di eXploit.1
“Produzione, distribuzione, scambio, consumo, formano così un sillogismo in piena regola; la produzione, è l’universalità; la distribuzione e lo scambio, la particolarità; il consumo, l’individualità in cui il tutto si conchiude” (Karl Marx, Grundrisse)
“Mano a mano che la proprietà privata avanza dalla terra al capitale all’informazione, la proprietà stessa si fa più astratta. Il capitale come proprietà libera la terra dalla sua fissità spaziale. L’ informazione come proprietà libera il capitale dalla sua fissità in un oggetto particolare. Quest’ astrazione della proprietà fa della proprietà stessa qualcosa di soggetto all’innovazione accelerata, e al conflitto” (Wark McKenzie, Un manifesto hacker)
La rete, con la sua pervasività sempre più palpabile, non plasma soltanto la nostra vita microscopica, modificando radicalmente il modo di comunicare e quindi la percezione del rapporto con gli altri, ma svolge ormai un ruolo sempre più fondamentale nell’ evoluzione macroscopica di nuove forme di produzione e quindi di estrazione di valore. Le forme caratteristiche di economia del Web 2.0, basate sulla condivisione di informazione anziché sulla sua chiusura permettono la messa a valore delle relazioni sociali e del lavoro cooperativo, ridefinendo i classici ruoli di produttore e consumatore e facendo collassare la separazione tra tempo libero e tempo produttivo, tra tempo di vita e tempo di lavoro. Questi profondi riassetti, quasi paradigmatici, ci costringono a riconsiderare non solo i nuovi meccanismi di sfruttamento ma anche e soprattutto il modo in cui le pratiche liberanti devono adattarsi al nuovo scenario. Di questo scenario la rete è indubbiamente il luogo cardine, non scisso dal reale ma parte di esso in quanto vero e proprio habitat delle relazioni sociali. Relazioni sociali che la rete mette a valore, mercificando in modo pervasivo tempi di vita non ben individuabili né nettamente scindibili dai tempi non valorizzati.
Centrale è la contraddizione tra controllo e liberazione, tra pratiche liberanti e pratiche assoggettanti, entrambe sempre presenti. Una compresenza simbolo della contraddizione in processo di cui il capitalismo è sempre impregnato. Un analisi sui nuovi mezzi di comunicazione non deve arenarsi in dicotomie ormai superate, se non vuole rischiare di cadere in pericolose tentazioni tecno-apocalittiche o di rifiuto della partecipazione attiva sul mondo dei social network. Come le dinamiche degli acampados spagnoli hanno dimostrato, l’utilizzo della rete nell’ organizzazione delle mobilitazioni permette una comunicazione e un organizzazione in tempo reale senza precedenti, seppur al costo di sottoporsi ad un sistema di controllo e repressione molto più efficiente. Ma questo è il gioco. Login e password sono la firma nel patto col diavolo dei Big Data. Un patto liberante, un patto assoggettante.
Anche la stessa dicotomia tra materiale e immateriale, applicata al mondo della rete, risulta insufficiente se non fuorviante; da un lato, infatti, esiste uno sfruttamento senza pari nella produzione materiale interamente connessa a una serie di servizi “virtuali” in rete; dall’altro la rete stessa è un vero e proprio spazio di produzione immateriale di valore, costantemente soggetto a sfruttamento ed espropriazione.
Come rompere il diabolico meccanismo contraddittorio, come exploitare il bug che permea il capitalismo cognitivo è la sfida che noi, precari dell’era dell’informazione, dobbiamo porci.
Nuove forme di sfruttamento in rete
Partiamo da una costatazione: l’utopia del capitalismo senza lavoro (o meglio, di uno sviluppo capitalistico sempre meno bisognoso di mettere a valore il lavoro materiale degli esseri umani, che ha accompagnato, fino ai primi anni 2000, i progressi dell’informatizzazione e il suo divenire fenomeno di massa, pervasivo di qualunque aspetto della vita e della produzione) si è dimostrata completamente infondata.
