di FANT FORDISTA.
12.12.69 – 9.04.15
Prima di essere inghiottita dalla forza potentissima delle armate dell’Armando (Commissario, sa l’Armando era proprio il mio gemello, però ci volevo bene come fosse mio fratello. Stessa strada, stessa osteria, stessa donna, una sola, la mia. Macché delitto di gelosia, io c’ho l’alibi a quell’ora sono sempre all’osteria) l’Austria era attraversata da simpatiche melodie che accompagnavano soavi storielle d’amore. Per la loro asfittica debolezza al cospetto di celesti Aide, lingotti del Reno, Barbieri andalusi, vennero chiamate “operette”.
Queste orge di fradicia mollezza, sorta di Zigfield Follies senza nessuna “Ford T” alle spalle, si svolgevano di solito in inesistenti lande dal nome altrettanto vacuo. Senz’altro, se la tragedia di cui trattiamo si fosse svolta in quei luoghi, le cose sarebbero andate diversamente…
Pretura di Roccasecca sul Torrentello Azzurro, nel Principato delle Roselline Caduche.
La scena si apre su di un portone in bel legno di quercia, con Pomi dorati e lucenti come i Pomelli degli uscieri. Biondi agili e slanciati, chiamiamoli Georg Wilhelm Friedrich e Johann Gottlieb. Si schiude, all’interno, una addetta agli uffici, bella come una viennese al primo ballo, occhi profondi à la Egerszegi, si intrattiene con il Cancelliere, il serioso e puntuto Herr Zampironem. Una piccola aula, là in fondo, la vedete, con pareti azzurre e gerani alla finestra, reca una foto virata seppia del Principe del Sacro Mattarello. Il Giudice, Dott. De Gufis, delizioso vecchietto con le guanciotte rosse, legge Puchta e soffoca sul nuovo codice.
Evidente è il senso di sicurezza che emana la scena: c’è un Giudice a Roccasecca, e chiunque, giusto o ingiusto che sia, lo sa. Da Teodosio a Jellinek, tutti vivono nel giudizio, laddove la vita si ricompone nella norma appena codificata, illuminata da una fioca candela.
Un contadino della Valle Cattiva, luogo infestato da pericolosi figuri che si oppongono alla realizzazione della ferrovia Roccasecca de Sopra – Roccasecca de Sotto, entra furtivo, fischiettando un canto occitano. Finge di portare un paio di uova fresche all’incauto De Gufis. D’un balzo estrae un volantino, a sarà düra sussurra. 36 giannizzeri (chissà come comparsi, ma la rispondenza al vero dei fatti è un optional, dovendosi avere riguardo alla sola plausibilità del racconto, come ammoniva Walt Disney) ingentiliti da vesti in fine broccato viola, lo bloccano e lo conducono in catene per le vie, adesso affrante, della già ridente cittadina.
Alle 18.50 Il Principato, da buon giornale della sera, intitola: Vile attentato alla Giustizia, e prosegue: «la violenza e il rifiuto dello Stato sono il brodo di coltura in cui si allevano i figli della Valle Cattiva, esecrabile landa che si oppone al progresso. I no-ferrov sono il frutto di tanto estremistico avventurismo: niente da stupirsi se poi accadono fatti come questo»…
Ma noi non siamo nel paese dei campanelli, siamo, al più, tronfi nella convinzione che Sanremo è Sanremo.
Nella mistica del diritto e del codice la violenza è sussurrata (e invero inesistente), nella vita messa al lavoro solo la morte risalta nel gorgo (nel gergo?) dell’impresa. Per questo, a Milano le cose sono andate diversamente: imprenditore premi un po’ il grilletto, una spinta e il Giudice va giù.
In sintesi: un cialtrone d’impresa – probabilmente di blu vestito, camicia bianca con collo enorme in cartongesso, nodo della cravatta proporzionale alla sua supponenza, scarpe sfondate con grande fibbia alla Capitan Uncino – ha ucciso nel giro di pochi minuti un giovane avvocato, un magistrato e un (più o meno ex) socio di intrapresa, per poi salire su uno scooter (maxi, si sono affrettate a descrivere le agenzie, perché è ovvio, gli imprenditori non viaggiano sul Vespino 80 SS elaborato Pinasco con sellone Giuliari) e fuggire lontano, verso i maggici destini dell’impresa.
Di tutto, da lì, si è detto:
– del signorile nickname dell’omicida (Conte Tacchia);
– del suo probabile cortese fraseggio (appena lo pijo, lo sfojo… lo strijo / lo faccio in sarmì, come fosse ‘n conijo. / L’ammacco… lo spacco, ar muro l’attacco… / lo faccio a porpette e l’acciacco cor tacco. / Se poi lui me sfida a giostrà de cortello, /je apro la panza e poi lo sbudelloo / Jè magno ‘na recchia, cor pepe e co’ l’ajo / L’acchiappo per naso e a pezzi lo tajo);
– del metaldetector, pare, guasto;
– del poverometronottedistratto.
Solo Gherardo “mano pulita” Colombo ha avuto il coraggio di dire la verità: il collega era caduto servendo lo Stato.
