Di IRINA AGUIARI

Si è conclusa domenica 20 Ottobre 2019 l’assemblea nazionale di Non Una Di Meno a Napoli. La prima che ha riunito il movimento transfemminista durante questo autunno verso lo sciopero globale dell’8 marzo al grido di siamo rivolta. Rivolta e non più marea, a voler rappresentare la maturità di un accorpamento di soggettività queer che dopo aver ricostruito uno spazio e una rete di socialità transfemminista che in Italia era assente da parecchio tempo, se non a livello locale, è pronto a rivoltare l’ordine prestabilito. In questa elaborazione permanente sugli strumenti e gli obiettivi del movimento si inserisce il libro Lo sciopero delle donne: Lavoro, trasformazioni del capitale, lotte edito da Manifestolibri e curato da Alisa Del Re, Cristina Morini, Bruna Mura e Lorenza Perini.

Il volume che fa parte della raccolta Parole di Donna diretta da Teresa Bertilotti e Simona Bonsignori unisce diversi contributi, ma nella sua totalità si fonda su due presupposti che appaiono assodati nell’analisi teorica presentata delle autrici: l’intersezionalità e l’anticapitalismo. Il termine intersezionalità è stato coniato da Kimberlé Crenshaw nel 1989 per indicare come diverse strutture di potere interagiscano tra loro e possano esercitare la loro forza oppressiva congiuntamente e senza escludersi a vicenda. Quello di intersezionalità è un concetto che alcune correnti del movimento femminista hanno adottato per analizzare come il sistema economico e sociale in cui i nostri corpi vivono e vengono normati, agisca in maniera distinta su ognuno di essi: come, ad esempio, una donna Nera lavoratrice sia al tempo stesso discriminata sulla base del suo genere, della sua etnia e della sua classe sociale in maniera diversa e uguale rispetto ad una lavoratrice bianca.

In secondo luogo, l’anticapitalismo. Si evince in maniera inequivocabile anche attraverso diversi riferimenti sottesi, che il femminismo su cui il Lo Sciopero Delle Donne si interroga, è ben distante dal femminismo liberale. Quel femminismo che Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser definiscono il femminismo dell’1% (2018) e che tendenzialmente rappresenta le donne bianche di classe medio-alta. Un femminismo che si misura sulla base della partecipazione strettamente numerica delle donne nelle istituzioni politiche o nei consigli di amministrazione. Un femminismo che parteggia per la parità tra uomo e donna nella possibilità di opprimere la classe lavoratrice e che come argomenta Fatima Farina nel suo capitolo all’interno del libro non corrisponde necessariamente né ad un miglioramento generale delle condizioni di partecipazione delle donne alla res publica né ad un’impostazione femminista delle narrative istituzionali sul genere.

 Lo Sciopero delle Donne tratta piuttosto di un femminismo per il restante 99% della popolazione, un femminismo che auspica a rappresentare tutte le soggettività subalterne al sistema capitalista. Non solo ed esclusivamente le GSRM – le minoranze di genere, sessuali e romantiche, ma la classe lavoratrice, i migranti e le migranti, i Neri e le Nere. Un femminismo che si rivolge non solo a quegli individui e corpi che si identificano come femminili e che come tali assumono tanto nell’apparenza quanto nei ruoli di genere la ripartizione binaria associata al sesso biologico ed eteronormata da patriarcato e capitalismo. Queste premesse obbligano ad un’autocritica che rifletta sul proprio posizionamento personale all’interno del movimento e del sistema tutto prima di poter presentare un’analisi che auspichi ad indagare e rappresentare queste complessità. Il contributo delle donne spagnola del Colectiva XXK, Valentina Longo, Amaia Pérez Orozco e Silvia Piris Lecuona si inseriscono nella pubblicazione con un ragionamento situato rispetto alla loro condizione di femministe che agiscono dentro il movimento. Una pratica che permette di interrogarci sui nostri privilegi e ci permette se non di liberarcene o vivere al di sopra delle nostre contraddizioni, quantomeno di decentrarci e dal margine, insieme ad altre marginalità diverse da noi, analizzare il centro.

