di CARLO ROMAGNOLI.

1.   La produzione di profitto impatta la vita: la produzione di qualsivoglia merce modifica le condizioni ambientali in cui questa si sviluppa, mentre un numero crescente di merci  vengono prodotte in quanto caratterizzate da un valore d’uso peculiare, che consiste nel concretizzare modificazioni del vivente capaci di comportare vantaggi – per l’acquirente – rispetto alle forme preesistenti.  In ambedue i casi si determina un biopotere – ovvero una forza capace di modificare la vita sia nelle condizioni che la rendono possibile sia nelle forme biologiche e demografiche che essa assume – ed una biopolitica (Hardt e Negri, 2010), ovvero una serie di resistenze alle modificazioni delle condizioni in cui la vita si sviluppa ed alle modalità con cui il vivente viene costretto ad esistere.

Le modificazioni operate dal biopotere, soprattutto nel caso di merci consistenti in modificazioni del vivente, vengono sviluppate attraverso la messa  a valore di definiti portati delle ipotesi su cui si basano le scienze biologiche e di tecniche usate dalle stesse o prese in prestito da altre discipline (fisica, informatica, ecc.) operando in modo da ottenere il passaggio che, da costrutti scientifici complessi  conduce, attraverso processi riduzionistici, a far emergere applicazioni concretizzabili in qualcosa di proponibile per la vendita.

Al di fuori della retorica, ovviamente interessata, con cui vengono rappresentati dal biopotere, questi processi riduzionistici mostrano ogni giorno di più una pochezza sostanziale che sedimenta a livello moltitudinario estese narrazioni sulla inconsistenza progettuale di quanti hanno interessi materiali nello sviluppo del biocapitalismo, dando luogo a processi di soggettivazione che si amplificano a fronte dei limiti che la natura oppone ai tentativi di piegarla a logiche meccanicistiche, fino a generare piani di resistenza biopolitica su più livelli (personali, territoriali e globali).  Qui interessa mettere a fuoco il fatto che la torsione riduzionistica cui sono sottoposte le scienze biologiche fa emergere accanto e grazie alle resistenze della natura (che purtroppo sono rivolte contro gli uomini tout court) ed a quelle degli organismi e dei corpi violati per produrne valore (che si conquistano da soli spazi di sopravvivenza) saperi che consentono di conoscere meglio, proprio perché esenti dal riduzionismo, le condizioni in cui si sviluppa la vita, diventando così a loro volta strumenti di lotta biopolitica.

2.   Gli sviluppi recenti dell’epigenetica a fronte delle empasse della genomica esemplificano bene il processo sopra descritto e ne rendono opportuna una trattazione alla luce dell’importanza che essi assumono per le lotte biopolitiche nel biocapitalismo contemporaneo: se il progetto Genoma rappresenta un eccellente esempio di torsione riduzionistica dei saperi sulla vita funzionale alle turpi intenzioni dei biocapitalisti, i risultati emersi dalla conclusione di questo progetto sono a loro volta un eccellente esempio di eterogenesi dei fini. Enormi quantità di capitali erano state investite nello sviluppo delle ricerche volte a mappare il genoma umano, cioè a svelarne i contenuti informativi, sulla base dell’ipotesi che vi fosse una stretta relazione tra le informazioni contenute nei geni, la codifica di specifiche proteine cellulari e lo sviluppo di specifiche malattie. Se questo fosse stato vero sarebbe stato possibile, tra le tante applicazioni, sia mettere  a punto test diagnostici capaci di predire il rischio di malattia geneticamente determinato, che le relative terapie personalizzate; brevettando le conoscenze su questi meccanismi biologici si sarebbero potute produrre merci con un valore d’uso estremamente importante (conoscere e modificare le caratteristiche che portano il corpo di ognuno di noi a sviluppare malattie cronico degenerative come tumori, infarti, ecc) e un valore di scambio estremamente elevato, capace di garantire profitti giganteschi.

