Di GIROLAMO DE MICHELE, MADDALENA FRAGNITO, COSTANZA MARGIOTTA e ROBERTA POMPILI
Indietro non si torna
Sono passati nove mesi dall’inizio del diffondersi dell’epidemia SARS-CoV-2 in Italia e la sua risoluzione sembra ancora lontana. Che vi sia una correlazione fra la maggior incidenza di casi di zoonosi degli ultimi decenni e l’abuso dei territori o, per dirla con Giuseppe De Marzo, la cattiva interpretazione del nostro ruolo di esseri viventi sulla terra (“Radical Choc”, 2020) è ormai difficile da negare. Che la misura della seconda ondata di contagi sia direttamente proporzionale all’incapacità organizzativa del nostro governo e alla mancata volontà di investire sulle istituzioni della salute, altrettanto.
Dentro questa occasione mancata, dove l’emergenza pandemica è oggi un’emergenza insieme sanitaria sociale e culturale, dobbiamo saperci chiedere quali urgenze siano da affrontare se si vuole tentare un discorso di convergenza tra le tante lotte che anche in questi ultimi mesi si sono sviluppate in diversi settori della società. Inoltre, chiedersi cosa sia la salute rifuggendo la rassegnazione delle dicotomie stagnanti (come quelle fra salute, reddito e istruzione) è dirimente.
La salute per un nuovo welfare
Se da una parte la nostra esperienza quotidiana si modifica drasticamente sul medio-lungo periodo, dall’altra, lo scenario che si ricompone tutto intorno non subisce alcuna trasformazione. Le nostre vite continuano a essere messe a profitto: le piattaforme digitali capitalizzano il confinamento di una parte della popolazione e scalano in borsa, il capitale finanziario allarga i campi di speculazione accelerando le disuguaglianze e le fabbriche di Confindustria non sono mai state chiuse. Tutto ciò accade mentre echeggia il silenzio da parte del Governo sulle strategie, le prospettive politiche e le informazioni intorno a una tempesta sanitaria e sociale dentro cui siamo tutt*, seppur in modo estremamente differenziato. Di contro, si alza sempre più dissonante il rumore di fondo televisivo-mediatico capitanato da “esperti” e “soluzioni” temporanee.
In questa fase di enorme crisi gestionale e organizzativa, rivendicare la centralità delle infrastrutture pubbliche della vita e del welfare è centrale e si unisce alla consapevolezza di quanto, in questi mesi, siano risultate sempre più importanti le esperienze di mutuo aiuto. Pratiche che si sono letteralmente sostituite al governo traducendo quel vuoto in protocolli aperti di comunicazione sanitaria, prevenzione medica di base, sostegno economico e soccorso alimentare. Accanto a questa sostanziale capacità di organizzazione che si è data tra comunità, quartieri, aree periferiche e spazi digitali è però indispensabile fare un ragionamento sul ruolo del welfare pubblico nel presente e nel futuro – sul suo necessario rafforzamento (anche attraverso un finanziamento massiccio), di una sua riarticolazione e trasformazione, di una sua accessibilità potenziata. Per questo, la fase due della pandemia ha bisogno di un cambiamento di rotta drastico dato da una riorganizzazione del modello di produzione/riproduzioni.
Per attivare un radicale cambio di rotta bisogna interrogarsi su cosa sia la salute. Secondo la Costituzione dell’OMS, l’obiettivo dell’Organizzazione è “il raggiungimento, da parte di tutte le popolazioni, del più alto livello possibile di salute”, definita come “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”. Se la salute, come anche questi lunghi mesi hanno evidenziato, è un’intersezione complessa che si dà fra il contenimento del virus e la garanzia di cura di altre patologie, la tenuta economica e psichica di tutte le fasce della popolazione, bisogna pretendere che l’articolazione tra salute, reddito e istruzione sia messa al centro, sostenuta e resa operativa per tutte e tutti dentro e oltre l’emergenza.
In questo lungo periodo abbiamo aspettato scelte politiche giuste, invocato la ristrutturazione (per quanto possibile) di una medicina territoriale all’altezza dell’emergenza in corso, una robusta organizzazione degli ospedali (assunzioni, stabilizzazione del personale etc.), una coordinazione nell’approvvigionamento e distribuzione di dispositivi medicali; in sintesi, abbiamo atteso invano una progettazione attenta e diffusa del principale strumento di contrasto al virus: il monitoraggio.
Quello a cui abbiamo assistito, tra un DPCM e l’altro, è il mancato rafforzamento dei settori chiave con cui garantire “il più alto livello possibile di salute”. Si è invece diffuso un modello di sicurezza pensato principalmente in termini di isolamento e di responsabilità individuali. Una situazione, questa, che permette l’assenza strutturale di interventi da parte delle istituzioni pubbliche – la Milano “rossa” della seconda ondata dove per eseguire un tampone in tempi utili l’unica soluzione è quella di ricorrere alle strutture private, è l’esempio più sfacciato di questo modello.
