Di TONI NEGRI
L’Europa è stata tagliata in due dal coronavirus e lo sarà ancor più duramente dalle sue conseguenze economiche e sociali: questa percezione è indiscutibile quando si abbiano presenti i bollettini della pandemia, ed è tradotta in maniera chiara dai differenziali nella misura della crisi del prodotto interno e/o del debito pubblico dei singoli paesi. A drammatizzare questi dualismi è giunta la sentenza del 5 maggio 2020 della Corte di Karlsruhe che ha intimato alla Banca centrale europea di non mutualizzare, in nessun modo, i suoi interventi a sostegno dei paesi membri dell’Unione, e quindi ha ingiunto alla Banca centrale tedesca di non collaborare all’opera della Banca centrale europea – nel caso il “delitto di mutualizzazione” fosse accertato.
Il problema al quale noi vogliamo qui guardare non è quello giurisdizionale: immediatamente, seccamente, la Corte Giuridica dell’Unione europea ha risposto all’intimazione della Corte tedesca dichiarandola incompetente nel merito.
E non è neppure quello di merito. Economisti di primo piano hanno sottolineato l’affetto senile della Corte tedesca per la teoria monetaria di Milton Friedman e la totale incomprensione delle strategie monetarie anticicliche, concludendo che la sentenza di Karlsruhe potrebbe produrre effetti negativi sullo stesso valore dei Bunds (i buoni del Tesoro) tedeschi.
Infine, non è neppure da un punto di vista ideologico che la questione ci si pone quando si percepisca il pregiudizio normativo che le istituzioni tedesche sovente esprimono, ultra vires, sugli ordinamenti giuridici, politici, e sociali di altri paesi dell’Unione – quasi, dunque, l’ultima sentenza di Karlsruhe fosse un richiamo all’ordine (per così dire “storico-ideale”) della propagazione della potenza germanica sull’Unione.
Il problema che qui poniamo è quello politico. Ci chiediamo cioè quale sia la ragione per la quale questa sentenza è stata promulgata oggi, quando la discussione sulla necessaria solidarietà comune degli europei nella pandemia teneva il centro dell’interesse politico. Ora, a noi sembra che il significato di questa sentenza abbia poco a che fare con la difesa del cittadino germanico, ma sia interamente concepito come strumento di difesa e di perpetuazione del neoliberalismo. La Corte costituzionale tedesca non è solo rappresentante della classe capitalista tedesca, ma è, in quest’occasione, l’agente politico della classe capitalista europea.
Per chiarire quest’affermazione dobbiamo innanzitutto ricordare che il progetto neoliberale come cornice nella quale l’Unione europea deve svilupparsi, è stato imposto non solo dal più potente Stato-nazione (la Germania) ma dal consenso delle classi dirigenti di tutti gli altri paesi europei – un accordo che ha coinvolto globalmente, ed organizzato nel tempo, i centri di potere del capitalismo europeo. L’accordo è stato stipulato sull’impegno di costruire istituzioni economiche e sociali consolidate attorno ad un debito pubblico decrescente e ad un’inflazione vicina allo zero. E soprattutto nell’invarianza e nella continuità – “costi quel che costi” –, disse Draghi, “whatever it takes”, del modello di accumulazione e sviluppo neoliberale. Questo accordo (ed il consenso previo) è la sigla della decisione della classe imprenditoriale europea di sganciarsi definitivamente anche dai residui del liberalismo interventista e keynesiano del secondo dopoguerra. E di costruire così una società fino in fondo aperta all’iniziativa d’impresa rappresentata da un individualismo estremo. La costruzione della Banca centrale europea, la radicale garanzia della sua indipendenza, hanno rappresentato il capolavoro di questo progetto.