Quando nel gennaio 2010 Times riportava in copertina “Why your DNA isn’t your destiny” era del tutto evidente che le intenzioni di messa a valore del DNA umano da parte del biocapitalismo si erano scontrate con una realtà biologica molto diversa da quella desiderata dagli investitori: la specie umana (Rose H e Rose S, 2013) ha circa 22600 geni: lo stesso numero di quelli del moscerino della frutta (la Drosophila tanto nota ai genetisti), per il 50% uguali a quelli della   banana, per il 98,5% uguali a quelli dello scimpanzè e quindi con uno scarto troppo piccolo per spiegare su base genetica la differenza tra uomo e scimpanzè; troppi quando consideriamo i geni che a vario titolo concorrono a determinare le più comuni malattie ( es. cardiovascolari, neurodegenerative, tumori, ecc) dato che per ognuna il numero di quelli implicati oscilla intorno al centinaio, mentre il peso attribuibile ad ognuno di essi non supera valori di 1 – 2%.  Peraltro anche prima del progetto Genoma restavano senza risposta le osservazioni sul diverso destino cui andavano incontro i gemelli monocoriali, che pur avendo un patrimonio cromosomico identico, muoiono per malattie diverse e in età diverse, oppure il mutare del quadro epidemiologico tra la prima generazione di migranti, che soffre delle stesse malattie diffuse nei paesi di origine e le seconde e terze generazioni, che esprimono lo spettro di malattia presente nei paesi in cui sono  migrate. Tutte queste difficoltà della genetica a spiegare cosa determina la variabilità biologica tra individui hanno riportato alla ribalta l’epigenetica – cioè quella branca della biologia che, già affermatasi nella prima metà del novecento grazie ai contributi di Conrad Waddington e Joseph Needham e poi disarticolata anche dalle torsioni cui l’aveva sottoposta  Trofim Denisovic Lysenko – ha  continuato a studiare i meccanismi molecolari mediante i quali l’ambiente altera il grado di attività e di espressione dei geni senza tuttavia modificare l’informazione contenuta, ossia senza modificare le sequenze di DNA.   Allo stato attuale delle conoscenze sull’epigenetica quindi, il codice genetico rappresenta una sorta di vocabolario da cui, sulla base delle condizioni ambientali in cui si determinano i processi di sviluppo cellulare che portano dall’ovulo fecondato alla sua differenziazione in circa 200 tipologie di cellule diverse (che vanno così a costituire i diversi organi e tessuti del nostro corpo), vengono estratte le informazioni che porteranno ad avere un determinato individuo.  Quindi noi siamo quelli che siamo per effetto di una interazione tra l’informazione genetica che caratterizza la nostra specie e l’ambiente fisico, chimico e relazionale in cui ci sviluppiamo, con una grande importanza del periodo perinatale, ma anche dell’ambiente in cui si sono sviluppati i nostri genitori.  Tutto questo ha enormi implicazioni sul piano dei modelli interpretativi dello sviluppo delle malattie, su quello culturale e soprattutto su quello biopolitico.

3.   Il modello interpretativo delle malattie oggi prevalenti (tumori, malattie cardio e cerebrovascolari, ecc)  si arricchisce quando emerge (Schuga TT et all, 2011) che alcune sostanze chimiche che raggiungono i nostri organismi per effetti di esposizioni involontarie a inquinanti ambientali, ma anche per esposizioni volontarie (non va dimenticato il peso del fumo di sigaretta, alcool ed altre addiction) hanno la capacità di modificare i meccanismi epigenetici normali delle cellule (di norma innescati dagli ormoni) in quanto, mimandone gli effetti, sviluppano una funzione propriamente epigenotossica, danno luogo in caso di cellule somatiche, a malattie dei tessuti in sviluppo, mentre nel caso in cui la loro azione si esplichi in cellule riproduttive  si può avere la comparsa di patologie nei discendenti ( figura 1).

figura 1Figura 1) Sostanze chimiche possono sregolare la funzione endocrina (ECDs) e alterare la funzione epigenetica (Schuga TT et all, 2011)

 Le “malattie” di cui stiamo  parlando sono un gruppo molto ampio e diversificato  quanto ad organi e funzioni corporee interessate, mentre osservazioni su organismi che condividono con noi lo stesso sistema endocrino (vertebrati) dopo esposizione a interferenti endocrini evidenziano alterazioni legate al “normale” rapporto maschi femmine alla nascita (sex ratio) e ad alterazioni dei sistemi endocrini, fornendo finalmente un modello interpretativo per alcuni fenomeni che riguardano la salute riproduttiva della donna e dell’uomo (come l’abbassamento dell’età del menarca, la ginecomastia nei bambini e l’ipospermia in maschi adulti) e congruenti con le osservazioni epidemiologiche che   evidenziano un incremento della incidenza (Bergman A et all, 2012) altrimenti non spiegabili.