Allora, cari figli del Donbass, si è trattato di un attentato? Senz’altro! E come sempre in Italia, se tutti sappiamo chi è stato l’esecutore materiale, mai si saprà dei mandanti.
Vediamo di circoscrivere il numero dei sospetti:
– non era estremista islamico;
– non era terrorista rosso o nero;
– non era mafioso.
Possiamo quindi stare tranquilli, pertanto.
Già, potete dormire tranquilli.
Però un mandante c’è e ha dato l’ordine di colpire il cuore dello Stato. Quello vero, che pulsa, decide (paga), laddove la vita spezzata risolve – nell’esigenza del giudizio – il diritto che gli ha negato la salvezza.
Per aiutarvi ancora un po’ vi dirò di altre vittime di questo tiranno estremista, micidiale e impietoso:
– lo statuto dei lavoratori;
– la fabbrica fordista ;
– la Fiom;
– lo sfrattato da incipiente gentrificazione;
– le nostre pensioni, i nostri risparmi …e potrei continuare;
– la divisione dei poteri;
– la Costituzione taylorista e degasperiana.
Ora, anche se la vostra istruzione l’avete ricevuta dalla Ruota della fortuna, se le parole d’amore che dite alla fidanzata sono mutuate dai baci Perugina, se pensate che Roma l’abbiano fondata Romolo e Remolo, se credete che Fazio sia un giornalista e Repubblica un giornale, certamente avrete capito. L’assassino, nella sua forma più orrenda e atroce, è il capitale finanziario.
Un uomo, per legge sottoposto soltanto alla legge nel formarsi del proprio libero convincimento, è stato ucciso dal vomito di un nuovo potere costituente che si pone, ogni giorno di più, nel califfato della nostra superficialità, come nuova legge.
Un decreto emanato dalla Corte della Contea di Smith & Wesson ha scolpito col sangue nel marmo retrò del Foro Ambrosiano la legge dell’impresa becera e indebitata. “Contraddizione in termini” diranno i Saviani Bariccati: è stato ucciso un Giudice della Sezione fallimentare, un attore della governance dell’impresa! È vero: attore sì, ma non gradito.
Il simpatico Nixon che spiezza Bretton Woods, la legge Prodi, la riforma del diritto fallimentare: ecco la struttura dell’Isis del califfato di Alexandria (provincia di MPS, nello stato di Nomura).
Non si arriva al cuore dello Stato con tanta violenta precisione privi di una grande preparazione, e poi occorrono anni, bolle speculative, ristrutturazioni, concordati in bianco. La morte del capitalismo (industriale) ha svincolato l’accumulazione dalla produzione. Il divenire rendita del profitto ha sradicato il diritto su cui l’agire del Giudice si estrinsecava e che, unico, pur ex post e sempre più blandamente, vi si opponeva. Il capitale è continua estrazione che sempre si rinnova nella vita espropriata: non può sottostare a lacci e laccioli.
Il capitale negli anni si è dato uno statuto, statuto d’impresa: purtroppo per le vittime di Milano, l’impresa non è più quella descritta nei testi su cui essi avevano studiato. Non più produzione, non più scambio tra possessori di merci che si riconoscono tra loro, nel profitto.
L’impresa si autoesercita, esiste in sé, basta trovare un euro, un imprenditore e dei “polli” (che ne so, la Cassa Depositi e Prestiti o la liquidazione dei dipendenti Parmalat). La produzione di rendita a mezzo di vita ha un solo attore che non può morire, deve sopravvivere ad ogni costo. Tutto va sacrificato all’impresa, è il feticcio perfetto; il feticismo più non s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, quindi è inseparabile dalla produzione delle merci. L’impresa agisce nel/attraverso il corpo del precario indebitato dandogli forma, eliminando ogni pur evidente e lancinante assenza con il senso di pienezza che può dare una montagna di Ciocorì seguito da sei litri di spuma moscatella.
Il Giudice Fallimentare nell’esercizio delle proprie attribuzioni è agli occhi dell’impresa un “assassino” (e per questo il vero “assassino” straparla di “vendette”); si inverte l’ordine logico del capitalismo industriale: non più il fallito da espellere dal corpo sano del capitale poiché cancrena per via della produttività annichilita, ma il Giudice da escludere poiché negatore dell’ultrattività dell’impresa.
Ora che l’impresa non è produttiva per definizione, ma ente di immediata estrazione di eccedenza, il Giudice e la sue leggi sono diventati oggetti desueti. E da sopprimere, perché l’impresa viva. Ed è qui la contraddizione: una cosa è soggetto pulsante e vitale mentre la vita è oggetto di apprensione.
L’impresa 2.0 è sfruttamento della vita che deve essere impedita nel suo spiegarsi sociale, autonoma esistenza che nega lo Stato.
Il Magistrato è un martire dell’Ancien Régime, un personaggio tragico come i martiri di Compiègne.
Figlie mie, ecco conclusa la nostra prima notte in prigione.
Era la più difficile. E tuttavia ne siamo venute a capo.