Abbiamo assistito a una progressiva “immaterializzazione” della produzione sulla quale l’economia capitalistica mondiale si incentra, e quindi alla tendenza del Capitale a concentrare l’estrazione di plusvalore sempre meno negli ambiti produttivi “classici”, a cui eravamo abituati fino al secolo scorso (primo fra tutti il lavoro operaio) in favore di nuovo ambito, che riguarda tutto ciò che va sotto la definizione di “Lavoro cognitivo”. Quindi, ogni aspetto della produzione intellettuale, affettiva, relazionale, individuale e collettiva. L’informatizzazione dei processi produttivi ha, ovviamente, costitutito una grossa opportunità per il Capitale di riprodursi proprio in questa direzione, dal momento che il Web, in quanto flusso continuo di informazioni, dati e idee che viaggiano in una dimensione globale rappresenta, per eccellenza, lo spazio di creazione e circolazione di tali forme produttive.
A diventare progressivamente immateriale, quindi, è la produzione; questa modificazione non va, però, identificata con una analoga modificazione della natura del lavoro umano: in quanto energia muscolare e mentale messa a disposizione o investita nellla produzione, il lavoro cognitivo, e il lavoro che sta intorno o passa per la rete, non perde gli aspetti (anche più brutali) della propria materialità. Immateriale è la produzione, materiale rimane sempre il lavoro vivo da cui si estrae plusvalore, sebbene le forme di sfruttamento siano necessariamente andate incontro a delle modificazioni in grado di renderle efficaci nel presente.
Un primo livello di analisi dei meccanismi di sfruttamento riguarda tutto il mondo del lavoro, che potremmo definire “classico” (inteso come lavoro a produzione prettamente materiale), che ruota intorno al mondo della rete: parliamo di tutto ciò che riguarda la produzione di supporti e materiale informatico che ci permette di accedere al Web. Questa fetta di industria, estremamente redditizia e di notevole peso nell’economia mondiale, è gestita globalmente da grandi corporations che hanno fatto della dislocazione dei luoghi di lavoro su scala globale la propria forza. Ovviamente, le condizioni lavorative proposte (imposte) da queste aziende sono ben al di sotto, banalmente, di qualsiasi rivendicazione minima abbia animato le lotte sindacali classiche, per come le abbiamo conosciute e reputate insufficiente nel secolo scorso.
Tristemente famoso è diventato il caso della Foxconn, la più grande multinazionale che fornisce componenti elettrici ed elettronici per i produttori di apparecchiature originali in tutto il mondo (Amazon.com, Apple, Dell, HP, Microsoft, Motorola, Nintendo, Nokia, Samsung, Sony) con stabilimenti presenti in Cina, Est Europa, Malesia e Messico. Le condizioni lavorative dell’azienda sono tali che, soprattutto negli ultimi anni, il numero dei suicidi tra i dipendenti ha fatto scalpore in tutto il mondo. Addirittura, negli stabilimenti cinesi (i più numerosi, costruiti secondo una struttura da “campus”, vere e proprie cittadine isolate da cui i lavoratori non dovrebbero avere necessità di uscire pressochè mai) l’azienda ha deciso di istallare delle reti “antisuicidio” in prossimità dei parapetti.
Al secondo livello si colloca, invece, la forma produttiva propriamente “immateriale” che caratterizza la rete: tutto il mondo del lavoro, cioè, che offre servizi, idee e competenze per la creazione e la circolazione dei dati e delle informazioni di cui è intessuto il web. Sono forme di lavoro materiale ancora legate, almeno teoricamente, ad una retribuzione: si parte dal lavoro dei programmatori e degli informatici in genere (più o meno sottopagati e sfruttati, sempre più oggetto del ricatto della perenne formazione, che propina vere e proprie prestazioni di lavoro a titolo gratuito sotto forma di tirocini, stage e progetti formativi in genere) e si arriva alle forme lavorative più nuove, la cui nascita è peculiarmente legata alle ambivalenze dell’universo del web. Parliamo di forme di lavoro a domicilio, prevalentemente accettate da chi, per ragioni di età o genere o altro, è escluso da altre forme di immissione nel mondo del lavoro; si tratta di lavori per lo più a cottimo, in cui si richiede una prestazione più o meno occasionale che consiste nel compiere delle piccole operazioni online, prive di qualsiasi significato per chi le opera, ma necessarie a siti e portali per il proprio funzionamento. I lavoratori di questo campo (i cosiddetti “Turchi meccanici”) sono privi di qualsiasi garanzia sindacale, ricevono un compenso pressochè nullo e possono essere licenziati o non pagati in qualsiasi momento, a discrezione del committente. A causa della estrema frammentazione dei luoghi di lavoro, le possibilità di organizzazione in forme “tradizionali” di questi lavoratori (rivendicazioni sindacali, class actions) sono quasi annullate.