Quindi epigenetica e interferenti endocrini fondano un nuovo modello interpretativo sulla “genesi”  e sviluppo di molte malattie cronico degenerative, intrinsecamente sistemico, in base al quale durante soprattutto il periodo perinatale, esposizioni ambientali possono modificare la suscettibilità degli individui a sviluppare nel corso della loro vita determinate malattie, senza tralasciare il fatto che,  se subite dai genitori, possono comportare lo sviluppo di malattie nella prole, come è emerso bene dagli studi che hanno evidenziato la comparsa di carcinomi dell’apparato genitale in giovani donne le cui madri avevano assunto dietil stilbestrolo, un estrogeno somministrato negli anni ’70 alle donne in gravidanza in funzione antiabortiva.

Su questa alterata suscettibilità che l’epigenetica sembra regolare, intervengono poi nel corso della vita altri fattori (determinanti sociali di salute, altre esposizioni involontarie e “volontarie” a cancerogeni) che contribuiscono a  complessificare ulteriormente  i concreti meccanismi patogenetici che portano un individuo piuttosto che un altro a sviluppare ad un data età una certa malattia o condizione patologica.  Così la grande eterogeneità cui da luogo l’interazione  ambientalmente mediata tra geni ed epigenoma definisce profili di suscettibilità all’effetto patogeno dei contaminanti ambientali estremamente eterogenei tra gli esposti, il che spiega le osservazioni sviluppate dai tossicologi (Sau S. 2012)  sul fatto che differenti condizioni epigenetiche comportano differenti risposte individuali a farmaci e inquinanti, complessificando ulteriormente gli studi sull’efficacia e sicurezza dei farmaci,  demolendo la base scientifica su cui si fondano sia i livelli massimi ammissibili di esposizione ( in genere studiati su operai cioè su una popolazione selezionata di maschi adulti sani  e creando una forte base documentale per l’applicazione del principio di precauzione.

4.   Sul piano culturale, senza qui entrare nella polemica che darwinisti e neolamarkiani su cui sarebbe pure interessante riflettere, il punto rilevante è che l’epigenetica rilancia il modello interpretativo sistemico come quello capace di spiegare una quota maggiore della complessità del vivente. E’ stato già rilevato che, se le tecniche di dominio applicate dal biopotere si basano talora su approcci estremamente sofisticati e capaci di integrare più campi di conoscenze, la necessità di valorizzare il capitale entro tempi definiti comporti per esso una fissità ideativa nell’abbracciare visioni riduzionistiche che lo portano ad applicare al mondo in cui viviamo chiavi di interpretazione meccanicistiche.

 

figura 2Tabella 1: Le grandi direzioni degli errori possibili nelle  scienze ambientali e della salute. (Fonte: David Gee 2006)

Vi sono evidenze relative al fatto la subordinazione della ricerca scientifica alle “urgenze” riduzionistiche del biocapitalismo, che poi in concreto finanzia gli studi in funzione di determinati risultati, produce risultati in generale viziati (tabella 1), spesso “falsi positivi” se si tratta di avvallare le virtù terapeutiche di un farmaco o ancora più spesso “falsi negativi” se si tratta di dimostrare i danni da esposizioni ambientali.

Ora la maggiore capacità esplicativa dell’epigenetica depone  a favore della efficacia di approcci basati sulla complessità e di letture non specie specifiche dei processi biologici, se si vuole “conoscere il vivente”: il gruppo di ricerca  che ha sintetizzato lo stato della scienza sugli interferenti endocrini (Bergmann A et al, 2012) ha operato in primo luogo una rottura epistemologica basandosi su un approccio multidisciplinare ed integrato tra biologi, veterinari, ecologisti, naturalisti, medici endocrinologi, pediatri ecc  e su una visione dell’ecosistema in cui l’uomo condivide con pesci, foche, uccelli, mammiferi gli effetti della impronta antropica che pure infligge all’ambiente.

Ecco dunque che l’epigenetica contribuisce ad ampliare  lo smottamento culturale o meglio epistemologico che le forzature di un biopotere necessariamente riduzionista nei suoi approcci verso bios e zoe producono.  Possiamo dire, parafrasando Beneduce, che con l’epigenetica siamo in presenza di un sapere “indocile” ( Beneduce R, 2010)  che a sua volta ci restituisce un bios ed una zoe altrettanto indocili, con la differenza che queste indocilità si danno qui ed ora cioè non solo producono resistenza ai processi di accumulazione tanto violenti quanto centrali nella fisionomia del biocapitalismo contemporaneo ma evidenziano la inadeguatezza degli approcci culturali ed epistemologici del biopotere.