La prossima ci troverà del tutto familiarizzate con la nostra nuova condizione, che d’altronde non è nuova per noi; insomma, di cambiato non c’è che la scena.
Nessuno saprebbe rapirci una libertà di cui ci siamo spogliate da tempo.
Figlie mie, è in mia assenza che avete pronunciato questo voto del martirio. Ma, fosse o no opportuno, Dio non permetterebbe che un atto così generoso serva ora a turbare le vostre coscienze.
Ebbene, faccio mio questo voto, e sento oramai di portarne fino in fondo la responsabilità, io sono e sarà, qualunque cosa accada, il solo giudice del suo adempimento. Sì, me ne faccio carico e ve ne lascio il merito, anche se io non l’ho pronunciato. Perciò non preoccupatevene più, figlie mie.
Ho sempre dato conto di voi in questo mondo, e non mi sento oggi nello stato d’animo di ritenermi sollevata di alcunché. State tranquille.
[…]
«Il Tribunale rivoluzionario comunica che le ex-religiose Carmelitane, domiciliate a Compiègne, dipartimento dell’Oise: Maddalena Lidoine, Anna Pellerat, Maddalena Touret, Maria-Anna Hanniset, Maria-Anna Piedcourt, Maria-Anna Brideau, Maria Cyprienne Brare, Rosa Chrétien, Maria Doufour, Angelica Roussel, Maria-Gabriella Trézelle, Maria-Geneviève Meunier, Caterina Soiron, Teresa Soiron, Elisabetta Vezolot, hanno tenuto raduni e conciliaboli contro-rivoluzionari, intrattenendo delle corrispondenze tendenziose, conservato scritti liberticidi. Esse non formano che una riunione di ribelli, di sediziose che mettono nel loro cuore il desiderio e la speranza criminale di vedere il popolo francese rimesso in catene dai suoi tiranni e la libertà inghiottita nei fiotti di sangue che le infami macchinazioni hanno fatto diffondere in nome del cielo. Il Tribunale rivoluzionario dichiara in conseguenza di ciò che tutte le sopraddette convenute siano condannate a morte» (Francis Poulenc, Dialogues des Carmélites).
E poi, è come alla fine del cinema muto: non c’è bisogno più di una tastiera.
Il Giudice Delegato, nel capitalismo finanziario è come Buster Keaton, da grande attore costretto a fare la comparsa in un film di Franchi e Ingrassia. L’omicidio di Milano ha sancito la dissoluzione dello Stato. L’impresa ha realizzato il sogno di Lenin e Pasukanis nella dissoluzione dello Stato non c’è più bisogno di diritto ma di sola amministrazione del dissesto.
Sei vecchio, diranno gli untori della peste d’impresa. Guardi al passato, quell’uomo non era flessibile, quell’uomo andava punito.
“Ma il Gesto non è stato un po’ estremo”?, si potrebbe obbiettare. Forse no.
Per il diritto, non basta una Cisl ad “aggiornare” il mondo, non basta un Marchionne come a Termini Imerese.
È il mistero del giudizio che presenta il conto al potere, in qualunque epoca, in qualunque sistema di produzione. Ma chi si può sottrarre al giudizio? Salvo eliminare l’organo deputato, renderlo ridicolo, espressione di banale velleità di giustizia.
È la nuova rivoluzione post-neo-liberale che ci parla attraverso un imprenditore straccione, uno dei tanti che sbraitano alle tribune di Santoro e affini, laddove il giudizio non è più tale, ma violenza, insensata variazione sul tema del nulla.
Non si può opporre la “legge” all’accumulazione che propria legge si dà, la legge di non avere leggi, siamo tornati “al di là” del Pecos, come ci insegnò John Wayne.
E allora amici del Donbass che fare?
Lo abbiamo detto tante volte (anche a sproposito): indietro non si torna!
Come piccola impresa indebitata nel vortice della produzione di morte (la nostra) a mezzo di vita, non possiamo imporre regole, correttezza, buona fede, a tanta sorda cupidigia. Occorre la totale apprensione della legge d’impresa, la sovversione del rituale dei rating in senso produttivo di vita e di socialità, disinnescando la portata mortifera delle norme che ogni giorno si danno scolpendo nel dolore i nostri corpi, solo la necessaria riconduzione mutualistica dei fini e delle modalità di gestione potrà condurre al superamento dell’attuale ordine d’impresa e rendere VERA “giustizia” a chi proprio perché dava “giustizia” (magari non condivisibile, contestabile e tante volte contestata) è stato ucciso.
L’esperienza di questa spaventevole guerra, che ha travolto nella sua urina regni ed imperi, che ha distrutto innumerevoli città, e con le città milioni e milioni di invidui, è quasi per un tragico paradosso, nel richiamo dell’individuo a se stesso, per cui egli, ammaestrato dal dolore, intuisce che la sua salvezza dipende esclusivamente e interamente da lui, che in lui si risolvono lo stato e il diritto, e nella sua libertà la forza di tutti gli eserciti del mondo (Salvatore Satta, De profundis, 83).
[Questo testo viene pubblicato in contemporanea con Effimera]