Oltre a queste forme di sfruttamento, più facili da analizzare con categorie note, la rete ci pone, però, di fronte a forme di estrazione di plusvalore completamente inedite, la cui individuazione e osservazione si pone come una sfida; la messa a valore della produzione cooperante su cui si basa principalmente il flusso delle informazioni in rete; la valorizzazione capitalistica, cioè, delle operazioni che ognuno di noi compie ogni giorno nel suo essere online (basti pensare che molte di queste corrispondono completamente al lavoro per cui sono ingaggiati i cossiddetti “Turchi meccanici”), delle relazioni e della scambio relazionale che vi investe (i social networks), dell’espressione di pareri, idee, gusti, opinioni, su cui si fonda l’economia delle enormi aziende che fanno nella rete la loro fortuna e sono tra i più grandi colossi dell’economia mondiale contemporanea.
Questa forma di sfruttamento del “general intellect”, che trova nella rete la sua forma più perfetta, è completamente svincolata da qualunque forma retributiva e rende completamente obsolete categorie di analisi e di prassi precendentemente create e utilizzate per parlare di lavoro: salario, orario, produttività individuale.
La rete diventa il luogo in cui, ad ogni evidenza, la vita stessa viene messa a valore, la vita stessa viene messa a lavoro. La sfida, oltre che nell’analisi, passa anche per la ricerca di nuovi strumenti rivendicativi che ci permettano di scardinare questa contraddizione.
Nuove alleanze per nuove pratiche conflittuali
Con un modello economico così capillare la vecchia ripartizione marxiana del ciclo produttivo (produzione, distribuzione, consumo) si amplifica spazialmente, perchè le merci – i dati – sono prodotti a migliaia di chilometri dal consumatore, ma viene a cadere temporalmente, perchè l’ intera catena si compie in un tempo di click.
La dispersione spaziale comporta innanzitutto individualizzazione. Il lavoro cognitivo è il lavoro senza fabbriche, né come luogo fisso di sfruttamento né come luogo di ricomposizione di classe, e ciò rende ancora più difficile una presa di coscienza della classe cognitiva. Per lo stesso motivo, e anche a causa della fusione temporale tra tempi di lavoro e tempi di vita, le vecchie forme di blocco della produzione sono obsolete se non impossibili: l’orario di lavoro è diffuso, non ben delineato, e non esiste la fabbrica come luogo di azione diretta.
Per agire nell’era della produzione diffusa deve essere diffuso anche il sabotaggio stesso, agendo sui flussi virtuali che costituiscono le nuove autostrade, i nuovi binari da occupare.
Cosa succederebbe, per esempio, se durante uno sciopero dei lavoratori della logistica, venissero bloccati i server che gestiscono il lavoro delle stesse ditte, appartenenti a un settore dall’impianto organizzativo oggi completamente informatizzato?