Questi sono i presupposti da cui si snodano le elaborazioni presentate all’interno del volume. L’analisi del sistema capitalista attuale dopo la ristrutturazione neoliberista dell’economia e la crisi economica e finanziaria del 2007/2008 rappresenta il punto di partenza per ragionare su quale sia la situazione attuale e viene introdotta dalle curatrici del volume nel primo contributo dopo la nota editoriale di Simona Bonsignori. Si affronta in questa apertura una delle questioni centrali dello sciopero dell’8 marzo ovvero la sua caratterizzazione come sciopero produttivo e riproduttivo. Si pone come tema centrale della mobilitazione femminista il fatto che come ha urlato con forza il movimento argentino Ni Una Menos da cui il movimento internazionale si è ispirato: siamo tutte lavoratrici. Siamo sfruttate dentro e fuori casa come evidenzia Alessandra Vincenti approfondendo uno degli aspetti di cui tratta Lo Sciopero delle Donne: il welfare. La crisi finanziaria, l’austerità e il progressivo smantellamento dello stato sociale si è tradotto materialmente in una stretta repressiva sui diritti delle donne, delle lavoratrici, della loro sessualità e del loro corpo come abbiamo visto accadere in Italia con la spending review prima e il DdL Pillon poi.

Il lavoro di cura già tradizionalmente affidato alle donne, non pagato e non riconosciuto ha dovuto sopperire alla ritirata statale sul fronte assistenziale che negli ultimi decenni ha subito una progressiva etnicizzazione. Lo studio empirico delle condizioni di lavoro e delle lotte delle addette alle pulizie industriali presentato da Angela Toffanin e Francesca Alice Vianello si interroga proprio su come l’equiparazione dello sfruttamento di donne migranti e native abbia favorito l’unione delle loro rivendicazioni al di là della nazionalità. Un’analisi che aiuta a riflettere sulle complessità del patriarcato e del capitalismo globalizzati che creano all’interno del lavoro riproduttivo delle catene di cura globali (Hochschild, 2000): un sistema di relazioni tra le donne che svolgono lavori di cura retribuiti o no e che nella pratica consente alle donne appartenenti alla classe medio-alta di entrare nel mercato del lavoro delegando il lavoro di cura che loro sarebbero state obbligate a svolgere ad altre donne migranti.

L’analisi dell’organizzazione transnazionale dei lavori riproduttivi necessari che costituiscono la precondizione stessa del lavoro produttivo (Davis, 1981) pone un altro interrogativo: quello della cittadinanza. Alisa Del Re si concentra sulla dimensione continentale europea per riflettere sull’inadeguatezza del concetto stesso di cittadinanza e della sua regolamentazione giuridica all’interno dell’UE e degli stati membri nel rappresentare e garantire diritti alle donne.  In questo senso, il lavoro di cura che poggia in maniera consistente sulle donne migranti potrebbe rappresentare un terreno di proposta per una riforma più inclusiva in materia di cittadinanza che si basi sul diritto a ricevere e fornire assistenza alla persona.

In conclusione, Lo Sciopero delle Donne riflettere sulla relazione tra lavoro produttivo e riproduttivo all’interno del sistema patriarcale e capitalista. Si interroga sui loro nessi, sul ruolo funzionale che la violenza di genere acquisisce come strumento di controllo e di mantenimento di questi sistemi grazie al lavoro di auto-inchiesta svolto dal collettivo di Non Una Di Meno di Padova e reitera la proposta dello sciopero globale come strumento efficace per sottrarci allo sfruttamento. Tuttavia, la smaterializzazione del lavoro, la deregolamentazione contrattuale, la crescente precarietà che caratterizza la contingenza storica che viviamo, ha sciolto i confini tra lavoro produttivo e riproduttivo. La complicità tra capitalismo e patriarcato accresce la pervasione del sistema economico e la sua influenza in senso maschilista ed eteronormato di ogni aspetto della nostra esistenza. Cristina Morini sostiene nella conclusione del volume che il capitalismo abbia raggiunto l’integrazione della nostra intera esistenza all’interno del suo ciclo di (ri)produzione. Una conclusione terrificante, ma realista di come comparti fondamentali della nostra vita come l’organizzazione dello spazio urbano, delle abitazioni o della medicina siano plasmati dal sistema economico. Ne discutono rispettivamente Lorenza Perini e Bruna Mura nell’explicit della pubblicazione, riflettendo su come ogni aspetto della nostra vita diventi quindi politico. Un richiamo finale al movimento perché la lotta per l’autodeterminazione della persona, per l’emancipazione del lavoro produttivo e riproduttivo e la rivolta stessa hanno la necessità di reinventare e praticare nuove forme di vivere ripensando tutte le azioni del nostro quotidiano: anche il camminare o l’amare.

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