di GISO AMENDOLA.
Capita spesso che i termini subiscano veri e propri processi inflattivi: come la diffusione dell’uso rende la moneta più leggera, così alle parole accade che il proprio valore semantico si assottigli proprio a causa dell’improvviso successo della parola stessa. Per “populismo” sta evidentemente accadendo la stessa cosa: usato per definire i fenomeni più diversi, per mettere in guardia da non meglio specificati pericoli estremi, spesso direttamente come insulto per il proprio avversario, più raramente rivendicato per distinguersi più nettamente da tutti gli altri, il termine sembra oramai aver perso qualsiasi determinazione.
Di sicuro, nessuno – o quasi – parla più di populismo con qualche riferimento a specifiche tradizioni storicamente definite o autodefinitesi propriamente populiste, russe, statunitensi o latinoamericane. Eppure, anche l’uso così sfuggente del termine ci dice qualcosa di quel che con il richiamo al populismo si intende evocare: un fenomeno magmatico, difficilmente classificabile e “inquietante” rispetto al panorama politico classico. Populismo sarebbe, in ogni caso, il nome di uno spettro, di una minaccia incerta, che ha a che fare contemporaneamente con un qualche passato che non intende passare del tutto, e con un futuro che incombe e allarma. Vediamo un po’ se questa idea diffusa regge: il populismo è una minaccia inquietante che preme dall’esterno sui nostri sistemi politici e li inquieta?
Una prima osservazione: come ogni spettro che si rispetti, il populismo è molto spesso evocato proprio per far paura. E la paura è, almeno fino a un certo grado, un classico elemento non di sovversione, ma di stabilizzazione dei sistemi politici. Nella tradizione della politica moderna, anzi, la paura è sempre il dispositivo per eccellenza chiamato in azione per produrre, rafforzare e rendere indiscutibile l’ordine sovrano. In questo senso, lo spettro, evocato utilizzando strumentalmente le paure comuni, ha la funzione di rafforzare esattamente quell’ordine che finge di voler minacciare. L’evocazione del pericolo populista riveste molto spesso sfacciatamente questa funzione: serve a provare a rimediare, agitando lo spettro, alla crisi di legittimazione che attraversa le democrazie contemporanee, senza provare minimamente a interrogare le cause di questa crisi e ad attraversarla. Non a caso, quando viene utilizzato in questo senso, il contenuto effettivo della minaccia “populista” che si agita viene sottaciuto, e considerato irrilevante: diventano “populisti” allo stesso modo movimenti nati all’interno della crisi e caratterizzati dall’opposizione alle politiche di austerity, come gli Indignados spagnoli prima e Podemos poi, movimenti ultranazionalisti come il Front National francese, fenomeni “gentisti” di protesta trasversale come l’italiano M5S.
Ovviamente, per quanto generica e tutta tesa a trovare scorciatoie per ritrovare consenso senza affrontare i nodi strutturali che hanno eroso la legittimità delle attuali governance liberali e/o (residue) socialdemocratiche, questa strategia non si dispiega nel vuoto, ma aggancia un fenomeno reale che effettivamente agita l’Europa: solo che l’indeterminata nozione di “populismo”, così buona ad infilare nello stesso sacco faccende eterogenee, non serve a chiarire di che natura sia l’effettivo spettro con cui abbiamo a che fare. Invece della genericissima definizione di populismo per tutto ciò che fuoriesca dai confini della governabilità liberaldemocratica, molto più precisamente e produttivamente si dovrebbe discutere dell’avanzata – questa sì molto meno indeterminata e realmente preoccupante – di movimenti e partiti di estrema destra in Europa. Sono partiti e movimenti che fanno della guerra ai migranti e del nazionalismo contrapposto all’”europeismo” i loro temi forti. Non si capisce bene cosa si guadagni, sia nell’analisi teorica che nelle risposte politiche, a far rientrare questi movimenti in una generica categoria di populismo: si tratta, infatti, di movimenti che, pur richiamandosi al “Popolo” quale entità omogenea, per l’accentuato statualismo, per l’organizzazione centralizzata che li caratterizza, e infine per non pochi richiami all’esperienze dei fascismi storici, pur essendosi distanziati dalle formazioni neofasciste classiche, sono più opportunamente definibili come movimenti postfascisti. Anche il loro rapporto con la governance neoliberale europea non può essere semplificato come un semplice rapporto di ostilità, malgrado questi movimenti si presentino come fieri oppositori dell’establishment: malgrado il loro linguaggio ami spesso richiamare la questione “sociale”, non mancano nelle loro piattaforme elementi di difesa della proprietà e delle gerarchie economiche nazionali perfettamente armonizzabili con le politiche neoliberiste, contestate più perché “cosmopolitiche” che perché proprietarie. La stessa governance neoliberale ne utilizza la presenza, sia per legittimarsi in quanto presunta “diga” democratica, sia soprattutto perché se ne serve per far passare elementi di ritorno al comando nazionale nel proprio stesso discorso. Il richiamo nazionalista entra così nello stesso discorso di governo, sia come minaccia nei confronti di paesi “infingardi”, pigri o in ogni caso non perfettamente allineati ai richiami al rigore finanziario, sia come rafforzamento dei confini interni e/o esternalizzati nelle politiche di controllo delle migrazioni. Questo presunto discorso “populista” sembra anche sotto questi profili giocare più come elemento di rafforzamento delle élites neoliberale, o al massimo di guerra civile al loro interno, che come opposizione.
