Il campo dell’ecologia ha occupato una parte importante della riflessione di Félix Guattari nei suoi ultimi anni. Con l’apertura mentale e politica che lo contraddistingue, Félix ha coniato i concetti di “ecosofia” e “oggetto ecosofico”, che, come nello stile suo e di Gilles Deleuze, avevano ila funzione di congiungere aree eterogenee, piuttosto che di delimitare e confinare il concetto. Non sorprende, quindi, che Guattari parli di tre ecologie, concatenando il tema ecologico “classico”, oggetto di riscoperta e interesse politico sul finire degli anni Ottanta con i vari e differenti movimenti “verdi”, con l’ecologi apolitica, che mette in questione i fondamenti strutturali delle società nelle quali si manifesta la crisi ambientale; a queste due ecologie se ne aggiunge una terza, l’ecologia mentale, che ha a che fare con la situazione di finitezza esistenziale dei soggetti sovradeterminati dai flussi di disoccupazione, marginalità oppressiva, solitudine, inoperosità, angoscia, nevrosi conseguenti al continuo sviluppo del lavoro meccanizzato e alla rivoluzione informatica. Questa riflessione ecosofica a cavallo degli anni Ottanta e Novanta (è del 1989 Les trois écologies, del 1992 Chaosmose) concerne la messa in discussione del modo «in cui si vive su questo pianeta, nel contesto dell’accelerazione dei mutamenti tecnico-scientifici e del considerevole incremento demografico» (Le tre ecologie, ed. it., p. 13). Si tratta, scrive Guattari, di mettere a fuoco «i problemi del razzismo, del fallocentrismo, dei disastri tramandati da un’urbanistica che si pretendeva moderna, di una creazione artistica liberata dal sistema del mercato, di una pedagogia capace di inventare i suoi mediatori sociali ecc. Questa problematica altro non è, in fin dei conti, che quella della produzione di esistenza umana nei nuovi contesti storici» (id., p. 20). In una battuta, di determinare quali processi di soggettivazione, nel quotidiano e nel sociale, opporre alle pratiche di assoggettamento e dominio del capitale che passano attraverso i processi di devastazione ambientale: una ecosofia sociale, che possa «sviluppare delle pratiche specifiche che tendano a modificare e a reinventare i modi di essere all’interno della coppia, della famiglia, del contesto urbano, del lavoro ecc.»; e una ecosofia mentale che reinventi il rapporto del soggetto con il corpo, con le fantasie, con il tempo che passa, con i “misteri” della vita e della morte», in cerca di «antidoti all’uniformazione massmediatica e telematica, al conformismo delle mode, alla manipolazione delle opinioni da parte della pubblicità, dei sondaggi ecc.» (id., p. 21).

Il testo che pubblichiamo oggi è tratto da due interviste realizzate da Emmanuel Videcoq e Jean-Yves Sparel per la rivista Terminal (nn. 54, luglio-agosto 1991, e 56, novembre-dicembre 1991). La seconda è stata ripubblicata su Chimères, e poi ripresa nel volume Qu’est-ce que l’écosophie, (pp. 71-79) che raccoglie i testi ecosofici di Félix Guattari (a cura di Stéphane Nadaud, ed. Ligne 2013, ried. Le Collectif et associés, 2018).

La traduzione è di Ubaldo Fadini, che la pubblicò sul n. 36, 2010 di Millepiani, che ringraziamo per avercela concessa.

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1. Che cos’è l’ecosofia?

E.V.: Ernst Haeckel definisce l’ecologia come “la scienza delle relazioni degli organismi con il mondo esterno e le loro condizioni di esistenza”. Come definisci l’“ecosofia”?

F.G.: Il concetto di ecologia è eclettico. Esso comprende realtà assai eterogenee, cosa che del resto ci rende la sua ricchezza. Innanzitutto è una scienza, la scienza degli eco-sistemi di qualsiasi natura. Essa non ha contorni rigidamente definiti, in quanto annovera tanto gli eco-sistemi sociali, urbani, familiari quanto quelli della biosfera. Inoltre l’ecologia è diventata un fenomeno d’opinione, poiché essa contiene sensibilità molto diverse: dei conservatori, perfino dei reazionari, che auspicano un ritorno ai valori degli avi, fino a quella di coloro che aspirano ad una rifondazione di una polarità progressiva, che subentri alla vecchia polarità destra-sinistra.