Che cosa induce oggi la Corte di Karlsruhe a sparare contro questa istituzione principe del capitalismo neoliberale europeo? E di farlo in nome dei “diritti dell’uomo”, santificati come “ewige” – “eterni”– nella Costituzione tedesca? Un’“eternità” in realtà ridotta all’eternità dell’apologia del possesso e della difesa della proprietà? [Da vecchio hegeliano, ricordo un passo di Hegel, ancor giovane ma già buon conoscitore del diritto tedesco: “Secondo i suoi principi originari, il diritto statuale tedesco è propriamente un diritto privato ed i diritti politici un possesso, una proprietà”. Siamo ancora lì?]. Per finire, chiediamocelo ancora una volta: può essere un interesse nazionale quello che Karlsruhe sostiene? Abbiamo già sottolineato la fragilità di questa risposta, che, presa sul serio, suonerebbe in maniera profondamente contradditoria. Significherebbe che la Corte tedesca si muove contro l’interesse degli stessi capitalisti tedeschi che hanno trovato nel funzionamento del mercato europeo e nella conseguente forza dell’euro (oltreché nella sua stabilità) un’eccezionale arma di espansione. Ben al di là di qualsiasi riserva nei confronti dell’azione della Banca, il capitalismo tedesco chiede un’ulteriore rafforzamento dell’euro come moneta di scambio internazionale e del mantenimento del consenso europeo a questo progetto – quale garanzia della capacità di conquista dei mercati globali da parte tedesca ed europea. Insiste inoltre sulla necessità di fissare, in un mondo in grande subbuglio, una posizione internazionale della Germania/Europa più equilibrata e attiva all’interno della cosiddetta de-globalizzazione (e cioè della perdita di sovranità imperiale e monetaria degli USA).
Se questa è la posizione del padronato tedesco, in genere ben servito dai suoi governi, dobbiamo concludere che la recente presa di posizione della Corte suprema tedesca, lungi da ogni altro motivo, sia fondamentalmente motivata dalla previsione della crisi sociale che la pandemia ha provocato e che investirà l’Europa per un lungo periodo. Attraverso la sua presa di posizione, la Corte incita a reagire alla crisi sociale attraverso le consuete modalità dell’“austerità” e a proporre, per l’uscita dalla crisi, il rinnovamento puro e semplice del regime ordo-liberale. Meglio, il completamento del progetto ordo-liberale fin qui sempre incompiuto. La sentenza della Corte è un appello a reprimere ogni modificazione del rapporto di forza tra le classi, che potesse darsi all’uscita dalla crisi e nel lungo periodo di aggiustamenti sociali e politici che ne seguirà. Essa è dunque puramente e semplicemente una sentenza politica, un dispositivo reazionario.
Se assumiamo questa prima conclusione, potremo subito trarne alcune conseguenze. In primo luogo, che questa sentenza non è diretta contro le attuali decisioni della Banca centrale europea e neppure contro la riaffermazione (subito espressa) della supremazia della Corte di giustizia europea su ogni Stato partecipe. La presente, e le eventuali nuove contraddizioni tra queste istituzioni, potranno convivere all’interno di una gerarchia ed una gradazione politica della governance europea. Il percorso sarà difficile ma certamente non ostruttivo della coerenza della governance europea, oggi del tutto concentrata – ed in maniera unitaria – sulla ripresa e sul perfezionamento della macchina di accumulazione costruita nell’ultimo cinquantennio. In secondo luogo, la sentenza di Karlsruhe opera nel senso di un’accelerazione del processo trasformativo del capitalismo europeo, ponendone l’obiettivo oltre la prima fase di ricomposizione del ceto politico del capitale. Non c’è dunque da leggere nella sua iniziativa solo un richiamo all’ordine ed alla norma capitalista – non c’è solo, eventualmente, un cenno sornione al motto della conservazione “bisogna che tutto cambi, perché nulla cambi”: c’è soprattutto l’impegno a rinnovare – con le forze proprie del capitale – l’intero mondo di produzione, riproduzione e circolazione delle merci, secondo criteri di comando sempre più utili – profittevoli e coercitivi. Qui si passa infatti dalla lunga fase ordinata allo sfruttamento di plus-valore assoluto e relativo ad un’altra fase di sviluppo caratterizzata dall’estrazione del comune. Attraverso la Corte tedesca, il ceto capitalista europeo ci indica che questo passaggio sarà condotto con il massimo della forza, fuori da ogni illusione riformista. Il capitale agirà in prima persona – le salmerie, anche quelle giurisdizionali, seguiranno.