E l’impatto principale di questa indocilità dell’epigenetica sul piano culturale si avrà per il fatto che questo sapere concorrerà d’ora in poi alla formazione di base ed in servizio di un ampio ventaglio di operatori attivi su ambiente e salute (biologi, medici, tossicologi, ecc) facendone non solo degli interlocutori per le lotte biopolitiche, ma anche dei testimoni di grande impatto socio culturale della necessità di rispettare e preservare l’ambiente.

5.   Venendo alle implicazioni biopolitiche che l’epigenetica comporta, emerge sulla base di quanto finora detto che essa sostiene tanto la resistenza che la vita oppone al biopotere quanto i processi di soggettivazione che in questa resistenza si producono: la malattia può spesso assoggettare, mentre l’esposizione a rischi involontari soggettiva.

# Il disvelamento  dei limiti incontrati dagli approcci scientifici che studiano settorialmente gli effetti degli inquinanti ambientali secondo approcci non sistemici è, come ci mostra la tabella 1, impressionante ed evidenzia una controproduttività specifica del tutto necropolitica: se la produzione di falsi negativi è fino ad oggi servita al biopotere per spostare l’attenzione dalla prevenzione primaria al momento diagnostico-curativo, le valutazioni disponibili sulle empasse cui vanno incontro gli approcci riduzionistici pongono il problema delle condizioni che vanno garantite alla ricerca perchè si liberi dal mix di lacci e laccioli con i quali il modo di gestione privato, ma anche l’asservimento del pubblico agli interessi privati, l’hanno avviluppata: in questa direzione più che su un ritorno a politiche di ricerca pubbliche, sarebbe meglio riflettere sulla gestione comune della ricerca scientifica, anche valorizzando gli apporti di  Hess e Ostrom Elinor sulle condizioni gestionali che permettono di mantenere nel tempo un common (Hess C et Ostrom E,  2009).

Oltre l’approccio sistemico e la condivisione dei saperi tra equipe di ricerca multiprofessionali, si tratta poi di metter mano a nuove metodologie capaci di produrre osservazioni conformi al nuovo modello interpretativo che l’epigenetica supporta e quindi capaci di evidenziare le relazioni tra esposizioni perinatali ed il successivo sviluppo di patologie nel corso della vita ( da questo punto di vista anche i registri delle malformazioni congenite misurano effetti macroscopici del tutto diversi dalla mutata suscettibilità allo sviluppo di malattie cronico degenerative, producendo a loro volta, ove i dati non vengano collocati all’interno del quadro interpretativo appropriato, falsi negativi), ma anche di validare approcci preventivi capaci di invertire i trend delle modificazioni osservate.

Finalmente riconnessi con l’ambiente i nostri corpi e le nostre vite possono sottrarsi agli aggressivi  processi biocapitalistici di valorizzazione perchè questi sono ora non solo deconnotati dai presupposti scientifici con cui hanno cercato di ammantarsi,  ma assumono un senso fortemente negativo, necropolitico, mentre le resistenze alla messa a valore del proprio ambiente di vita prima sviluppate con iniziative talora personali sulla base di un istintivo impulso alla preservazione del proprio se corporeo, trovano un razionale e vengono condivise da sempre più persone.

Se l’ambiente influenza epigeneticamente le nostre vite è anche vero che esso ci restituisce ( con interessi sulla cui pesantezza disponiamo per ora solo di stime approssimative) in termini di aumentata suscettibilità a molte malattie, l’impronta antropica che è stato costretto a subire, in un processo in cui l’unica azione individuale possibile ovvero la fuga in un ipotetico luogo incontaminato non ha più alcun senso per il fatto che l’intero globo terraqueo è stato pesantemente  contaminato, mentre l’azione collettiva si distende nelle due direzioni della gestione comune dell’ambiente di vita e della lotta ad elites tanto ricche quanto necropolitiche.