Io aspiro ad un collegamento concettuale di tutte queste dimensioni. Così nasce l’idea della ecosofia, che esprime queste tre ecologie: quella dell’ambiente, quella sociale e quella mentale. Inoltre tento di introdurre, nel mio sistema di modellizzazione, il concetto di un oggetto ecosofico che vada al di là di quello di oggetto eco-sistemico. Concepisco l’oggetto ecosofico lungo l’articolazione di quattro linee: quelle del flusso, della macchina, del valore e dell’ambito esistenziale.

  1. Quella del flusso è evidente: poiché proprio negli eco-sistemi c’è sempre l’articolazione di flussi. Gli uni in rapporto con gli altri; detto precisamente: di flussi eterogenei.
  2. Quella della macchina; si tratta qui di una dimensione di retroazione cibernetica, dell’autopoiesi, cioè dell’autoaffermazione ontologica, senza cadere nel mito animistico o vitalistico, come ad esempio nell’ipotesi Gaia di J. Lovelock e L. Margulis; si tratta perciò di realizzare il collegamento tra le macchine dei flussi materiali degli eco-sistemi e dei flussi semiotici degli eco-sistemi. Tento cioè di ampliare il concetto dell’autopoiesi senza riservarlo, come in Varela, soltanto al sistema del vivente e ritengo che ci sia una proto-autopoiesi in tutti gli altri sistemi: in quelli etnologici, sociali e così via.
  3. Questo oggetto ecosofico non è soltanto autopoietico, bensì anche portatore di valori, di segni e prospettive di valorizzazione. Ciò è importante per pensare la problematica del valore, compreso il valore economico, e per combinare il valore capitalistico, il valore di scambio, in senso marxista, con gli altri sistemi di valorizzazione, quelli che vengono prodotti dai sistemi auto poietici: sistemi sociali, gruppi, individui, sensibilità artistiche, sensibilità religiose; per combinarli tra loro senza che il valore economico sia ricoperto di piombo e tutto venga cancellato.
  4. La quarta dimensione è quella della finitezza esistenziale, che definisce più precisamente l’oggetto ecosofico: ciò che definisco anche come ambito esistenziale e che non rappresenta nessuna entità eterna, bensì si fonda sulle coordinate della determinazione estrinseca, indipendente. Nel suo sistema di valore, l’oggetto ecosofico ha un inizio e una fine; è in rapporto con una diversità macchinina, con un phylum macchinino. Di fatto quel sistema possiede egualmente una causa sistemica e un avvenire. Senza autonomia universale, esso è connesso con il processo della storicità. Questa finitezza rappresenta così anche una dimensione dell’estraniazione e della “incarnazione” e insieme un arricchimento processuale: poiché grazie ad esso c’è sempre la possibilità di un ricaricamento derivante dal caos e di una rifondazione di una complessità. Dato che c’è l’individuazione eco-sistemica come finitezza, allora sussiste la possibilità che i sistemi si concatenino tra loro e che si sviluppi un grande phylum evolutivo.

E.V.: Parli dell’oggetto ecosofico come di un “sistema di modellizzazione”. Ti rivolgi agli oggetti concreti o ad un sistema di descrizione?

F.G.: Per me non c’è differenza: tutti gli oggetti sono oggetti della modellizzazione. Il concetto – nel suo carattere creativo di condensazione di componenti eterogenee e insieme di unità auto poietiche – è l’oggetto. L’oggetto ecosofico è un oggetto della meta-modellizzazione, nel senso che esso pretende di comprendere le diverse modellizzazioni, che ci sono sollecitate: di tipo marxista, animista, estetico. Così si può meglio vedere come i sistemi di valore si combinino, invece di contrapporre, in modo manicheo, l’uno con gli altri.

J.-V.S.: Quali sono le conseguenze da trarre, rispetto a questo genere di analisi, per il movimento ecologista?

F.G.: Che non c’è, a mio parere, alcuna opposizione tra le ecologie: ecologia politica, ecologia ambientale ed ecologia mentale. Ogni visione preoccupata di un problema ambientale postula lo sviluppo di universi di valore e di conseguenza un impegno etico-politico. Esso richiede la “incarnazione” di un sistema di modellizzazione per sostenere questi sistemi di valore, cioè di pratiche sociali in riferimento a luoghi e di pratiche di analisi, se si tratta della produzione di soggettività.

