Riprendiamo qui la lettura di Massimiliano Guareschi de “L’inconscio macchinico” pubblicata su il manifesto il 29 maggio 2022.

Di MASSIMILIANO GUARESCHI

«Félix è quello che trova i diamanti, io quello che li taglia». Così Gilles Deleuze sintetizzava la cifra della collaborazione con Félix Guattari, che aveva condotto alla stesura di testi divenuti classici della filosofia quali AntiEdipo e Mille piani. Le modalità di lavoro dei due, infatti, prevedevano l’innesco del flusso concettuale guattariano, con la sua furia neologistica, tramite scritto o oralmente, su cui poi Deleuze operava prelievi, rallentamenti, suture, riarticolazioni, messe in prospettiva. In generale, però, il contributo di Guattari a quell’impresa filosofica è stato a lungo misconosciuto. I libri firmati con i due nomi, infatti, tendevano a essere implicitamente considerati opera di Deleuze, e interni, senza soluzione di continuità, al suo percorso teorico. L’apporto di Guattari, veniva così limitato alle questioni psicoanalitiche, fino a quel momento affrontate da Deleuze marginalmente, e in un approccio più diretto alle problematiche politiche.

ALLA BASE DI TALE EQUIVOCO si colloca il profilo delle due figure. Quando inizia il lavoro a due, o «fra due» come preferivano dire, Deleuze è un pensatore già affermato, conosciuto per i suoi libri e incardinato nel sistema accademico, anche se in posizioni periferiche. Guattari, da parte sua, si presenta come una figura difficile da inquadrare, anomala e spiazzante, caratterizzata da una vitalità dirompente.
Di mestiere fa lo psicoterapeuta, ma non è laureato, ha fatto solo un anno di farmacia. Dirige, insieme a Pierre Oury, la clinica La Borde che questi ha fondato nel 1953 acquistando un chateau in rovina a Court-Chéverny, nei pressi di Blois. La Borde, nel solco della «terapia istituzionale» di François Tosquelles, si propone di sviluppare un approccio, alternativo ai modelli clinici standard per alcuni versi distante dall’antipsichiatria di Basaglia e Laing, puntando sull’istituzione ma a patto che essa si interroghi continuamente su se stessa, operi un’interrotta riflessività riguardo a metodi, ruoli e gerarchie, routine. Fondamentale era stato poi, nell’itinerario di Guattari, il rapporto con Lacan, iniziato con la partecipazione al seminario, passata per il setting fino all’assunzione del ruolo di analista dell’École freudienne. Si instaura così una relazione di discepolato che progressivamente si incrina, con la rottura definitiva sancita dalla pubblicazione di AntiEdipo.

IN PARALLELO, Guattari è anche un militante politico. Con alle spalle un lungo itinerario in gruppi ed esperienze a sinistra del Partito comunista, si immerge nell’effervescenza del ’68 e degli anni seguenti attraverso un attivismo ubiquo che lo vede interlocutore privilegiato e catalizzatore per movimenti e insorgenze che intendono andare al di là delle forme revivaliste dei partitini maoisti. Poi si può ricordare il contributo di Guattari all’organizzazione del Convegno sulla repressione di Bologna nel ’77, il dialogo costante con le posizioni «operaiste», il supporto fornito agli esiliati italiani in Francia, la partecipazione al nascente movimento ecologista, visto come l’occasione per rilanciare le lotte a un livello ulteriore di radicalità.

IL TESTO SCRITTO, nella sua strutturazione chiusa e sequenziale, rappresentava per Guattari una dimensione problematica. Il suo pensiero, infatti, era in primo luogo performativo, si esprimeva nel qui e ora attraverso la voce, l’interazione, l’azione, l’intervento terapeutico, la macchinazione istituzionale. La scrittura, da questo punto di vista, sembrava sempre venire dopo, come un tentativo di fissazione lineare, destinato allo scacco, di una materia eterogenea e caotica, fatta di parole, gesti, suoni, sguardi, intensità, ridondanze. Si trattava di un flusso che necessitava di intercessori per cristallizzare. Per questo Guattari aveva cercato Deleuze. Per motivi diversi, in qualche modo opposti, Deleuze aveva accettato la sfida.

NEGLI ULTIMI ANNI si assiste a una ripresa di interesse per la figura di Guattari, visto non più come semplice socio di minoranza dei libri con Deleuze. Specie in ambito artistico, il suo macchinismo selvaggio ha trovato numerose interlocuzioni, così come il suo approccio radicale all’ecologia. Sul versante rock, si potrebbe ricordare come l’ultimo album di una band come Primal scream lo omaggi nel titolo, Chosmosis. L’effetto Guattari, come si è visto, non può essere confinato alla dimensione bibliografica. E tuttavia per coglierne la portata si deve passare dalle impervie pagine dei suoi libri, di quelli scritti «da solo».
Fra questi L’inconscio macchinico, proposto da Orthotes nella traduzione di Rosella Corda (pp. 318, euro 25). Il libro esce nel 1979, durante il cantiere di Mille piani, pubblicato l’anno successivo. Da una parte, il testo può essere visto come uno sviluppo di alcune tematiche al centro di AntiEdipo, in particolare relative all’aspetto che di quell’opera più aveva colpito nell’immediato: l’esigenza di passare, per quanto riguarda l’inconscio, dal teatro all’officina, dalla rappresentazione alla produzione, da un inconscio ripiegato sul passato a un inconscio proiettato sul futuro e non confinato alla dimensione individuale. Ancora più evidenti, però, sono le direttrici che conducono a Mille piani, con le ampie sezioni dedicate alla viseità, al ritornello, sondato nell’ultima parte del libro in relazione all’opera di Proust, e al concatenamento collettivo di enunciazione.

QUEST’ULTIMO, in particolare, appare come il vero e proprio centro di gravità della successiva elaborazione di Guattari, al crocevia fra sperimentazione concettuale, pratica terapeutica e intervento politico. Al concatenamento collettivo di enunciazione sarà dedicato per alcuni anni il seminario che Guattari teneva periodicamente nel soggiorno di casa sua al 7 di rue de Condé, i cui materiali alimenteranno il magma teorico e grafico del «mostruoso» Carthographie schizoanalitique, non ancora tradotto in Italia, e del più scorrevole Caosmosi, tale grazie all’intervento di riscrittura operato da Danielle Sivadon, amica e complice fin dai primi tempi di La Borde. A emergere è l’attenzione per le scienze sociali, l’esigenza di farle transitare verso un paradigma estetico, la proposta di un modello cartografico – incentrato su flussi, phylum, territori, universi incorporei – per analizzare e comporre gli assemblaggi macchinici, aggirando le opposizioni individuo-gruppo, soggetto-oggetto, natura-artificio, materia-spirito. Si tratta di sviluppi che divergono sensibilmente dagli esiti cui giunge Che cos’è la filosofia?, ultimo libro firmato a due, ma in realtà opera del solo Deleuze, nel quale alcune fra le più dirompenti linee di sviluppo di Mille piani sono lasciate cadere o messe fra parentesi.
Da questo punto di vista, avventurarsi nelle pagine di L’inconscio macchinico, con il loro alternarsi di scrittura e diagrammi, costituisce una preziosa occasione per riattivare secondo direttrici che vadano oltre il terreno strettamente filosofico la materia incandescente di una delle avventure teoriche più radicali e anticipatrici del secondo Novecento, posta sotto il marchio Deleuze&Guattari.

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