## Su un piano astratto, il biopotere si esercita proprio a partire da dispositivi di assoggettamento che cercano di far si  che le persone pensino e facciano ciò che è funzionale alla valorizzazione del capitale, mentre le lotte biopoliche sono un terreno di pratica moltitudinaria dove i processi di soggettivazione riguardano il 99% dell’umanità perchè sono le vite di tutt* ad essere sotto attacco.  Su un piano più concreto però occorre osservare che, se il biopotere produce narrazioni che in questo campo hanno il fiato corto (colpevolizzazione dei singoli in quanto responsabili degli stili di vita che adotterebbero in piena libertà, enfasi sulle potenzialità preventive della diagnosi precoce e su quelle terapeutiche di clinica e grandi ospedali, ecc.) i processi di autopoiesi con cui gli esposti cercano di riprendere il controllo sui propri corpi e sull’ambiente in cui vivono e che tanta influenza ha sulla salute possono incappare in difficoltà create dal permanere di vecchi dispositivi organizzativi.  Un primo esempio: a Perugia nella seconda metà del 2013 molti genitori si autoattivano per eliminare i piatti di plastica dalle mense degli asili e scuole materne comunali, raccolgono più di mille firme e chiedono all’associazione locale dei medici per l’ambiente (ISDE) con cui collaboro, di  supportare con le evidenze su bisfenolo e ftalati (interferenti endocrini presenti nella plastica), la loro petizione al consiglio comunale, dove sentiti gli aspetti sociali e quelli scientifici, all’unanimità si delibera l’applicazione del principio di precauzione perchè tutti, da sinistra a destra passando per il centro, si sentono rassicurati dall’idea che ai bambini sia risparmiato il contatto con la plastica, oltre alle ovvie ricadute in termini di educazione ambientale e riduzione di rifiuti.  Ottenuto questo primo risultato, per espandere la buona pratica il gruppo dei genitori non continua a sviluppare l’interazione dal basso ma tenta l’interazione con le istituzioni rappresentative, ricercando l’appoggio di un consigliere di una forza partitica specifica: l’iniziativa si blocca mentre l’apparato sollecitato si appropria della proposta.

Questo potrebbe significare che:

a) a livello moltitudinario si è diffusa e sedimentata, verosimilmente grazie ai processi di autocomunicazione di massa – quindi per “autopoiesi” e senza un ruolo organizzativo di una qualche classica entità, una narrazione biopolitica sulla importanza di creare una protezione, anche tramite un approccio estensivo del principio di precauzione, alla esposizione dei bambini a interferenti endocrini, quale prima applicazione di quanto suggerito dai recenti sviluppi delle nuove conoscenze su ambiente e salute;

b) questa narrazione è così eccedente rispetto agli apparati di cattura da  creare senso sulla necessità di risolvere il problema in persone che appartengono a schieramenti partitici molto diversi e contrapposti;

c) a differenza della pratica dal basso attivata a livello di consiglio comunale, l’approccio messo in atto verso il consiglio regionale ha puntato sulla interazione con gli apparati burocratici, determinandone rapidamente la cattura e lo svuotamento di senso.

d) Ergo: le organizzazioni partitiche sono dispositivi di cattura e controllo della soggettività biopolitica.

 Ora, molti penseranno che queste deduzioni potrebbero essere pindariche e per di più, non replicabili su larga scala.  Pensiamo però al grande atto di potenza moltitudinaria che ha attraversato la nostra società con l’entusiasmante referendum su acqua e nucleare del 2011: anche qui è emersa la capacità della narrazione sul valore della gestione comune dei commons – acqua e ambiente denuclearizzato – di creare senso e produrre comportamenti affermativi addirittura nella maggioranza degli aventi diritto al voto, evidenziando sia una chiara eccedenza rispetto alle appartenenze partitiche che una capacità autopoietica a sua volta eccedente rispetto alle potenzialità degli schieramenti abituali tra destra e sinistra, ma mettendo anche in luce una grande ingenuità verso il rispetto da parte delle elites del volere moltitudinario.

Ancora: in occasione della compagna autunnale 2009 a favore della vaccinazione contro il virus H1N1 – al di là dei giudizi di merito sul senso della campagna da un punto di vista del suo razionale – si è registrato un  tasso di copertura dell’11% a livello nazionale (secondo il Corriere delle Sera del 11/12/2009) che  trova riscontro in un trend mondiale in cui è stata l’informazione auto attivata tramite la rete sul negativo rapporto rischi/benefici a determinare la bassa adesione o meglio l’esodo dei corpi dal programma vaccinale, segnando un limite biopolitico sia ai poteri della comunicazione verticale dei media ufficiali sia a programmi di sanità “pubblica” utili al profitto delle multinazionali del farmaco (che poi si è scoperto aver pesantemente influenzato il tavolo OMS che ha dichiarato l’epidemia, inviando tecnici segnati da pesanti conflitti di interesse). Non risulta che qualche organismo abbia organizzato questo esodo: esso si è dato.