Siamo così giunti al momento centrale dello scontro di classe che prima del covid-19 si era aperto e che oggi, dentro la crisi e lo stato d’eccezione sanitaria, si approfondisce in maniera fatale. Quando si dice che il mondo, dopo questa pandemia, non sarà più il medesimo, non si dice una falsità: il nuovo modo di produrre (internet, intelligenza artificiale, robotizzazione, piattaforme, ecc.) attende, giovandosi di questa crisi come mediazione distruttiva del vecchio sistema, l’instaurazione di una nuova forma politica della società produttiva.
Ricordiamo tuttavia che attorno a questa scadenza, in Europa, la lotta di classe si è aperta da alcuni anni. La crisi del coronavirus non ha fatto altro che approssimarne il punto di contraddizione e di scontro definitivi. Una soluzione violenta perché decisiva sarà la chiusura del dilemma che ora ne caratterizza il contenuto centrale: quale futuro sarà costruito?
Ora, per avanzare nell’approfondire l’analisi dello scontro, val la pena di dare subito a quel contenuto il suo nome proprio: il nome del comune. Sarà dunque una conferma del dominio capitalista sul comune o la rottura di quella catena e l’inizio di un processo di liberazione del comune? Lo sviluppo capitalista invadendo “assolutamente” (“sussunzione reale” dice Marx, “capitalismo assoluto” interpreta Balibar) la società ha anche riorganizzato i rapporti di produzione, riproduzione e circolazione in maniera radicale. Essi si danno “in rete”, e in tali reti si collegano, si articolano o si compattano condizioni, processi e prodotti finali di un modo di produzione sempre più connesso e comunemente reso operativo. La ricchezza è oggi consistente in questa comune connessione. Il processo sul ritmo del quale dallo sfruttamento attraverso l’estrazione di plus-valore relativo si passa all’estrazione di plus-valore determinato dall’associazione/comunità (per quanto grezza o disorganica essa possa essere) del lavoro sociale (della forza-lavoro, considerata nell’insieme delle sue relazioni sociali) rivela la potenza produttiva del comune, assieme alla violenza espressa dall’organizzazione del comando. Comuni sono infatti non solo le grandi istituzioni della circolazione delle merci che si basano su piattaforme aperte al consumo e fondate sulle analisi di big data; non solo le figure della riproduzione, soprattutto quelle della famiglia e della cura, che prevedono il welfare come loro sostegno e produzione; e neppure solo le strutture produttive che hanno ormai al cuore della loro concezione ed esecuzione il valore di una forza-lavoro costruita nei percorsi comuni dell’educazione e del sapere. È su questo terreno, dentro questo paesaggio, che il tema Europa si ripropone nell’attuale crisi, quando sta terminando l’eccezionalità sanitaria ma si riapre la lotte di classe – e i governi sono fortemente sollecitati (anche da luoghi tanti autorevoli quale può essere la Corte di Karlsruhe) ad assumere una linea di drastiche decisioni per rafforzare la continuità e per dare (se possibile) sviluppo alle forme del comando di produzione pre-crisi – gradino per passare alla riforma del sistema.
Non bisogna, fra l’altro, dimenticare che parte del padronato europeo (e quello francese in particolare) ha potuto considerare la crisi del covid-19 come un dono caduto dal cielo, per interrompere un movimento di lotte sul salario, per una nuova democrazia e per il riconoscimento istituzionale del comune, che da un paio d’anni avevano reso impervio l’esercizio della governance neoliberale. Le lotte del proletariato francese rappresentavano infatti ormai nelle sempre più larghe convergenze che producevano un contropotere effettivo, capace di interrompere la governance neoliberale. Questa rottura della continuità quotidiana delle lotte di classe non aveva comunque cancellato il ricordo della potenza della comune proletaria che si era espressa. Quelle lotte sono pronte a ricominciare!
