziente” e le soluzioni da offrire. Un’analisi intersezionale ci permette di svelare come si è imposta la supposizione che la malattia colpisse le donne bianche di classe borghese che antepongono la propria carriera al mettere su famiglia, obliterando e tenendo completamente fuori dalle statistiche donne proletarie, razzializzate, soggetività LGBTQIA+. Occorrono in media 7,5 anni per ricevere una diagnosi. Per le persone nere, razzializzate ed LGBTQIA+ questo tempo si moltiplica a dismisura. Queste soggettività incontrano maggiori difficoltà nell’accesso alle già risicate ed inaccessibili cure, subendo nel mentre più violenza medica nei reparti “femminili”. Questa discriminazione è il risultato di un modello biomedico occidentale che ha espropriato le donne, LGBTQIA+, indigene, razzializzate e le soggettività femminilizzate dei saperi e dei linguaggi per dare voce al nostro dolore, ai nostri saperi.
Nell’attivismo di persone malate croniche e disabili il tema dei dati è fondamentale: dove non ci sono informazioni bisogna raccoglierle attraverso inchieste ed analizzarle da una prospettiva intersezionale per riempire quei vuoti di sapere dove si annidano oppressioni ed ingiustizie. Ampliare la narrazione dell’endometriosi ci permette di esplorare insieme e impegnarsi in processi che aiutano a recuperare la dignità e superare le narrazioni di sacrificabilità per le nostre comunità. Dobbiamo continuare ad esporre come abilità, genere, sessualità, razza, classe, nazionalità influenzano le nostre esperienze di violenza biomedica, economica ed ambientale, e da lì ragionare sulle pratiche, tecnologie e immaginari emancipatori che possiamo mettere in campo. Queste esperienze non consentono una lineare ed universale definizione prescrittiva dei nostri percorsi politici, che al contrario devono tener dentro la complessità e molteplicità dei vissuti e dei desideri.
4. A proposito dello sguardo medico sull’endometriosi, hai riscontrato carenze nel SSN? E nel sistema italiano di welfare in generale? Ritieni che lo sguardo medico sia ancora in prevalenza uno sguardo maschile? Vedi un rapporto fra questo e la distribuzione della spesa pubblica in campo sanitario?
Sicuramente la medicina continua ad essere un campo non neutrale e credo di poter fare riferimento ad almeno due ambiti nella scienza dell’endometriosi. L’esperienza comune per chi soffre di malattie croniche è apprendere con e attraverso il proprio corpo lo sguardo meccanicistico ed oggettivizzante dell’esperto che detiene il privilegio di classificare e intervenire sui corpi.
Le statistiche sostengono che una persona AFAB (Assigned female at birth, a cui è stato assegnato il genere femminile alla nascita) su 10, o forse 9, abbia l’endometriosi. In Italia, non esiste un vero censimento delle persone affette e quindi sulla base di statistiche mondiali si stimano circa 3 milioni di persone con endometriosi. Eppure l’accesso universale a cure dignitose e di qualità è compromessa da molteplici fattori. Prima di tutto è una malattia multifattoriale e complessa eppure il SSN non aggiorna la definizione della patologia, mantenendo l’assunto che si tratti di una patologia riproduttiva, dovuta alla presenza di endometrio al di fuori della cavità uterina. Questa definizione è figlia di uno studio di inizio del XX secolo, che è stato messo in discussione dalla ricerca più aggiornata: le mestruazioni retrograde interessano il 90% delle persone che mestruano eppure di queste non tutte hanno l’endometriosi. Nello specifico, gli impianti di endometriosi sono istologicamente diversi dall’endometrio, e producono i propri estrogeni indipendentemente dalla fase del ciclo mestruale. La teoria delle mestruazioni retrograde non tiene conto degli impianti di endometriosi extrapelvica come quella diaframmatica, polmonare, muscolo-scheletrica. Infine, non ci aiuta a spiegare la presenza di endometriosi in feti e persone che non hanno ancora mestruato o non mestruano più. Continuare ad insistere in una errata definizione dell’endometriosi fa sì che la risposta del SSN continui a fondarsi su un approccio farmacologico in base al quale se si interrompe la mestruazione si fermerà il progredire della patologia, mentre in realtà risulta spesso in un mascheramento dei sintomi che tornano uguali o più violenti dopo l’interruzione dell’assunzione. Inoltre, il SSN fa ancora