Anche alla luce delle empasse che abbiamo visto contrassegnare alcune pratiche di movimento, questo potrebbe significare che le pratiche biopolitiche, che partono da problemi comuni ai più,  potrebbero non riconoscersi né avvalersi di tali approcci mentre si pongono come dimensione che rivela, indossati gli occhiali giusti, livelli di interazione e una produzione di soggettività non presenti in altri settori in cui pure lo sfruttamento è fortissimo: la produzione di plusvalore tramite lo sfruttamento di  vita e territori da parte del biocapitalismo – che pure mette in campo dei meccanismi di ricattura potenti, tipo la sedicente green economy con cui si riassegna, guadagnandoci sopra, la cura dei danni ambientali che pure esso ha prodotto – incontra molte più resistenze rispetto a dispositivi quali la securizzazione, la mediatizzazione, ecc, che pure devastano le vite di chi le subisce ma non danno luogo per il momento  a quei processi di resistenza che pure ci si attenderebbe anche a partire dal fatto che molte organizzazioni lavorano su questi campi.

### Tutto questo a sua volta ci pone il problema “ Cosa possiamo fare per le lotte biopolitiche oggi?”.

Tra organizzazione ed autoorganizzazione, sappiamo – ne abbiamo parlato tra il 2012 ed il 2013 in due seminari di Uninomade a Milano e a Torino – che esistono gli approcci metaorganizzativi, già validati in contesti ad alta densità cognitiva (sanità, università e scuola) nel cui nucleo operativo operano detentori di livelli di conoscenza irraggiungibili da chi si occupa di gestione delle stesse (Minztberg H, 1986; Mintzberg H 2004).   Quando si ha a che fare con chi sa molto – dice Mintzberg – non ha senso pretendere di dirgli cosa deve fare, meglio cercare di creare le condizioni in cui quello lavori bene: supportandone l’aggiornamento delle conoscenze, facilitando il confronto tra pari, ragionando sulle buone pratiche  e cercando di imparare dagli errori, ovvero creando senso, sostenendo la condivisione, garantendo la qualità delle relazioni ( Rullani E, 2007). Ipotizzando che gli approcci applicabili nel caso delle organizzazioni professionali abbiano un  senso ed una appropriatezza per i lavoratori cognitivi di oggi, la domanda diventa “cosa possiamo fare perche le lotte biopolitiche lavorino bene?”. In Umbria stiamo sperimentando cosa accade se le lotte biopolitiche vengono affiancate da interventi metaorganizzativi tesi a:

a) creare senso. In questa direzione il lavoro con una società scientifica internazionale che valorizza le conoscenze fornite da epigenetica e interferenti endocrini e gode di una stima elevata tra chi è esposto involontariamente a inquinanti ambientali dal biopotere, è importante;

b) diversificare gli attori delle lotte biopolitiche, schierandosi con gli esposti (quanti subiscono involontariamente gli effetti sulla loro salute degli inquinanti rilasciati nell’ambiente dai capitalisti), contrastando i produttori di rischio (quanti rilasciano nell’ambiente inquinanti per motivi di mero profitto), agendo sui servizi di prevenzione per riprenderne il controllo  –noi li paghiamo, per noi devono lavorare – attraverso forme di gestione comune (vedi punto h) e connotando le forze partitiche e sindacali a vocazione tardo – sviluppista come pericolose;

c) supportare le reti che di norma si sono peraltro già create spontaneamente o le esperienze come quella prima riferita dei genitori che vogliono togliere la plastica dalle mense delle scuole materne, interagendo con i comitati spontanei di cui il territorio pullula (in Umbria ce ne sono più di 40)  tramite inchieste (Romagnoli C, 2011) e conricerche in cui cosoggettivarsi con gli “esperti grezzi” che si producono continuamente sui territori, (sanno moltissime cose, occorre ascoltarli bene). . . .;

