Di GIROLAMO DE MICHELE

1. Nella commedia all’italiana Anni ruggenti, un compassato Nino Manfredi si rivolge all’esagitato fascista Gastone Moschin, che ha perorato la partenza dei volontari alla guerra di Spagna con roboante oratoria, chiedendogli: “Voi partite col secondo scaglione?”. È una domanda che andrebbe rivolta ai molti autoproclamatisi analisti politici che negli spazi comunicativi si accalorano sull’invio di armi all’Ucraina – peraltro, senza chiarire quali armi, e a quali destinatari. Il correlato di questi discorsi è da un lato la legittimazione della resistenza ucraina – come se, putiniani a parte, qualcuno la mettesse in discussione; dall’altro, che chi dissente dal discorso sulle armi sia, oltre che un’anima bella o un pacifinto, un pacifista da tastiera. Fatto è che dietro una tastiera ci siamo tutti, pacifisti e sostenitori dell’invio di armi: perché nessun partecipante all’agorà mediatica ha, in questo momento, la minima possibilità di influire sulle decisioni che vengono prese altrove. Non si dice Biden, ma neanche Draghi telefonerà a uno qualunque di questi opinionisti per chiedere parere: questo è un fatto. Che pone un problema di non poco conto: in che modo, non solo sulla questione della guerra, ricostruire uno spazio pubblico in grado di rendere performativi gli enunciati che emergono nella discussione pubblica.

2. Peraltro, la foga di taluni opinionisti sembra orientata, con l’alzare dei toni, ad attutire la memoria di posizioni più o meno recenti, che sarebbe bene ricordare. C’è chi, all’indomani della vittoria elettorale del centro-destra nel 2018, si affrettava a citare autorevolmente in prime time “il filosofo Diego Fusaro”; chi ha profetizzato l’avvento del “gigante indiano” e la nascita di un blocco indo-cinese, il cosiddetto “impero di Cindia”; chi poche ore prima dell’invasione russa metteva in guardia dal blocco del sistema SWIFT, e sosteneva che riconoscere le autoproclamate repubbliche secessioniste dell’Ucraina orientale non preludeva a una dichiarazione di guerra: filosofie politiche alla carta e geopolitiche prêt-à-porter, insomma, rese possibili dal fatto che delle cantonate passate nessuno sembra chiedere conto. Il che è una delle facce della peste del linguaggio che ha da tempo contagiato lo spazio pubblico.

3. Le armi: quali, e a chi? Se c’è una merce che non sembra mancare alla resistenza ucraina (che è costituita da soldati di mestiere), sono proprio le armi di piccolo e medio peso. Capita piuttosto che la cattiva merce, cioè quella bellica, scacci quella buona: viveri, farmaci, generi di conforto. Dei quali si interessa attivamente quella galassia pacifista che, in modo spontaneo, si occupa dell’invio di materiali e del supporto al diritto alla fuga dei profughi. E del resto neanche il bellicoso presidente ucraino Zelinsky chiede fucili o munizioni: chiede piuttosto tank, aerei, la no fly zone. In poche parole, la partecipazione attiva alla guerra del cosiddetto Occidente, in una delle sue molte incarnazioni – Unione Europea, NATO, USA. Sarebbe dunque doveroso che chi parla di invio di armi all’Ucraina chiarisse se intende – e allora lo dica – una dichiarazione di guerra, o no. Sempre ricordando che nessuno consulterà Rampini o Gramellini, prima di dichiararla.

4. Sicché, in un mare di chiacchiere roboanti – ma anche, va riconosciuto, di discorsi più pacati e ragionati, ma parimenti impotenti – le uniche azioni concrete, al di là della tastiera, delle prime pagine dei quotidiani e dei palchi televisivi, sono quelle compiute dalle anime belle – ebbene sì: rivendichiamola, questa definizione, appropriamocene! – da Mediterranea a Emergency alla Caritas, fino alle mille associazioni, ma anche alle singolarità cui basta un mezzo capace e due giorni liberi per portare soccorso e salvezza sulla frontiera ucraino-polacca. E, con buona pace di qualche starlette televisiva, senza dimenticare che il fronte orientale si aggiunge, ma non si sostituisce a quello meridionale, nel quale si continua a morire per annegamento o per mano della cosiddetta guardia costiera libica armata e finanziata dall’Italia, se non giunge per tempo il soccorso navale.