Ma ritorniamo alla centralità dello scontro che si presenta al termine della crisi sanitaria e degli strumenti eccezionali messi in atto per risolverla. Quelli padronali li abbiamo già ampiamente conosciuti: le regole dell’austerità nella gestione del “pubblico” e le norme per la sua privatizzazione. Si aggiungono oggi il tentativo di prefigurare in concreto un nuovo “diritto del lavoro” che si presenta come dispositivo per una radicale trasformazione della giornata lavorativa sociale in una giornata di alta mobilità e flessibilità lavorativa (con un appesantimento dell’orario di lavoro). Si aggiunga a questa politica del lavoro ed alla forte pressione finanziaria (e di privatizzazione) sulle istituzioni di cura (ospedali, ricoveri, ecc. – proprio quelle più massacrate nel trentennio precedente) un solido tentativo di frantumare il sistema del welfare, contro la sua necessaria universalizzazione, spesso proclamata ipocritamente anche da parte capitalista durante la crisi covid-19. Ciò che più spaventa, in questo caso, è il fatto di trovarsi di fronte ad un’iniziativa capitalista indebolita dalla percezione della crisi del modello neoliberale ma al tempo stesso impaurita da questa debolezza: capace quindi di esasperare le sue reazioni in senso fascistoide.
In che modo i movimenti sociali dei lavoratori potranno sostenere l’impatto di classe, la lotta sul destino futuro? Innanzitutto costruendo un discorso capace di far convergere le lotte sviluppatesi prima del black-out emergenziale (prima fra tutte quelle dei gilets jaunes e quelle del movimento femminista), le tante lotte singolari condotte durante il lockdown in questi mesi, con nuove forti agitazioni e scioperi nella nuova fase, soprattutto nel settore della riproduzione sociale. L’universalizzazione del welfare e l’universalità di un reddito sociale di base incondizionato divengono oggi il punto centrale del programma degli oppressi. Al quale si aggiunga il tema di una democrazia ricostruita dal basso, di un sistema di welfare gestito dal basso, insomma della costruzione di un programma offensivo di lotte sul terreno europeo.
E per concludere torniamo così alla constatazione che l’Europa è tagliata in due, fra paesi del Sud e paesi della nuova Lega Anseatica, dietro alla quale occhieggia il padronato – non solamente quello tedesco ma quello europeo tutto insieme. Come potranno i movimenti europeisti e comunisti, i movimenti del Sud, muoversi in questa situazione? Come agire nel duplice senso nel quale hanno sempre portato avanti la loro iniziativa a livello europeo 1. al fine di dare espressione europea alle lotte che si sviluppano nei paesi del Sud, e 2. di affermare il progetto di un’Europa unita, al centro del loro programma? L’unica risposta che i movimenti possono dare a queste domande sulla base delle esperienze fin qui condotte, è che bisogna unire le forze, tutte le forze a livello europeo, per disarcionare dal comando i rappresentanti del capitalismo europeo. I movimenti non credono alla possibilità di staccare i capitalisti di un paese europeo da quelli di un altro paese europeo e di unire il destino di ciascuno di questi a quello della classe lavoratrice del proprio paese: la storia moderna ha insegnato che queste vie non sono percorribili, meglio, che la socialdemocrazia – percorrendole – ha per due volte permesso guerre europee fratricide mostruose. Quando poi di guerra non si è più parlato, l’egoismo nazionale non è stato meno provvido di disastri economici e sociali – nonché delle ormai enormi contraddizioni della costruzione europea. Siamo invece convinti che si possa dare un processo di collaborazione tra le forze proletarie che vivono e si sviluppano in tutti i paesi europei e di costruire con essi una nuova iniziativa europea. Per un’Europa unita ma costruita democraticamente dal basso, produttiva ma resa tale da una popolazione che gode dell’universalità del reddito e del welfare, potente come solo nella difesa della pace può esserlo un paese… e giovane perché i suoi cittadini non avranno paura del futuro.