di VERONICA GAGO.
Una inchiesta sulle condizioni di lavoro, e sulle forme di lotta, nel settore tessile a Buenos Aires. Intanto, a dieci anni dall’incendio del laboratorio tessile Luis Viale in cui persero la vita sei persone, arriva una storica sentenza giudiziaria. *
La pressione cresce. Si prende il tempo di produzione con un cronometro ed ognuno sente su di sè questa invasiva forma di controllo. Nove operatori per ogni tavolo distribuiscono i pezzi di tela. Mani che uniscono gli angoli della tela, altre mani la chiudono dai lati e la piegano tre volte. Intanto, si preparano i colli e si appongono le etichette. Dita agili sembrano magicamente comporre tela con l’ago. Bisogna far coincidere le strisce, non lasciare spazi. In questo laboratorio tessile si cuciono prodotti per le grandi marche come Adidas e Nike. Magliette di calcio della nazionale argentina o per club di primo livello come River ed Estudiantes, ultimi modelli dei tessuti sportivi che brilleranno nelle vetrine dei negozi pochi giorni dopo. Altri prodotti verranno invece esportati. Per garantire la produzione per queste grandi marche stando le attuali condizioni di lavoro, gli operai e le operaie del comparto sartoria quasi non possono alzarsi dal loro posto. Andare al bagno diventa un lusso e un peso, si torna correndo velocemente per vedere quanti sono i pezzi di tela accumulati, disobbedendo al cronometro.
Intanto nel Palazzo di Giustizia, la sezione numero cinque del Tribunale è lo spazio in cui si mette in scena un razzismo espresso senza inibizioni alcune dalle dall’avvocatessa che difende i padroni del laboratorio tessile di via Luis Viale, dove sei persone sono morte dieci anni fa durante un incendio. L’avvocatessa parla dei lavoratori migranti boliviani affermando che “nel contesto in cui si trovano, la loro mentalità è abbastanza primitiva” e si propone di giustificare lo sfruttamento sulla base del fatto che “nel loro luogo di origine vivono in condizioni peggiori”, affermando che possa quindi trattarsi di “reati culturalmente motivati”.
Non si tratta di questioni molto distanti tra loro: sono questi i luoghi da cui vengono diffusi all’intera società immaginari densi di razzismo e disciplinamento sul lavoro in un contesto segnato pesantemente da licenziamenti, tagli e politiche di austerità, mentre si cerca di diffondere la paura, per trasformandola così nell’unica logica capace di spiegare ciò che accade, con l’obiettivo di obbligare tutti i lavoratori – al di là della loro nazionalità – a piegarsi alla logica delle gerarchie e dei ricatti.
Sono messaggi che vengono inviati a tutta la società complessivamente e che quindi eccedono di molto i confini del tribunale o della fabbrica. Senza dubbio però la scorsa sentenza del tribunale sul caso di Luis Viale è stata positiva: oltre alla condanna a trecidi anni di carcere nei confronti dei padroni del laboratorio tessile (un argentino e un boliviano) si è aperto anche un procedimento nei confronti dei padroni delle marche per le quali si produceva nel laboratorio, Daniel Fischberg y Jaime Geiler, così come nei confronti della polizia.
Tagliare e confezionare
Il clima nelle imprese tessili si sta rapidamente scaldando, tra minacce padronali e resistenze dei lavoratori. È tutta una questione di tagli di tempi e di costi, per l’impresa Tessicot S. A., dove sono impiegati 800 lavoratori. Si tratta solo di una tra le tante fabbriche tessili dove stanno aumentando le tensioni e i conflitti: se i sindacati per il momento invitano alla pazienza e alla calma, i lavoratori sanno bene che nell’attesa continuano ad aumentare i ricatti padronali, mentre la voce relativa ad una lista giò pronta dei prossimi lavoratori da licenziare non può essere più sommersa nemmeno dai rumori delle macchine da cucire.
Le politiche di austerità producono conseguenze dirette sui corpi dei lavoratori e delle lavoratrici (per l’85 per cento – 600 persone – si tratta di donne e uomini migranti): tendinite, cervicale, lumbalgia, ernia del disco, stress, attacchi di pánico si sono diffusi rapidamente nella fabbrica. Le licenze per malattia si moltiplicano e chi si trova a dovervi fare ricorso entra automáticamente nella lista dei possibili prossimi licenziati. Ma il corpo umano ha dei limiti, che diventano così frontiere della resistenza.
“Non possiamo devastarci per portare a compimento ciò di cui la fabbrica ha bisogno, abbiamo i figli che ci aspettano a casa” grida Rebecca durante l’assemblea improvvisata nel Parco Los Andes, nel cuore del quartiere della Chacarita a Buenos Aires. Di fronte ci sono le vetrine dell’outlet della Nike, che rifletteranno poco dopo, perdendo il loro splendore, gli striscioni improvvisati sul momento dai lavoratori.