d) favorire, senza sovradeterminarlo, il punto di vista degli esposti a favore del principio di precauzione negli incontri con gli enti preposti alla prevenzione ambientale, ove possibile affiancando i comitati contro l’insediamento x o y  con osservatori sugli effetti ambientali e  sanitari dell’insediamento x o y,  dove aggregare e far esprimere le competenze presenti nel corpo sociale, arrivando a cumulare saperi che sui tavoli tecnici si rivelano difficili da affrontare per quella parte degli operatori ( soprattutto dirigenti) che collabora con i produttori di rischio: nella nostra esperienza l’affiancamento dell’azione del comitato spontaneo con una funzione di osservatorio, ne rafforza autorevolezza,  indipendenza, capacità di intervento e continuità di pratica;

e)  organizzare momenti formativi presso sedi in cui di solito si esprime il “sapere ufficiale” (Ordini dei medici, università, centri di formazione delle ASL, ecc) sulle nuove conoscenze scientifiche in tema di ambiente e salute, dati gli sviluppi dell’epigenetica. Questo intervento è molto potente perché decostruisce la fiducia dei tecnici nei protocolli di intervento che applicano ogni giorno in quanto obsoleti sul piano scientifico: chi si occupa di tossicologia non non lo farà allo stesso modo dopo aver approfondito il gia citato  testo di Sau su Tossicologia e epigenetica…;

d) fornire consulenza giuridica ai comitati che vedono violati i propri diritti all’ambiente ed alla salute attraverso law clinics, come avviene ora alla Facoltà di giurisprudenza di Perugia grazie alle interazioni con il gruppo di giuristi che lavora con Maria Rosaria Marella: la law clinics a supporto dei diritti collettivi all’ambiente ed alla salute, oltre alle mura degli edifici mette a disposizione delle lotte biopolitiche menti e saperi finalmente resi comuni perchè non più imbrigliati in pure pratiche accademiche;

f) sperimentare dispositivi di interazione e  condivisione in grado di interagire a livello moltitudinario, come alcuni software per l’e-democracy  ( es. Airesis) o dispositivi che come l’equity audit nel caso della gestione regionale del ciclo dei rifiuti, possono permettere ai territori che subiscono discariche o inceneritori di interagire con chi i rifiuti li produce e basta,  mettere in risalto i risultati che sono stati prodotti da buone pratiche già attivate altrove e collocare i sedicenti decisori politici in un contesto in cui vengono sollecitati ad obbedire ed a smetterla di “comandare comandando”;

g) superare attraverso leggi di iniziativa popolare (abbiamo raccolto grazie all’interazione con i comitati territoriali numerose adesioni sulla gestione comune della sanità, dimostrando ancora una volta che questa può interessare contesti sociali ampi) una organizzazione dei servizi di prevenzione che, per la gestione centralizzata delle risorse, l’assenza di spazi di partecipazione reale e la separatezza imposta ai dipartimenti di prevenzione rispetto ai servizi del territorio, interdice gli esposti, privandoli del potere di indirizzare le risorse che pure concorrono con la contribuzione fiscale ad assegnare alla sanità verso interventi di prevenzione efficaci, lasciati nella mani di tecnici che Taranto, Terra dei fuochi e SIN dimostrano essere più attente alle ragioni dei produttori di rischio che a quelle degli esposti.

6.   Ma tutto questo potrebbe anche non funzionare se parallelamente si lasciano le elites libere di svolgere la loro funzione necropolitica.  La disinvoltura con cui le elites adottano scelte necropolitiche è effettivamente impressionante: all’interno della frazione dominate dei capitalisti transnazionali la quota che rappresenta le multinazionali che sfruttano l’energia fossile ha un peso determinante e fa di tutto per continuare a vendercela e imporre sistemi di trasporto basati su motori che funzionano ad idrocarburi. Se ne infischiano del fatto che la produzione di energia da fonti fossili, come ormai sanno anche i muri, da il principale contributo al cambiamento climatico, mentre la combustione delle stesse nelle centrali e l’uso di gasolio e benzine per autotrazione  diffondono nell’ambiente sostanze che hanno tutti gli effetti tossici possibili. No, fanno molto di più: messa a punto la metodica per estrarre dagli scisti gas e petrolio (con tecniche che talora utilizzano il fracking determinando terremoti), continuano a fare a pezzi l’ambiente come se nulla fosse, ignorando appelli dei climatologi mondiali, degli organismi delle nazioni unite sull’ambiente.