riferimento alla stadiazione della malattia per il suo riconoscimento da parte dell’INPS, seppur questa non sia correlata in alcun modo agli effetti dei sintomi sulla qualità della vita e non includa in alcun modo l’endometriosi extrapelvica che non è affatto rara. Inoltre, una parte d* pochissim* professionist* specializzat* in endometriosi in Italia lavora nell’ambito privato, creando divisioni tra chi può o meno permettersi costi esorbitanti e viaggi lunghissimi per curarsi. Un altro tema che non è affrontato pubblicamente è quello delle tipologie di chirurgia e della differenza tra ablazione ed escissione. La diagnosi può avvenire solo dopo aver affrontato la chirurgia di escissione, di cui non si parla abbastanza, in contrapposizione a quella di ablazione che provoca danni su tessuti già compromessi e non permette la selezione di tessuti per l’esame istologico. Spesso tra le persone con endometriosi e i medici che fanno divulgazione si fa un generale e poco chiaro riferimento alla tecnica laparoscopica, lasciando tantissime persone con endometriosi nella condizione di dover valutare questi aspetti fondamentali del percorso chirurgico da sé. Non per ultimo, il riconoscimento del III e IV stadio della patologia nei LEA spesso non risulta in uno sgravio economico per chi ha l’endometriosi, che alle ecografie con esenzione non vi accede sia perché le visite specialistiche avvengono in regime privato o a causa dello smantellamento della sanità pubblica e dei deficit delle aziende sanitarie regionali.
Per quanto riguarda la questione della esposizione a contaminazione ambientale, ho spesso detto che non intendo assumermi la responsabilità di provare l’evidenza in termini scientifici moderni, raramente a carico di chi inquina e chi fa profitto. La ricerca di una spiegazione causa-effetto nella letteratura biomedica tra contaminazione ambientale ed effetti sulla salute ha implicazioni politiche per la consapevolezza e la possibilità di costruire rivendicazioni. Specialmente, quando si accoppia con i discorsi dominanti che descrivono la salute pubblica e le preoccupazioni ecologiche come problemi puramente personali. Le diossine entrano in relazione con una complessità di aspetti come le ecologie dei corpi e la loro razza, classe, genere che sconvolge l’approccio di laboratorio nello studio della contaminazione. Spesso, i movimenti di base contro la devastazione ecologica usano moltissime energie alla ricerca di del cosiddetto nesso di causalità tra l’impatto di una specifica fonte di contaminazione sugli organismi viventi, mentre le risposte istituzionali beneficiano dei regimi di radicale incertezza che circondano la produzione scientifica nel campo delle conseguenze delle nocività ambientali sulla salute.
Per quanto riguarda il tema della contaminazione ambientale e l’endometriosi, il contesto di radicale incertezza nelle scienze biomediche ha fornito e offre ancora spazio per mettere raramente in discussione gli effetti cumulativi, intergenerazionali, persistenti e sinergici dell’esposizione ambientale. Le prove sono spesso contraddittorie e i regimi di rigore scientifico non rispettano il principio di precauzione. La violenza ambientale legata alla contaminazione è lenta e si verifica spesso lungo periodi di tempo estesi. La dimostrazione del danno arrecato dall’esposizione risulta quindi molto complicato se non irraggiungibile. Nel 1993, un gruppo di ricerca ha avanzato per la prima volta l’ipotesi che l’eziologia dell’endometriosi possa essere collegata all’esposizione ad inquinanti ambientali interferendo ed alterando il sistema endocrino.[xiii] Lo studio tutt’altro che innocente ha sottoposto 24 scimmie selvatiche all’esposizione alla diossina per diversi anni. Alcune di quelle morirono per le conseguenze, altre subirono interventi chirurgici per la diagnosi di endometriosi. Ad oggi, esiste un corpo di letteratura scientifica che affronta l’impatto negativo dell’esposizione a diossine, PCB e pesticidi nella patogenesi dell’endometriosi che non arriva alla scrivania del medico, tantomeno al grande pubblico. Quindi una domanda che tengo come bussola della mia esplorazione ecotransfemminista è: come si materializzano storicamente le retoriche di genere, di classe, razzializzanti e sessualizzanti nella scienza dell’endometriosi, mentre sono messi a tacere gli aspetti ecologici?