Lo stesso giorno in cui Mauricio Macri ha posto il veto alla legge contro i licenziamenti, nella fabbrica tessile Tessicot, legata all’impresa Sedamil, veniva impedito l’ingresso a sette lavoratori. Era già successo con altri prima. Senza averlo prima comunicato ai diretti interessati, l’impresa ha deciso ilicenziamenti per motivi di ristrutturazione. E, guarda caso, cinque di loro erano i rappresentanti sindacali delle linee di produzione in cui sono impiegati.
Sono tutti boliviani, e già vengono pagati molto meno dei lavoratori argentini. Stanno resistendo da circa due mesi all’implementazione del piano Lean che esige un aumento della produttività. I padroni speculano sulla paura, minacciano la chiusura a causa dell’apertura del mercato e delle importazioni dalla Cina ed esigono un aumento della produzione. “Più veloce e meglio” viene detto all’orecchio di ciascun lavoratore reclinato sulle tele mentre cuciono ad un ritmo sempre più insostenibile. Vi sono altre operazioni che vengono svolte al di fuori della línea di produzione, compiute da operaie che si trovano a lavorare davanti ad un tavolo, e anche loro vengono investite dalla logica della produttività mentre si esige da loro maggiore qualità.
Ninoshka ha il braccio immobilizzato, ma non smette di parlare della sua situazione nonostante il freddo, denunciando la responsabilità dell’impresa. Mentre ascoltiamo la sua testimonianza, si avvicina un ragazzo e dice “Lavoro in una fabbrica qui vicino, produciamo mobili e anche da noi oggi sono cominciati i licenziamenti e i turni sono stati dimezzati”. Per la prima volta incontra in strada decine di lavoratori dell’impresa vicina che non aveva mai conosciuto, dato che siè sempre trovato passare là davanti di fretta per prendere la metro, il treno o l’autobus. Non aveva mai nemmeno immaginato di partecipare con loro ad un’assemblea improvvisata lì sul momento.
Anche Ely soffre per dolori alle spalle e per questo è stata estromessa dalla línea di produzione. È obbligata a fare riabilitazione ma non si allontana dalla sua oganizzazione, cosciente che sarà la sola a restiturgli la salute. Il conflitto assume visibilità pubblica ma la lista dei licenziamenti non smette di essere un fantasma pronto a riapparire appena si torna alla routine. Le delegate di línea che pochi giorni dopo l’assemblea discutono davanti alla fabbrica continuanao ad essere convinte che la questione centrale sia la riassusnzione dei lavoratori licenziati. Ma proprio in quel momento un’altra lavoratrice prende la parola e avvisa tutte che i salari delle utile settimane sono già stati decurtati delle ore di sciopero, perchè il sindicato non ha appoggiato la lotta. “La versione ufficiale è che sono stati ripresi dai video i lavoratori che hanno bloccato la produzione”, puntualizza. Cresce il malcontento così come la sensazione che la rappresaglia colpirà le loro tasche, che sono sempre più vuote, perchè non tutte ricevono i buoni pasto (un’altra delle discriminazioni interne alla fabbrica) e l’ultimo aumento salariale è stato di soli 240 pesos.
È tempo di organizzarsi
“Dobbiamo organizzarci, in qualunque modo, è questa la nostra unica forza” dice Miriam, una delle attiviste che preferisce non dire il suo nome vero. Trovare il tempo per organizzarsi è anche questa una lotta vera e propria. I lavoratori sono disposti a dare battaglia per eleggere i delegati di línea. “Ci stiamo formando tra di noi per poterci presentare alle elezioni dei delegati di settembre. Ci riuniamo per leggere e studiare i contratti, ci incontriamo con altri lavoratori di fabbriche tessili, cerchiamo di organizzarci senza perderé la nostra dimensione assemblearia”.
In mezzo al conflitto si percepisce come spesso manchi il tempo da dedicare alla formazione: si tratta di una conseguenza dovuta alle sempre maggiori energie e ai tempi che diventa necessario dedicare alla lotta, ma questa cosa non è esente da complicazioni. “Per molte di noi diventa difficile: lavoriamo molte ore, sappiamo anche che dobbiamo dedicare sempre più tempo alla lotta, ma soprattutto non possiamo abbandonare i nostri figli” dicono, dopo la manifestazione.
“Abbiamo bisogno di sostegno, senza che questo si traduca in una burocratizzazione della lotta. Guidano il conflitto i licenziati e i rappresentanti di línea che tengono le relazioni con tutti gli altri lavoratori, pur non avendo molta esperienze politica” ci spiega un’altra delle partecipanti alla riunione di formazione. Si tratta di un processo di apprendimento accelerato dalle contingenze della lotta. Miriam aggiunge “Occorre sostenere la lotta, aiutarci l’un l’altra a resistere nonostante i problemi e i ricatti, mantenere le relazioni tra chi è stato licenziato e chi continua a lavorare”. Si tratta di tanto lavoro, ma senza dubbio stiamo parlando di un’altro tipo di lavoro.