Vi è poi un’ultima modalità di richiamo al “populismo”, nella quale invece l’elemento del popolo viene intenzionalmente giocato come momento di opposizione esplicita al neoliberalismo, e viene azionato “da sinistra”: si tratta di quelle retoriche di sinistra che riutilizzano il “popolo” come una sorta di riserva di energia da giocare per rivitalizzare un conflitto che non riesce più a darsi nelle forme classiche del conflitto di classe. Si pensi ai rimandi a un certo tipo di esperienze sudamericane, e in particolare, all’attenzione per la sofisticata teoria populista di Ernesto Laclau [Il riferimento naturalmente è a E. Laclau (2008), La ragione populista, Roma, Laterza, NdR]. Questo ritorno del “popolo” nei discorsi di sinistra, specie nelle versioni che si ispirano all’America Latina, ha evidentemente qualche argomento interessante a suo favore: soprattutto nella versione di Laclau, la politica “populista” cerca di rispondere a un’evidente trasformazione delle soggettività in campo, ad un’eterogeneità molto più marcata dei soggetti sociali rispetto al panorama del classico conflitto industriale, su cui si era formato l’alfabeto del marxismo ortodosso. Il problema, semmai, in questo tipo di approcci, è che la loro risposta alle trasformazioni che pure diagnosticano correttamente, continua a risiedere in una mossa molto tradizionale, quella che vede lo Stato come momento centrale anche nella costruzione di questo popolo “antagonista”. Il che del resto corrisponde alla natura più profonda di ogni discorso sulla costruzione del popolo, il quale, come Hobbes chiarisce nei termini più netti già alle origini della modernità, è sempre una costruzione, una rappresentazione prodotta dall’unità statale, un effetto della sovranità.
E qui forse sta il punto di debolezza di ogni richiamo populista “da sinistra”: è difficile provare a rispondere alla crisi della politica democratica moderna, attraverso dispositivi – quali quelli che si costituiscono attorno alla coppia sovranità/popolo – che sono esattamente quelli andati in crisi. Le nuove soggettività che irrompono sulla scena politica – e che potrebbero dare effettivamente corpo a un’innovazione radicale dell’intero campo politico – sono irriducibili alla riduzione all’unità all’interno della figura del “popolo sovrano”. Si pensi all’impatto radicale del femminismo, e a quello delle migrazioni, sulla concezione classica del soggetto e della cittadinanza, che viene totalmente spiazzata e resa inutilizzabile alla luce dell’incrocio delle lotte di genere, di razza e di classe. Al neoliberalismo i discorsi populisti rispondono, in fin dei conti, riattivando categorie di una politica statuale già consumata e in ritardo. Non serve perciò opporsi ai populismi barricandosi dentro i confini di grammatiche usurate, mentre è urgente e necessario sviluppare discorsi e pratiche nel segno di una radicalizzazione della democrazia, a cominciare innanzitutto dall’abbandono della centralità del suo soggetto tradizionale, quel “cittadino”, apparentemente neutro ma in realtà sempre maschio, autoctono, lavoratore salariato, per provare a immaginare nuove forme istituzionali per un campo attraversato da lotte di genere, meticce, precarie che non ascoltano, e mai potrebbero ascoltare, il richiamo del “popolo sovrano”.
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