E.V.: Non si tratta dunque di sistemi totalizzanti?

F.G.: È vero. Nei fatti c’è il grande pericolo di porre, al posto del mito della classe lavoratrice come portatrice del futuro dei valori, quello di una difesa dell’ambiente, di una protezione della biosfera, che può avere un carattere ugualmente totalizzante, totalitario. Sono da progettare dei processi di valorizzazione dell’affermazione di sé che rispettino la loro eterogeneità e singolarità. Io respingo i giudizi trascendenti.

Due esempi: nel grembo dei movimenti ecologisti, il movimento di sinistra rifiuta coloro che si definiscono i “Khmer verdi”. Ma costoro rappresentano qualcosa di assolutamente autentico nella soggettività ecologista e nei rapporti di forza. Anche perché esistono, tra il 15% e il 20% degli elettori si dichiarano disposti a votare in rapporto con l’ecologia. Realizziamo con loro una relazione di dissenso; polemizziamo, ma rispettiamoli, altrimenti cadiamo in un conflitto ideologico senza fine, mortale. La stessa cosa con il “lepenismo”: comprendiamo perché parti significative della popolazione, proprio quelle lavoratrici, scivolano in questa ideologia. Consideriamole dall’interno, senza irrigidire i valori, mentre diciamo: questo è reazionario, “fascio”, estremista di destra ecc. Altrimenti si perde quella possibilità dell’articolazione pragmatica, per influenzare tali parti, di “rizomatizzare”.

E.V.: Cosa intendi per assiomatizzazione pragmatica? Per i “Khmer verdi” li si esorcizza ponendoli nel campo ideologico dei Maurras, dei Pétain; li si etichetta?

F.G.: In questo modo li si rende dei folli, si vuole farli diventare dei matti. Per me non si tratta di entrare così nella polemica, ad esempio con un malato delirante. Egli può avere delle crisi psicotiche, che qualche volta sono accompagnate da deliri razzisti, di odio verso la differenza, per l’estraneo. Si deve tentare di comprendere come questo concatenamento soggettivo scaturisca da una modellizzazione completamente diversa dalla mia ed entri in rapporto con una produzione semiotica – e come con ciò sorga, in tale tipo di vicolo cieco, uno sviluppo processuale evolutivo. Abbandoniamo le politiche con sensualistiche, accettiamo la diversità dell’altro, la sua differenza; da questo movimento etico dell’accettazione dell’altro può derivare qualcosa di originale.

E.V.: Quale traduzione si deve dare dell’orientamento ecosofico nel caso di responsabilità di governo da parte dei movimenti ecologisti?

F.G. : La questione riguarda le responsabilità locali, regionali. Si tratta di progettare pratiche di intervento sociale, incluse quelle politiche, governamentali, che sono coerenti con le pratiche sociali “locali”, con le pratiche di dissenso, culturali, analitiche, individuali e collettive, così come con quelle estetiche, e perciò di sviluppare una politica e dei mezzi, dispositivi, che consentano tale carattere di dissenso. Penso che si debbano lasciare del tutto alle spalle le nostre tradizionali posizioni tra movimenti, partiti, associazioni, e trovare una nuova forma che consenta di combinarle, di stabilire una relazione polimorfa tra le diverse mete pragmatiche. Non sono avverso ad una armatura politica, comprensiva dei leader attivi nei media attivi e dei ministri – perché anche no? – quando ci sono non soltanto dei fenomeni di “controllo della base”, ma anche fenomeni di soggettivazione, così che divenga una assolutamente relativa; che gli individui delegati o coloro che si dedicano a questo servizio politico siano accettati, perché ciò è un traguardo di valore, così importante, non è poi fondamentale. Essi possono essere dei leader politici, ma non devono essere dei Führer affettivi, dei Führer immaginari! Ciò significa concretamente che appare altrettanto importante, di uguale valore e legittimità, nel movimento ecologista, di occuparsi di gruppi di quartiere, della vita ecc. così come di parlare in “politichese” nei rapporti di forza politici e organizzativi. C’è una intera ecologia sociale del movimento stesso che deve trovare la sua regolamentazione.