5. C’è qualcosa di ‘buono’ nella tua esperienza esistenziale di malata cronica? Hai potuto costruire una rete di solidarietà, sperimentato nuove alleanze nella malattia?
Non ho interesse a raccontare una storia di solo dolore ma tantomeno raccontare quanto sia d’ispirazione per i corpi abili la vita delle persone malate o disabili quando riescono a “superare” i limiti imposti dalla malattia. Credo sia però fondamentale raccontare la potenza delle collettività politiche. Le reti di mutuo aiuto tra spoonies sono state fondamentali per il mio percorso di consapevolezza, studio e miglioramento della sintomatologia. In Italia non è ancora così famoso il concetto di spoonie, ma si riferisce alla theory of spoons (teoria dei cucchiai) che viene utilizzata nel mondo delle persone malate croniche e disabili come metafora e rappresentazione visuale della quantità giornaliera di energie fisiche e mentali che sono indispensabili per svolgere varie attività. La teoria, proposta da Christine Miserandino[xiv] affetta da lupus, permette di visualizzare semplicemente come ogni persona disabile o malata cronica abbia un numero limitato di cucchiai al giorno per affrontare vari compiti tra cui fare la doccia, cucinare, uscire di casa, partecipare ad una manifestazione, lavorare.
Ho iniziato questo percorso di ricerca di una comunità affine nel 2017 quando i miei sintomi sono peggiorati così tanto da lasciarmi per intere settimane o mesi bloccata in casa o a letto. In contesto anglofono ho trovato persone che raccontavano la propria storia di dolore non riconosciuto dal personale medico, di consigli per la gestione dei sintomi. Lì dove i professionisti avevano fallito nel compito di riconoscere cosa non andasse, c’erano tantissime persone che in base alla pratica femminista del “sorella io ti credo”, non solo validavano la tua condizione ma erano piene di rabbia per come il sistema medico tratta le persone malate e al contempo offrivano empatia e supporto a chi faceva i primi passi nella comunità. Grazie a queste reti online ho avuto accesso ad archivi di materiali per studiare a fondo la complessità della malattia e ho potuto iniziare un percorso di coscientizzazione rispetto alle possibili opzioni terapeutiche, contro i falsi miti da sfatare, e i diritti che possiamo affermare come pazienti. Da qualche tempo anche in Italia ci sono dei progetti di divulgazione e mutuo aiuto tra persone affette da endometriosi con uno sguardo intersezionale, crip e transfemminista come info.endometriosi e chroniqueers, che consiglio di seguire e contattare.[xv]
Nell’autocoscienza femminista abbiamo imparato a riconoscere la violenza strutturale del sessismo e del patriarcato. Similmente, l’autocoscienza tra persone malate e disabili ci aiuta a mettere in luce l’abilismo che è alla base della società capitalista, produttivista e patriarcale, che noi stess* abbiamo metabolizzato e che ci impone lo standard della produttività. Nell’autunno del 2021, all’interno della rete transfemminista Non una di meno abbiamo iniziato a discutere di molteplici malattie “invisibili” che io preferisco definire invisibilizzate, perché seppur non lasciano per forza dei segni visibili sul corpo, se si prestasse attenzione alle nostre vite si scoprirebbe quanto evidente sia la nostra condizione. Sotto lo slogan “sensibile-invisible” culminato in un presidio di piazza il 23 Ottobre 2021 in circa 20 città italiane, abbiamo scoperchiato un vaso di pandora fatto del vissuto di persone con endometriosi ed adenomiosi, vulvodinia, fibromialgia e neuropatia del pudendo. Abbiamo organizzato assemblee online nazionali e a livello locale assemblee per la costruzione del presidio in piazza per amplificare le voci di chi convive con queste malattie poco o per nulla riconosciute dal sistema sanitario nazionale, che hanno dei costi spesso tutti a carico della persona malata. Abbiamo urlato che il dolore non è normale e che la medicina ha un forte stampo patriarcale, motivo per cui le patologie “femminili” riflettono tabù sociali e scontano ritardi diagnostici. Le testimonianze sono state tante e diverse, a Napoli abbiamo riempito la piazza con cartelloni dove abbiamo impresso le violenze mediche che abbiamo subito, i desideri che ci tengono in lotta e frasi di empoderamiento per cui la malattia non è un fatto tragico ma un’esperienza complessa e potente, spazio di elaborazione di saperi da collettivizzare.