5. La peste del linguaggio, si diceva. Quell’allestire a misura di audience nei luoghi deputati alla discussione un Circo Barnum nel quale deve necessariamente esserci un barboncino parlante e un clown col naso rosso: e, simmetricamente, quello sgomitare di barboncini e clown disposti a farsi avanti per recitare la parte. È questo uno dei peggiori retaggi dei due anni di discussione pubblica avvelenata in tempo di sindemia: lo smarmellarsi delle differenze in una pappa indistinta nella quale sono confusi la filosofa pacifista che ha scritto Stranieri residenti e l’opinionista filo-russo fino a ieri aduso ad odiose affermazioni sui migranti; e, più in generale, la sovrapposizione intenzionale, condita dal conseguente dileggio, fra chi prepara la pace perché vuole pace, e chi strumentalmente dice pace per nascondere la propria adesione alla crociata putiniana. Non è un caso che, come osserva Luigi Manconi, si appalesi “una perfetta integrazione tra ostilità al vaccino e apprezzamento per Putin”, descrivibile attraverso (almeno) quattro categorie: sindrome del nemico, mania di persecuzione, sovranismo corporale e geo-politico, odio per le élite. Fermo restando che, detto pour cause, qualcuno (magari chi lo aveva candidato alla presidenza della Repubblica) dovrebbe chiedere allo stesso Manconi se la Buona Scuola, che lui votò in Parlamento senza proferire una sola parola di dissenso, rende oggi più facile o più difficile combattere questa peste logico-linguistica. Se oggi è possibile dileggiare quotidianamente un intellettuale che da anni, con lo sguardo della fisica teorica, cerca di “pensare il mondo come un insieme di eventi, di processi”, e non come una collezione di cose, e sostituire uno sguardo complesso con la lettura dei fondi di caffè nella tazzina, qualche domanda su quello che alla scuola è stato fatto nell’ultimo ventennio bisognerebbe farsela.

6. Ho scritto: crociata putiniana. La dico meglio: quella rappresentazione semplificatrice di opinionisti facilitatori che descrivono lo spazio europeo come luogo di un conflitto tra presunte élite globali e difensori della tradizione cristiana; tra civilizzazione e civiltà; tra Grande Reset globalista e Grande Risveglio; tra perversioni LGBTQ+ e ritorno alla morale. Una rappresentazione della quale si fa artefice non solo, e non tanto, Aleksandr Dugin – che peraltro non è un ideologo di Putin, ma un estremista cui a Putin può far comodo ammiccare –, come esemplifica bene la recente intervista fattagli da un “giornalista” su un antifrastico foglio di stampa (ambedue, giornalista e foglio, sdoganati da un’altra intervista nelle prime settimane della pandemia). Ma soprattutto, da un opinionista/facilitatore come Rampini, che assume pari pari – limitandosi a rovesciarlo, salvo parlare con involontaria ironia di “opposti estremismi” – il paradigma binario: l’impudenza di Putin sarebbe causata da un Occidente malato del virus della critica, teorica e sociale, ai buoni valori occidentali. Quale che ne sia il segno, la posta in gioco di questa guerra sarebbe la ricostituzione del blocco, geo-politico e valoriale, occidentale.

7. La pace: quali sono le parole che devono, o dovrebbero essere pronunciate, oggi? Cominciamo col chiederci quale prassi discorsiva debbano praticare i movimenti per la pace, anche e soprattutto alla luce dell’attuale impotenza performativa di ogni discorso sulla guerra. Uno dei primi effetti di ogni guerra – lo diceva Gino Strada – è di far dimenticare tutto ciò che c’era prima, e che ha causato la guerra, schiacciando la dimensione politica sull’oggi: fingendo di ignorare che in quel passato che viene rimosso ci sono le cause non solo della guerra attuale, ma anche delle prossime (che è un altro modo di dire che “il mondo non è un insieme di cose, è un insieme di eventi”). È evidente che le parole della pace non possono avere per scopo l’ingresso nell’attuale agorà politica, ma devono osare la prefigurazione di un diverso ordine del discorso, scommettendo sulla possibilità di un altro mondo nel quale le differenze non sono risolte tramite la guerra. Di più: nel quale l’intreccio sistemico delle crisi – bellica, pandemica, ecologica, migratoria, economica – sia riconosciuto come la manifestazione di un modo perverso di stare al mondo, di una distribuzione dei viventi negli spazi globali infettata dal virus del capitalismo. E nella ricerca di alleanze fra chi è disposto a condividere questi assunti. In quest’ottica, è patente che non può aspirare a una futura credibilità un discorso che oggi si comprometta con il sostegno alla soluzione armata. È altrettanto evidente che qui acquista una sua centralità il ruolo della scuola, non a caso investita dall’ennesima emergenza educativa nell’accoglienza dei profughi. Per dirla con una battuta che spiega tutto: come si diceva all’assemblea di Priorità alla Scuola di domenica 27, cominciamo a chiamarli non più profughi, ma cittadini e studenti.

8. È stato detto che questa guerra ha definitivamente distrutto l’album di famiglia della sinistra. È probabile che la crisi bellica abbia reso indifferibile la presa di coscienza di qualcosa che era già accaduto da tempo, ben prima della stessa crisi pandemica. Si tratta comunque di prenderne atto, se possibile con sobrietà, e tracciare il disegno di un diverso album (magari rinunciando all’analogia con l’istituzione familiare, che i soggetti fotografati in quell’album un tempo sognarono di distruggere). Gettare via l’album, del resto, non significa gettare via tutto quello che quell’album raffigurava: morfologie, strutture, processi di soggettivazione, insomma cose concrete possono e devono essere recuperate genealogicamente da quel passato. Non per nostalgia, ma per la costruzione di nuovi spazi politici, pubblici, discorsivi: assumere una posizione per la pace, in favore di un tempo futuro, può essere un lavoro di federazione possibile.

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