E.V.: A prescindere dal tema dell’ambiente, il movimento ecologista in Francia sembra essere un movimento d’opinione, della soggettività, piuttosto che di pratiche sociali.

F.G.: Innanzitutto il fenomeno francese è eccezionale. Negli altri Stati non c’è niente di simile, come sostegno, al movimento ecologista: si parla del 15, 20%, ma in effetti c’è una considerevole quantità di atteggiamenti favorevoli. Si potrebbe dire precisamente la stessa cosa per il movimento di Le Pen, che però fermenta in un più ampio movimento d’opinione. Questa è una situazione precaria. Gli ecologisti non si devono fare illusioni. Essa può cambiare improvvisamente come un alito di vento. In secondo luogo è certamente a condizione che ci sia un intervento d’altro tipo, di combattere, di fare politica – esprimere la considerazione immediata, quotidiana, tanto al livello dell’ambiente quanto a quello della vita sociale, rispetto a ciò che avviene nel quartiere, negli ospedali e così via – che si può operare un consolidamento di tale opinione. Altrimenti raccoglieremo ancora una volta delusioni e l’opinione si attorciglierà su non so che cosa, forse su nulla o su una passività che genererà cose molto negative.

J.-Y.S.: Che dire allora?

F. G.: Esprimere il problema! C’è un problema della ridefinizione delle pratiche sociali, della invenzione di modi di condivisione, di organizzazione, di rapporti con i media ecc. E ciò diventa politico: sapere cosa si vuol fare. Si vuole concretamente cambiare in maniera radicale i sistemi di valorizzazione? In questo caso li si deve prendere nella loro globalità, nella loro totalità. Se si intende cambiare ciò soltanto settorialmente, di creare una piccola forza di difesa, una piccola lobby di resistenza ambientale, allora penso che si abbia già perso in partenza; perché ciò diventa molto scivoloso: l’industria non desidera nient’altro che di utilizzare il movimento ecologista, così come ha utilizzato il movimento dei lavoratori per la sua strutturazione del campo sociale. Si verrebbe molto velocemente assimilati dall’industria, dallo Stato, dalle forze dominanti. C’è bisogno di un altro livello di rivendicazione. Propongo questo concetto di ecosofia per indicare il raggio d’azione della problematica dei valori.

2. Quali spazi di valorizzazione?

E.V.: Puoi sviluppare questa frase rimarchevole del tuo libro Le tre ecologie? “È sempre meno legittimo che le retribuzioni finanziarie e di prestigio delle attività umane socialmente riconosciute siano regolate soltanto da un mercato fondato sul profitto”. Si parla invece della universalità del mercato.

F.G.: L’ideologia neoliberale giustifica la sovranità del mercato attraverso la libertà di commercio. Essa postula l’esistenza di un mercato astratto, che super-codifica e regola l’insieme delle sfere economiche. Ciò è un abbaglio colossale. Il mercato non esiste. Al contrario esistono tutti i mercati possibili. Esempi: il mercato delle armi tenuto dalle potenze statuali, i mercati locali, regionali, ma anche i mercati paralleli delle droghe, della mafia o anche il mercato dell’arte. Ad un livello micro-sociologico esistono i mercatini “domestici”, come anche quelli delle pratiche di scambio nei paesi sottosviluppati. Ci sono le costellazioni di potere che si pongono e si danno come gli ambiti equivalenti del valore. Il gioco tra i mercati diventa un gioco tra questi mercati di potere. Alcuni vengono svalorizzati, altri sono sovrastimati. Non c’è di conseguenza nessuna categoria unitaria, trascendente, di mercato mondiale. Ci sono sistemi di valorizzazione che vengono posti come ambiti esistenziali di un certo numero di costellazioni e concatenamenti di potere. Così gli USA conducono, in rapporto con il mercato dei “petrodollari”, in riferimento alla guerra del Golfo, una puntuale azione geopolitica, un atto di violenza.

E.V.: Chi può attribuire un valore non commerciale? Lo Stato? Esprimi un presupposto fortemente antropologico quando affermi che per ogni attività umana esiste un segmento di valorizzazione?

F.G.: Al di fuori dello Stato si presentano tutti i mercati del desiderio come vettori della valorizzazione. Così la musica rock è macchina desiderante, da una parte, e mercato capitalistico, dall’altra. C’è anche una stretta relazione tra desiderio e desiderabilità. Non c’è soltanto il mercato di Stato ad attribuire valori non commerciali.