La premessa fondamentale per un simile genere di azioni, ovviamente, sono le adeguate competenze tecniche, di cui i movimenti oggi sono carenti. Se fino a pochi anni fa termini come “attacco Ddos” o “brutal force” erano formule riservate all’ underground della scena hacker, è soprattutto l’ interessante fenomeno di Anonymous ad aver alterato in maniera sostanziosa la tipologia di pratiche di attacco informatico, estendendo la possibilità di partecipazione alla massa. D’altro canto, la necessità di anonimato sul web rende impossibile la costituzione di adeguate forme di riconoscimento tra partecipanti, carenza che si sente in particolar modo a seguito degli arresti di hacktivisti, che passano inosservati senza essere adeguatamente contrastati da una comunità su cui poter fare affidamento. Abbattere il muro tra movimenti sociali e hacktivisti, aprire spazi reali di aggregazione in cui confrontare competenze tecniche e politiche sulla rete è il passo decisivo che dobbiamo affrontare.
La stessa trappola individualizzante che agisce nel mondo dell’ hacktivismo è quella che isola il lavoratore cognitivo. La contraddizione cardine del lavoro cognitivo è il suo derivare fortemente da una cooperazione sociale tra individui che non si conoscono e spesso non sono in grado di riconoscere la loro produzione collettiva. La Rete non ha fatto altro che potenziare quel meccanismo di espropriazione della produzione collettiva del sapere che è già in atto da tempo, protrattasi negli anni grazie alla proprietà intellettuale. Il riconoscimento di una forma di produzione così pervasiva ed in stato avanzato è ciò che ci porta a trarre un ultima conclusione, che è il punto di arrivo della nostra riflessione.
La Rete come campo di battaglia per la rivendicazione di reddito
C’è un ultima considerazione da poter fare dopo aver riassestato l’analisi riguardo le forme di espropriazione e di possibile blocco della produzione. Ad una valorizzazione diffusa infatti segue anche la necessità di una rivendicazione diffusa. In una fase in cui le ore di lavoro non si possono contare perché diluite nell’arco della giornata in maniera camaleontica ogni rivendicazione di tipo sindacalista pare quasi priva di senso, così come un aumento di retribuzione per ogni ora di lavoro.
L’unica istanza consistente, dunque, diventa quella di un reddito diffuso, incondizionato, universale, che sappia superare la retorica del guadagno meritato con il lavoro ponendo le basi per una nuova fase argomentativa. La Rete diventa quindi spazio di conflitto fondamentale per la rivendicazione e l’assunzione di credibilità pubblica nella lotta per il reddito.
A questo si aggiunge il fatto che un reddito universale è l’unica via d’uscita dall’ impasse creata dal capitalismo 2.0 basato sulla condivisione e quindi fondato sul superamento della proprietà intellettuale. L’apertura della produzione alle licenze libere pone infatti il problema della remunerazione dell’artista/lavoratore cognitivo, che non guadagna dalla proprietà delle sue opere, ma vede comunque estratto valore dalla condivisione e dall’utilizzo delle opere stesse nel “social web”. Nelle circostanze che ci troviamo a vivere nell’era dell’espropriazione diffusa la richiesta di un reddito incondizionato dalla condizione lavorativa salariata è una richiesta più che legittima e coerente, e risulta l’unico mezzo con cui la componente precaria può emanciparsi dal ricatto del capitalismo cognitivo.
[Analisi prodotta dall’assemblea di eXploit a conclusione della prima parte di Tied in the Web, percorso di autoformazione sulla Rete e i processi che lo spazio virtuale mette in atto. Forti della sinergia tra diversi campi di studio della componente universitaria e credendo nelle potenzialità della pratica dell’ autoformazione abbiamo indagato i nuovi riassetti della produzione nel capitalismo cognitivo avanzato e le potenzialità che si aprono oggi per i movimenti.
Per il programma completo: http://exploitpisa.org/programma-del-laboratorio-tied-in-the-web/
Analisi prodotta dall’assemblea di eXploit a conclusione della prima parte di Tied in the Web, percorso di autoformazione sulla Rete e i processi che lo spazio virtuale mette in atto. Forti della sinergia tra diversi campi di studio della componente universitaria e credendo nelle potenzialità della pratica dell’autoformazione abbiamo indagato i nuovi riassetti della produzione nel capitalismo cognitivo avanzato e le potenzialità che si aprono oggi per i movimenti. Il programma completo è → qui ↩