Nel settore sanitario pochi investimenti sono stati fatti nei presidi di prevenzione territoriale e nessuna strategia di screening, questo ha riportato al veloce affollamento degli ospedali con la conseguente insufficienza sia del contrasto al Covid-19 sia della garanzia di cura di altre patologie (come il trattamento dei tumori) o di autodeterminazione delle donne* – in un paese già segnato dalla altissima percentuale di obiettori di coscienza, gli ospedali che attualmente garantiscono l’IVG si contano sulle dita d’una mano.
Nel settore lavorativo nessuna strategia ad ampie vedute non familistica e a misura di persona è stata improntata. Pochi mesi di cassa integrazione, un combattuto rinvio dei licenziamenti, investimenti ridicoli e frammentati a favore della miriade di lavoratori e lavoratrici precarie che occupano ambiti estesi come quelli dei servizi e della cultura. Il “bonus” è la cifra stilistica e programmatica di una politica incapace di fare scelte di visione quanto mai necessarie: misure di sostegno al reddito, reddito incondizionato. Le scelte economiche di questi mesi hanno invece preferito non mettere in discussione rapporti di lavoro insostenibili né rompere gli equilibri decennali che garantiscono la tenuta dei profitti di sempre troppe poche persone. Inoltre, nessun potenziamento dei trasporti pubblici già insufficienti prima della pandemia è stato fatto al fine di garantire il diritto alla mobilità.
Nel settore dell’istruzione, infine, abbiamo assistito per lungo tempo al balletto delle sciocchezze governative, dai banchi monoposto al metro buccale, mentre scuola per scuola, lavorat*, dirigenti e comunità si adoperavano nel ridisegno di spazi, orari e percorsi per tornare a garantire un diritto a 8 milioni di minori. Benché l’attivazione capillare del movimento di Priorità alla Scuola abbia riportato l’attenzione sull’istituzione scolastica e i diritti dei minori, pochi e insufficienti investimenti sono stati fatti in questi mesi per l’ampliamento degli spazi dedicati alla scuola, per la riattivazione della medicina scolastica e per il monitoraggio. Neanche la necessaria sburocratizzazione della macchina per l’assunzione e l’inserimento di docenti, personale ATA e collaborat* scolastici è stata messa in atto, in un momento in cui l’emergenza avrebbe permesso alcune accelerazioni. Non possiamo fare altro che denunciare con forza, come abbiamo fatto in tutti questi mesi, le condizioni di abbandono della istituzione scolastica da parte del governo, con la responsabilità colpevole delle regioni.
Quale scuola
Nel resto d’Europa si è scelto di lasciare aperte le scuole di diversi ordine e grado chiudendo e sostenendo economicamente altri settori. In Italia ancora una volta si è optato per la soluzione più facile, la soluzione che penalizza le nuove generazioni. Finanziamenti e riorganizzazione inadeguati per sanità e trasporti si sono immediatamente trasformati in un ostacolo per la ripresa delle attività in presenza: abbiamo assistito alla contrapposizione fra diritto alla salute, diritto allo studio e diritto alla mobilità. Solo una visione feroce, assoggettata a una precisa idea di ciò che è produttivo, può permettersi di chiedere ai minori di rinunciare per così lunghi periodi a una vita degna e in salute, che vuol dire anche socialità e istruzione.
Mantenere la scuola in presenza e in relazione, o trasferirla dietro il monitor della didattica digitale, è una scelta politica che dipende dall’importanza che si dà al diritto allo studio e all’istituzione scolastica, e quale importanza si pensa debba avere nella società e nella vita presente e futura. Se la scuola è solo trasferimento di pacchetti di informazioni ed elaborazione di riassunti a partire da quello che si trova in rete (come pensavano Gelmini, Tremonti e Renzi), allora la si può fare a distanza. Se insegnare significa accendere una passione, creare relazioni fra soggetti che imparano l’arte della cooperazione, imparare dai propri errori tanto quanto dai propri successi, sviluppare il pensiero divergente, scartare di lato invece che seguire la strada segnata, pensare differente – in due parole, imparare a imparare –: allora la scuola deve svolgersi in presenza e in relazione, oltre che in sicurezza.
