Di ROBERTO CICCARELLI

In Contro il populismo di sinistra (Manifestolibri, pp. 125, euro 10, titolo originale: Populisme, le grand ressentiment) il sociologo francese Éric Fassin sostiene che la sinistra è stata attratta dal populismo perché in esso ha riconosciuto un’alternativa al neoliberismo. In un momento di profonda crisi questo concetto è sembrato un sinonimo di «socialismo».
Questo bilancio va spiegato alle luce di una rapida analisi della definizione del populismo data dai filosofi Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, riconoscendo a entrambi l’elaborazione di uno dei paradigmi che hanno ripoliticizzato il conflitto nelle società neoliberali. Questo conflitto non è stato tuttavia descritto come una lotta di classe ispirata da una critica del capitalismo e radicata nei rapporti di potere tra individuo e istituzioni, ma come un agonismo interno alla rappresentazione della politica. L’agonismo è una relazione tra avversari, non uno scontro tra nemici, ed è il fondamento di una democrazia insidiata dalle involuzioni autoritarie e razziste del «populismo di destra».

PIÙ CHE ALLE ASSONANZE con il «socialismo», è possibile che il richiamo di questa teoria sia dovuto alla difesa da sinistra di una visione liberal-democratica della politica e alla rilegittimazione di una vecchia idea: la lotta di classe non è più attuale. Quella degli sfruttati, perché i dominanti la fanno senza ritegno. Alla base di questa interpretazione esiste la convinzione per cui gli attori sociali si costituiscano al di là dei rapporti di produzione e che le lotte per la giustizia climatica, contro il sessismo, il razzismo e altre forme del dominio abbiano assunto una centralità maggiore rispetto alla lotta di classe. Sono considerazioni ricorrenti anche in Laclau e Mouffe sin dagli anni Ottanta del XX secolo e ritornano nel libro di quest’ultima Per un populismo di sinistra (Laterza).

Questa è un’interpretazione opposta a quella emergente nei femminismi intersezionali, nell’ecologia politica e nei marxismi dove si assiste all’iniziale tentativo di declinare queste lotte nel comune orizzonte di una «classe» oggetto di molteplici oppressioni e soggetto plurale di resistenze. Ciascuno nel suo specifico, e insieme in una prospettiva co-rivoluzionaria, potrebbero rivendicare un cambiamento singolare e universale, tanto nei rapporti di classe, quanto per la vita del pianeta. La «classe» non è intesa nei termini dei teorici populisti come il soggetto generale della politica al cui centro c’è una categoria della classe operaia (l’operaio specializzato, capofamiglia maschio e bianco), ma come una forza lavoro multinazionale sfruttata nella produzione e nella riproduzione al di là delle divisioni di sesso, razza e della specializzazione produttiva imposta dal capitale.

L’IPOTESI POPULISTA riconosce questa molteplicità non come una «classe» ma come uno spazio discorsivo che federa dall’esterno le identità e trova nell’immagine trascendentale del «popolo» la rappresentazione di una totalità incommensurabile. Prima criticato nella forma di classe operaia, il «soggetto generale» ritorna nel «popolo» considerato un «significante vuoto». È la singolare definizione di un soggetto prodotto da un’operazione linguistica e da una leadership che esprime la volontà assoluta del «Politico» e trasforma le masse in un’unità. Si può arrivare così a difendere la democrazia liberale con il paternalismo politico e si rischia di sovrapporre una visione ontologica – il populismo coincide con il popolo e con tutta la politica – con una campagna elettorale permanente. Contraddizioni possibili in una società dello spettacolo dove la teoria politica è confusa con il marketing sui social network.

LA CRITICA DI FASSIN e il suo riferimento alle «minoranze agenti» del conflitto si inseriscono in questa cornice. Tali minoranze, i movimenti contemporanei, sono descritte come gli «esclusi dal popolo», coloro che non sono inclusi in una presunta «sostanza comune», contestano le norme che premiano o puniscono chi non risponde alla disciplina, non si riconoscono nella divisione tra maggioranza e minoranza. Pur non esplicitata da Fassin, questa è una critica della democrazia che legittima formalmente lo sfruttamento materiale in tutti gli ambiti della vita in nome del popolo e delle sue leggi. Non significa essere antidemocratici, ma interpretare la democrazia nei termini marxiani del «movimento che abolisce lo stato di cose presenti» e lotta contro la divisione del mondo in proprietari e non proprietari, dominanti e dominati. Il potere del popolo confligge anche contro se stesso quando si tratta di realizzare l’uguaglianza di chiunque rispetto agli altri. Questa è la carica sovversiva della democrazia: demos+kratos può significare anche «comunismo». A questo proposito Fassin cita il filosofo francese Jacques Rancière secondo il quale il conflitto nasce da un dissidio sulla divisione in ruoli e sulla legittimazione delle gerarchie nella società. Gli esclusi, insieme a chi è centrale ma non è riconosciuto come tale, possono abolire l’ingiusto gioco delle parti, reinventarlo su una base comune, in ogni momento necessario. Si scrive democrazia, si legge lotta di classe.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 17 gennaio 2020.

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