di ERNESTO VOCCOLI.
È dall’1 Novembre scorso che il colosso franco – indiano Arcerol Mittal, una delle principali multinazionali mondiali di produzione dell’acciaio, ha preso possesso a tutti gli effetti degli stabilimenti siderurgici Ilva di Taranto, Genova, Novi Ligure e Marghera.
A seguito dell’accordo sottoscritto al Mise il 6 Settembre scorso tra il Ministro Di Maio, sindacati metalmeccanici (Cgil, Cisl, Uil e Usb) e nuova proprietà, solo nella sera del 29 Ottobre i 13500 dipendenti dell’intero gruppo hanno potuto conoscere il loro destino. Per i più pratici del cellulare bastava scaricare una app, entrare nel portale MyIlva, inserire una password e scoprire se il proprio badge fosse stato disattivato o meno. Per tutti quanti, ad ogni modo, una lettera direttamente a casa.
Le opzioni che in queste settimane si sono poste di fronte ad ogni dipendente sono state tre:
1) essere assunto nella nuova Ilva, la AM InvestCo Italy srl;
2) restare in Ilva in amministrazione straordinaria attraverso il collocamento in cassa integrazione a zero ore, ricevendo entro la conclusione del piano industriale di Mittal (non prima del 23 Agosto 2023 e non oltre il 30 settembre 2025) una proposta di assunzione, rifiutata la quale e terminate le opere di “bonifica” (per cui saranno impiegati 300 lavoratori) si sarà fuori;
3) lasciare Ilva e accettare l’incentivo all’esodo di 77 mila euro nette e due anni di Naspi. Al momento su un massimo di 3097 unità abilitate ad accettare questa opzione, l’hanno attivata circa in 500.
A seguito dell’accordo romano, a pagare il prezzo più alto dal punto di vista occupazionale, manco a dirlo, è stato lo stabilimento di Taranto. Sul totale degli attuali 10800 dipendenti, solo 8200 sono stati assunti da Mittal, lasciando rientrare i restanti 2586 nella casella degli esuberi.
Anche sui criteri di scelta dei lavoratori non sono mancate le polemiche. Se da un lato lo schema individuato riguardava al primo posto la linea tecnologica (cioè se il reparto fosse rimasto in attività) e a seguire una media ponderata tra anni di anzianità, competenze e carichi familiari; dall’altro i sindacati segnalavano immediatamente
gravissime anomalie rispetto all’applicazione dei criteri di legge in ambito selettivo del personale, per effetto dei quali non vi è ombra di dubbio come la selezione per centinaia di distacchi sia stata operata attraverso criteri unilaterali da parte dell’azienda,
ottenendo a riguardo un incontro con il ministro garante Di Maio il prossimo 8 Novembre al Mise, dove affrontare il da farsi e dove AM Investco spiegherà le sue scelte.
E a guardare bene anche i nomi e i cognomi delle persone posizionate fuori dallo stabilimento, è balzata subito agli occhi dell’opinione pubblica una certa scientificità da parte dei nuovi proprietari nei confronti di tutti coloro che nel corso degli anni, chi più chi meno, ha denunciato gli scempi ambientali, sanitari e di mancata sicurezza sui luoghi di lavoro relativi agli impianti del siderurgico, smantellando di fatto tutte le voci critiche interne alla fabbrica, riconducibili ad esempio al Comitato dei Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti o al sindacato di base Cub, che si sono ad esempio opposte al recente accordo schierandosi per il No al referendum interno e che nel corso degli anni hanno comunque cercato una unità di intenti con quella parte di città che, sull’onda delle disposizioni della procura e malgrado i decreti “salva Ilva”, chiedeva a gran voce il fermo immediato degli impianti, la bonifica di tutto il sito e l’avvio del processo di riconversione.
Tutto è risuonato un po’ come una beffa e un avvertimento nei confronti della città se pensiamo che proprio il 26 ottobre scorso le stesse organizzazioni, insieme ad altri sindacati di base e alle altre realtà cittadine firmatarie del Piano Taranto, avevano sostenuto e proclamato lo sciopero generale nei confronti del nuovo esecutivo giallo verde e contro l’accordo di svendita di abitanti e lavoratori, con un appuntamento nazionale proprio a Taranto con corteo andato in scena al quartiere Tamburi, simbolo della devastazione ambientale e sociale, e dove sono arrivate delegazioni di stabilimenti in crisi da tutto il Paese.
Un segnale inquietante che ricorda i tempi e i modi più bui della famiglia Riva, tra l’altro nuovamente indagati nell’inchiesta che ha portato all’esecuzione di un decreto di sequestro preventivo di alcuni siti, gestiti dall’Ilva, ubicati al confine nord dello stabilimento, per una superficie complessiva pari a circa 530mila metri quadrati, che sarebbero stati trasformati in discariche di rifiuti pericolosi e non di origine industriale. Almeno loro, al contrario dei nuovi proprietari, non godono di immunità penale.
Nel frattempo, nelle stesse ore in cui venivano annunciati gli esuberi Ilva, scoppiava tra le mani del Governo la bomba del Tap: l’ok al progetto, le scuse delle penali costose, le proteste dei comitati e le richieste di dimissioni di massa nei confronti dei parlamentari 5 stelle che, come a Taranto, avevano promesso fuoco e fiamme verso il gasdotto.
E così, se negli scorsi mesi il tempo dell’attesa sul tema delle grandi opere ingiuste e diseguali iniziava ad esaurirsi verso il nuovo esecutivo, ora possiamo dire a tutti gli effetti che il Re è nudo.
Ed è per questo che il percorso nazionale partito a Venezia dai comitati No grandi navi lo scorso 29-30 Settembre, che sta per arrivare ad una grande manifestazione direttamente a Roma sui temi della giustizia ambientale, della conversione ecologica e degli interessi delle comunità e dei territori prima di quelli dello Sato e del privato, dei profitti di costruttori, speculatori e lobby del fossile, non può che essere accolto come un segnale positivo.
Prossimo appuntamento in Val di Susa 17 e 18 Novembre.
Continuons le combat.