Nella società della conoscenza e del capitalismo cognitivo l’intelletto è messo al lavoro: ma è anche vero che questa forza lavoro che è la capacità intellettuale, anche quando viene venduta per un salario, non viene persa da chi la possiede. Nella qualità dell’intelletto, nella sua capacità di riflessione, resistenza, innovazione, creatività sta la differenza fra l’asservimento e il farsi da sé, fra l’obbedienza e l’autonomia dei processi di soggettivazione: se questo è vero, allora nella qualità della scuola (senza pretesa di esclusività) è messa in gioco la possibilità di una vita futura da suddit* piuttosto che da cittadin*. La priorità alla scuola dipende e discende da tutto questo.
La scuola che chiedevamo prima della riapertura, e che continuiamo a chiedere, è una scuola in aule spaziose; con numeri di student*, docenti e collaborator* scolastic* compatibili con il percorso educativo; con una distribuzione dei plessi sul territorio e collegamenti fra casa e scuola adeguati; con un’infermeria ri-aperta in ogni plesso. Ciascuna di queste richieste è oggi una condizione per la messa in sicurezza della scuola, domani per una scuola degna di essere vissuta.
Diritto a infrastrutture aperte
In questi mesi, le città hanno subìto significativi mutamenti nel lavoro e nella vita. Le strade al tramonto popolate di soli rider per la consegna dei pasti a casa, sono solo un tassello e un emblema di questa modificazione. Nel frattempo tante attività chiudono, una popolazione già sfiancata dalla crisi economica è ridotta allo stremo. È davvero difficile pensare che il diritto alla salute possa essere garantito laddove si amplificano disuguaglianze, emerge la violenza strutturale e sistemica di una società basata sul profitto.
L’incapacità italiana di un monitoraggio efficace dei contagi va di pari passo con l’assenza di dati pubblici, disaggregati, continuamente aggiornati, documentati e facilmente accessibili. Questo aspetto ha reso e ancora ci rende tutt* dipendenti dalla figura dell’”esperto”, un’involuzione che potrebbe essere paragonata al rapporto fra la cultura digitale e la televisione: in questi mesi siamo tornat* sul divano ad ascoltare qualcun* di cui bisogna fidarsi a prescindere, non sapendo a quali set di dati faccia riferimento né con quali metodologie quegli stessi dati siano stati raccolti. Eppure è da oltre un ventennio che si producono saperi e ridistribuiscono conoscenze (in particolare tecnico-scientifiche) collaborando in rete su piattaforme open source; un’intelligenza collettiva che si sviluppa su innumerevoli fronti (e che per la verità non si è mai fermata) i cui risultati sono spesso usati dagli stessi Governi e privatizzati dalle aziende.
Tecnologie open source e accesso ai dati sono strumenti per analizzare collettivamente una grande quantità di informazioni, quelle che adesso mancano, per condividere e rappresentare idee, bisogni e desideri. In questo momento, scienza e ricerca aperte sono esattamente ciò di cui avremmo bisogno. Inoltre, l’accesso ai dati, oltre a permettere di processarli in modo allargato assicurando maggiori probabilità di prevedere e di intuire scenari, garantisce il diritto di verifica e di analisi delle scelte governative. Una possibilità che attenuerebbe la dicotomia venutasi a creare tra una dipendenza e fede messianica nelle contraddizioni e gli interessi di chi governa e una negazione totale di tutto ciò che è spiacevole o indesiderabile. Quello di cui abbiamo bisogno ora più che mai è ciò che il filosofo Edgar Morin chiama “scienza con coscienza”: scienza che sia riflessiva e consapevole del proprio ruolo nella società, la cui partecipazione sia ampia e in funzione de “il raggiungimento, da parte di tutte le popolazioni, del più alto livello possibile di salute”, intesa nella sua intersezione con il diritto all’istruzione e al reddito, ovvero il diritto di scegliere e prendere una vita degna.
Inutile dire come la riorganizzazione delle infrastrutture pubbliche della vita e del welfare debba interrogarsi anche su un diverso utilizzo delle tecnologie e delle connessioni virtuali. La scuola, in questo senso, può essere un luogo importante di confronto: un laboratorio trasformativo dove la presenza dei diversi attori mobilitati per rivendicare il diritto all’istruzione e alla ricerca può produrre un salto significativo per immaginare una istituzione pubblica che viva della ricchezza e delle contraddizioni del presente, dell’eterogeneità e del protagonismo delle nuove generazioni, dalla potenza delle nuove connessioni in atto, costruendo e sviluppando un rapporto critico con le tecnologie digitali. Questa è innovazione, altro che DDI e DaD.
Abbiamo una certezza: indietro non si torna, la vecchia scuola è ormai già passato. Ma uscire dal futuro distopico – la scuola della meritocrazia neoliberale e di piattaforma e che allude alla produzione di un modello di società ben preciso – dipende dalla determinazione, forza e intelligenza che sapremo mettere in campo.
Questo articolo è uscito anche per Priorità alla Scuola.