È stato fortissimo portare nella propria collettività politica transfemminista il tema dei corpi malati, dei desideri e della rabbia che li infiamma. Il percorso per un femminismo e transfemminismo che riconoscano e lottino contro l’abilismo come una delle forme di oppressione del capitalismo suprematista bianco e coloniale è una battaglia dove nessun* è esclus* e dove i temi della cura reciproca, dell’antisessismo, dell’interdipendenza, dell’antirazzismo, del sex work, della giustizia ambientale e sociale possono produrre potentissime alleanze per smantellare la casa del padrone.
[i] Armiero, Marco et al. “Toxic Bios: Toxic Autobiographies. A Public Environmental
Humanities Project.” Environmental Justice 12, n. 1 (2019): 7-11. Per visualizzare il sito del progetto: www.toxicbios.eu
[ii] Clare, Eli. Brilliant Imperfection. Grappling with Cure. Durham and London: Duke University
Press, 2017.
[iii] Di Chiro, Giovanna. “Living Environmentalisms: Coalition Politics, Social Reproduction, and
Environmental Justice.” Environmental Politics 17, n. 2 (2008): 276-298.
[iv] Schalk, Sami. Bodyminds Reimagined. (Dis)ability, Race and Gender in Black Women’s Speculative Fiction. Durham and London: Duke University Press, 2018.
[v] Murphy, Michelle. “What Can’t a Body Do?”. Catalyst: Feminism, Theory, Technoscience 3,
n. 1 (2017): 1-15
[vi] Conti, Laura. Che cos’è l’ecologia. Capitale, lavoro, ambiente. Milano, Mazzotta, 1977.
[vii] Armiero, Marco. L’era degli scarti. Cronache dal wasteocene, la discarica globale. Torino: Einaudi.
[viii] Colectivo Miradas Críticas del Territorio desde el Feminismo. “Mapeando el cuerpo-territorio.
Guía metodológica para mujeres que defienden sus territorios”, 2017.
[ix] Haraway, Donna. “Situated Knowledges. The Science Question in Feminism and the Privilege
of Partial Perspective”. Feminist Studies 14, n.3 (1988): 575-599.
[x] Corburn, Jason. Street Science. Community Knowledge and Environmental Health Justice.
Cambridge: MIT, 2005.
[xi] Piepzna-Samarasinha, Leah Lakshmi. Care Work: Dreaming Disability Justice. Vancouver:
Arsenal Pulp Press, 2018.
[xii] Seear, Kate. The Makings of a Modern Epidemic: Endometriosis, Gender and Politics. Surrey
and Burlington: Ashgate Publishing, 2014.
[xiii] Rier S, Martin D, Bowman R, Dmowski P, Becker J. “Endometriosis in Rhesus Monkeys
(Macaca mulatta) Following Chronic Exposure to 2,3,7,8-tetrachlorodibenzo-p-dioxin.”
Fundam Appl Toxicol 21, n. 4 (1993): 433–441.
[xiv] Miserandino, Christine ”The Spoon Theory”: http://www.butyoudontlooksick.com/the_spoon_theory.
[xv] https://infoendometriosi.medium.com; http://chroniqueers.it.