Di ASSEMBLEA IL MONDO CHE VERRÀ
La pandemia non è finita, ma il mondo ha ripreso a correre, come se nulla fosse. Non stupisce che nei paesi governati dal neoliberalismo autoritario, negazionisti nei confronti del virus, i contagi crescano senza sosta, così i morti. Negli Stati Uniti, in Brasile, in India, la pandemia è diventato uno strumento di guerra alla società, inevitabile “selezione naturale” per far fuori i poveri, con la povertà che corre lungo la linea del colore o colpisce in modo differenziale indigeni e migranti interni. In Italia e in Europa l’emergenza sembrava in parte rientrata, ma i dati delle ultime settimane, dalla Spagna alla Francia e ai paesi dell’Est, ci segnalano in modo inequivocabile che non è così. E vedremo che cosa ci riserverà l’autunno, quando raffreddori, starnuti e finestre chiuse moltiplicheranno le occasioni di contagio…
Intanto, il mondo degli affari fermo non può stare. La dorsale europea della manifattura, quello spazio industriale e logistico che parte dal Belgio e arriva fino alla Lombardia, e dove più drammatica è stata l’esplosione del contagio, non intende in particolare più fermarsi e non si fermerà in autunno. Esibendo la contraddizione, in nessun modo attutita dopo il lockdown, tra vita e lavoro. Eppure, la discontinuità è stata forte, le catene globali del valore si sono frammentate, la catastrofe occupazionale è già in corso, interi settori produttivi – alcuni servizi a basso valore aggiunto tra questi – appaiono destinati alla sparizione.
In questo quadro si inserisce a livello europeo, certo imposto dalla violenza dell’impatto della pandemia ma anche dalla pressione di movimenti diffusi su scala continentale, il cambio di rotta del Recovery Fund: una prima forma di condivisione comunitaria del bilancio e del debito, una poderosa iniezione di liquidità nell’economia non solo finanziaria. Su questo terreno, di contesa durissima e di alternativa radicale, deve situarsi e combattere lo spazio di convergenza che abbiamo cominciato a costruire con i cinque atti del #mondocheverrà.
La discussione e la scrittura del programma, a distanza, sono stati motivi di nuova speranza politica. La consapevolezza di una frattura epocale ha indubbiamente rilanciato il desiderio di combinare le lotte, federare prototipi di nuovo mutualismo, superare i particolarismi e le afasie. Una scommessa vinta, indubbiamente. Ora si tratta però di metterci alla prova con la lunga transizione inaugurata con la “fase 2”: un ritmo sincopato di aperture e chiusure, il punto di non ritorno dello smart working, le ristrutturazioni aziendali imminenti, un approfondimento della crisi del salario diretto e indiretto, il welfare come terreno di conflitto. È una transizione che si innesta su un processo ormai di medio periodo, avviato con la crisi finanziaria del 2008 e con la sua gestione, in particolare nei Paesi del Sud dell’Europa, violentemente impoveriti e dall’austerity e percorsi dalla politica della paura. Il mondo già in cammino non è il nostro, è la catastrofe come forma della governance contemporanea. Aprirlo al mondo che verrà significa, qui e ora, aprire faglie, generare smottamenti, dividere l’uno del potere in due – ovvero inventare e consolidare contropoteri.
Il mondo che verrà si è però in parte già mostrato, potenzialità emergente nei mesi del lockdown e della ripresa: la centralità – già resa indiscutibile dal movimento globale femminista – della riproduzione sociale e del lavoro di cura; le mobilitazioni della Scuola, nella convergenza tra insegnanti e genitori; le “spese solidali” e il ripensamento, dal basso, del welfare; il rafforzamento e l’estensione della pretesa di reddito; le lotte di rider e migranti, quelle degli intermittenti dello Spettacolo e delle partite Iva; la trasformazione della pubblica amministrazione e i conflitti contro la precarietà. Tra questi frammenti di mondo nuovo e la marea anti-razzista degli USA il rapporto non è lineare, ma è potente. Una inedita e molteplice working class, donna e meticcia, precaria e giovane, formata e sotto-pagata nello stesso tempo, fa la sua comparsa nonostante e contro la catastrofe delle corporation multinazionali, i profitti dei giganti Tech e dei Big Data.
Si tratta di capire, ora, se questa emergenza può farsi consistenza organizzativa, alternativa politica, contropotere effettivo. Si tratta di battere, ora come sempre, frammentazione e ripiegamento identitario e/o corporativo. La convergenza delle lotte non è mai scontata, è percorso accidentato che richiede dedizione paziente e innovazione continua. Sul piano europeo, alla luce del Recovery Fund e della ripresa in forze della spesa pubblica, il welfare diviene un terreno di lotta decisivo e unificante, e possiamo scommettere sul fatto che almeno per qualche tempo la riproposizione di una politica sistematica di austerity sia impossibile. L’Europa neoliberale rimane sbagliata, intendiamoci, ma le risorse ci sono e si tratta di capire, con la durezza del conflitto, dove finiranno e in che modo, con quali tempi, ecc. Pretendere oggi più che mai il rafforzamento della Sanità, della formazione e della Ricerca pubbliche, l’estensione senza condizioni del reddito di base, la stabilizzazione del lavoro pubblico, sociale, di cura, significa ripensare la democrazia in Europa. Democratizzare l’Europa, viceversa, non può non voler dire ricostruire, from below, il welfare.
Un grande movimento sociale può oggi costruire in modo nuovo lo spazio europeo, liberandolo dal neoliberalismo e aprendo una prospettiva federalista costruita sull’approfondimento e la reinvenzione della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà. La migrazione si presenta ancora una volta come tema cruciale, non solo per la qualità dei rapporti sociali e della cittadinanza prevalente all’interno dello spazio europeo ma anche per definire la posizione di questo spazio nel mondo – a partire dai rapporti con la sponda Sud del Mediterraneo.
Con la tensione fin qui tratteggiata, l’assemblea nazionale in presenza, il 27 settembre a Roma, può essere occasione importante per verificare le ipotesi politiche collettivamente elaborate in questi mesi: le lotte per la riappropriazione democratica della spesa pubblica continentale possono rompere la frammentazione e gli steccati corporativi, possono superare una volta per tutte i confini nazionali. Un primo momento, guardando da subito alle mobilitazioni autunnali e alla costruzione, con tanti e diversi, di un’assemblea europea telematica. È una scommessa, quella che ritiene possibile fermare la catastrofe del capitalismo neoliberale e autoritario: prepariamoci, proviamoci.
#ilmondocheverrà
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 31 luglio e su DinamoPress.