In una prospettiva postmoderna, si possono accettare le formazioni odierne di potere e dire che quelle che esistono sul mercato sono necessarie e inevitabili. Si può invece anche avere una prospettiva assiologia e concepire diversamente le formazioni di potere, sia per risolverle come mercato del potere fallocratico, sia per creare un mercato di potere differente, ad esempio l’arte e con ciò i collezionisti, i musei e infine tutto quello che l’arte disarticola sul mercato mondiale.

E.V.: Non esiste piuttosto una gerarchia di sistemi produttivi e formazioni di potere?

F.G.: Sì, c’è essenzialmente una gerarchia capitalistica. Si può invece presentare una multicentricità, una disposizione rizomatica delle formazioni di potere, con cui si effettua la regolamentazione nei termini di una logica del caos attraverso attrattori che determinano zone di potere deterritorializzate come quelle delle lobbies.

E.V.: Non resti così all’interno del paradigma del mercato? Cosa potrebbero essere i nuovi spazi di valorizzazione?

F. G.: Con i dispositivi della comunicazione telematica si danno nuovi concatenamenti di sintonizzazione. Nuove entità soggettive con carattere transnazionale, transetnico, transculturale ecc. appaiono, vengono a galla. Al contrario, si conservano potenze di mercato statuali, che si estendono mondialmente e tutto quello che non viene investito viene spazzato via. Già adesso l’urgenza consiste nel situare le logiche del mercato – quelle dello Stato, quelle dei poteri – nelle loro attuali funzioni, per sfuggire al mito della legittimazione piena dell’uso del diritto capitalista, di un nuovo tipo di religione neoliberale, che oggi domina quasi dappertutto. Questo decentramento assiologico mostra infine che ci sono altre possibilità pratiche; arretramento del mercato capitalista, spazi di libertà, spazi creativi per l’invenzione e la riconferma, anche per il mercato attuale.

J.-Y.S.: Non sottovaluti l’aspetto del consolidamento mediante l’equivalente monetario?

F.G.: È certo che l’equivalente monetario giochi il ruolo di un oggetto di fascinazione. Esso presenta le linee di deterritorializzazione più intense. E’ una involuzione ossessiva della soggettività in un oggetto di desiderio, che polverizza gli altri modi di valorizzazione. E’ la più astratta arma universale. Le nuove forme di valorizzazione devono lasciarsi alle spalle proprio questa “omogenesi” dei valori capitalistici e si devono risingolarizzare attraverso un processo che definisco “etero genetico” e che conferisce loro lo specifico livello ontologico. Per me il valore è una polarizzazione in seno all’ambito del desiderio, un ambito di potere, un ambito esistenziale, che può assumere una dimensione completamente deterritorializzata. Questa è un dimensione assiologia, che s’inscrive bene tanto nell’ambito economico quanto nell’ambito della percezione o in quello delle relazioni con l’altro, del modo di situarsi.

E.V.: Come?

F.G.: Ci sono già delle conquiste, dei livelli molecolari certi. Porto un solo esempio: il movimento di emancipazione delle donne (nonostante i rischi, i riflussi). Concretamente evoco un nuovo modo di porre ambiti di vita, di affermare resistenze civili, di sostenere minoranze, anche quando possono implodere in altre forme di superamento/conservazione. Si tratta quindi nuovamente di introdurle nelle relazioni tra le forze, tra i poteri esistenti, invece di irrigidirle nella pura utopia, come negli anni ’60; è di conseguenza necessario mediarle con quelle forze che sono inserite nel Parlamento o nel sindacato. Altrimenti queste pratiche molecolari, queste battaglie del desiderio, ricadrebbero inevitabilmente nel tempo libero, nella marginalizzazione, nel ridicolo. All’opposto di una logica della divisione in bianco e nero, che implica un’assoluta coerenza assiomatica, che non vi sia nessun punto di differenza, automaticamente progressivo.

Mediare al meglio tra loro l’ecologia sociale e l’ecologia mentale; a tutte le specifiche pratiche sociali, a queste rivoluzioni molecolari, dare una prospettiva storica; questo è ciò che resta da fare per formare nuovi spazi di valorizzazione.

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