Oppure pensiamo alle multinazionali della chimica che continuano ad opporsi ad una valutazione preventiva degli effetti su salute e ambiente dei prodotti che già ora circolano e di quelli di nuova sintesi che vengono messi in circolazione.

figura 3

Autismo imprenditoriale, sociofobia ed ecofobia sono i quadri clinici attraverso cui si evidenzia la sindrome necropolitica che affligge le elites mondiali, i cui circoli esclusivi, più che riflettere una idea di potenza, rimandano sempre più all’immagine di pochi disperati che continuano a cercare di fare soldi, mentre il meltdown avanza.

Se, come avveniva negli anni ’70, fossimo in grado con le nostre lotte di produrre autonomia e  guadagnare salario indiretto e qualità della vita, questo discorso delle elites non avrebbe ovviamente  alcun senso.   Manuel Castell in “La società in rete” ci ha parlato della separazione tra potere ed esperienza che si sarebbe determinata per effetto delle diversità che si sono cristallizzate tra la città dei flussi (dove vivono le elites che condizionano i mercati finanziari di tutto il mondo) ed i territori dove si svolgono – se va bene – le funzioni di back office, ma dove di norma vivono quelli che dal punto di vista delle elites sono swetched out, proponendoci peraltro una lettura tanto agghiacciante quanto disperata (e per questo non condivisibile), della possibilità che le lotte hanno di modificare tutto questo. Se va riconosciuto a queste elites di aver dimostrato nella crisi in corso di saper condizionare gli stati fino a far pagarne loro i costi di operazioni finanziarie demenziali, evitando la promulgazione di norme che intacchino i paradisi fiscali e intralcino in qualche modo i processi speculativi grazie alla imposizione di personale politico di proprio gradimento (George S, 2013), non appare in nulla giustificato l’enorme potere che esse oggi esercitano. Si tratta di un fenomeno che andrebbe studiato a fondo: il ritorno delle elites ( Di Leo R 2012) se comporta politiche di potenza che richiamano epoche presovietiche, ha perso quella legittimazione che la sovrapposizione con il sacro le ha conferito nel millennio scorso, assumendo profili forzosi che delineano scenari molto instabili.

Altri (Gallino L, op cit) richiamano l’effetto necropolitico di modelli gestionali che fondano la gestione privata in generale e quella delle società che si occupano di finanza in particolare: oggi i bilanci, ancorchè del tutto retoricamente “certificati”, espungono i costi sociali ed ambientali, esternalizzandoli o comunque infischiandosene degli effetti che comportano sul resto della società; del pari i consigli di amministrazione si sono dati la “mission” di tenere conto solo dei  profitti di   breve periodo; vi è poi da constatare che volumi finanziari pari a circa la metà dell’enorme quantità di denaro scambiato ogni giorno sui mercati finanziari globali, sono investiti  automaticamente dai computer sulla base di algoritmi elaborati da ingegneri finanziari per i quali gli impatti ambientali non sembrano avere un grande peso…

Sia come sia, la frazione di capitalisti transnazionali che danno il tempo alle elites mondiali e esercitano un biopotere sempre più necro, diventano, se possibile ogni giorno più pericolose e meno credibili.

Se alcuni autori (Moro D, op cit) ne hanno evidenziato la incapacità di produrre egemonia sia nella società che nella classe dei capitalisti, occorre anche tenere presente che essi godono di una libertà di azione tanto immeritata quanto irragionevole,  che permette loro di vanificare approcci metorganizzativi e processi autopoietici e additare al pubblico ludibrio dei  capri espiatori appartenenti alla casta: i funzionari.

Come medico dedicato all’attività sociale sociale sottopongo alla discussione collettiva l’importanza di combattere le elites, un ottimo terreno su cui chi crede ancora alla utilità degli approcci organizzativi  può impegnarsi, contribuendo con ciò a creare ulteriori condizioni in cui le pratiche biopolitiche della moltitudine possano finalmente avere continuità e “lavorare bene”.

 

Bibliografia:

Beneduce R. (2010) “Corpi e saperi indocili Guarigione, stregoneria e potere in Camerun”. Bollati Boringhieri, Torino

Bergman A, Heindel JJ, Jobling S, Kidd KA and R, Zoeller T, Eds (2012) . “State of the science of endocrine disrupting chemicals” WHO, Geneve

Castells M (2002): “La nascita della società in rete”. Università Bocconi editore, Milano.

Castells M (2009): “Comunicazione e potere” Università Bocconi Editore, Milano

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