Uno, due, mille laboratori
Molti dei lavoratori tessili sono stati impiegati, prima di essere assunti in fabbrica, in quei laboratori tessili che a livello mediatico vengono chiamati “clandestini”. Si discute molto delle differenze, così come delle somiglianze, tra i metodi di lavoro in due ambiti che a prima vista potrebbero sembrare distanti l’uno dall’altro. “State attenti che in fabbrica ci sono tantissimi cavi elettrici che sovraccaricano le prese e i locali sono anche sovraffollati. Se un giorno ci fosse un incendio, sarebbe una tragedia” dice Ninoshka. Ovviamente il fatto che si parli di un incendio non è un caso, si tratta invece di un richiamo preciso.
Proprio in queste ultime settimane si sono tenute le udienze ed è infine arrivata la sentenza del processo relativo all’incendio del laboratorio tessile di via Luis Viale. Un incendio avvenuto esattamente dieci anni fa, che ha segnato un momento di svolta drammatica nella visibilità di queste realtà del lavoro. Da quel momento una serie di organizzazioni di giovani migranti hanno accolto la sfida di politicizzare quelle realtà che non si stanacavano di denunciare lo sfruttamento e che non si arrendevano a credere che bastasse parlare di “lavoro schiavile” per fare chiarezza sulla condizione di lavoro in questi laboratori. Un anno fa, quando si è incendiato il laboratorio di via Paez, nel quartiere di Flores, questa rete di organizzazioni ha dimostrato la sua forza e la capacità di costruire una narrazione differente capace di dare voce ai lavoratori, una voce molto più complessa ed articolata rispetto a quella narrazione semplicistica che fa comodo a chi pensa di risolvere il tutto con una denuncia penale o a chi crede di possedere le ricette già pronte per organizzare il malessere sociale.
Myriam Carsen, avvocatessa delle vittime dell’incendio che hanno querelato i padroni, ritiene che il processo sia stato un fatto importante. “Credo che il processo si sia svolto in una maniera molto diversa da come ci aspettavamo, è finito molto meglio di quanto pensassimo, perchè per la prima volta un giudice ha difeso i lavoratori del laboratorio. Quest’ultimo giudice ha dato spazio ad una vera inchiesta e ha svolto un ruolo importante ne far si che si sia stata fatta luce sui fatti, con impegno e serietà. Quando sembrava ormai tutto perso, abbiamo ottenuto che il processo andasse ancora avanti”. I giudici avevano tentato più volte di chiedere la prescrizione, ma una volta che la Cassazione li ha obbligati a procederé con il processo, si sono dimostrati interessati ad entrare nei dettagli in questa nuova tappa giudiziaria. “Ciò dimostra l’utilità delle testimonianze orali: non è la stessa cosa leggere delle carte che ascoltare direttamente le voci delle vittime, trovarsi di fronte i testimoni e le loro famiglie. Sulla base di tutto ciò si è anche proceduto con la visita al laboratorio incendiato”. Lo scorso martedì, dopo la sentenza, Carsen ha dichiarato a Pagina 12 che è stato una “sentenza giudiziaria completa anche se non si riconosce il capo di imputazione del dolo, viene però riconosciuta la riduzione in servitù e si è dato inizio alla procedura per aprirte un procedimento anche nei confronti dei proprietari del locale, a loro volta datori di lavoro, e dei funzionari di polizia”.
Né schiavi né primitivi
Parlare dei lavoratori migranti come schiavi, sottomessi e primitivi è sempre stato un modo di infantilizzare la loro condizione, elemento che appartiene storicamente anche alla logica patriarcale. Per questo, entrambe le questioni, quella migrante e quella di genere, confluiscono nel luogo più appropriato: le strade. Il mutismo con cui alcune delle donne hanno reagito di fronte alla perdita dei loro figli nell’incendio comincia pian piano a schiudersi.
Di fronte agli argomenti razzisti che abbiamo potuto ascoltare durante il proceso, il collettivo Simbiosis Cultural, che da anni lotta per ottenere giustizia sull’incendio di Viale, si chiede “Che costi hanno tali affermazioni? Nonostante comprendiamo che sia espressione dell pensiero di una parte della società, è grave il fatto che si utilizzino certe argomentazioni in un ámbito giuridico, da parte di una funzionaria pubblica, docente dell’Università di Buenos Aires, che ha anche insegnato in Bolivia. È davvero molto grave se come società ci troviamo a avallare questi discorsi, ed ancor più grave se lo facciamo come comunità boliviana e come lavoratori migranti. Impediremo che si cambi l’obiettivo di questo processo, che si modifichi la posta in gioco, che resta quella di determinare le responsabilità di chi tratta in questo modo i lavoratori per aumentare i profitti, e ricostruire le linee di continuità della catena di produzione che vengono occultate dalla frammentazione della produzione stessa”.
La necessità di mettere in luce le connessioni tra le resistenze in ambiti differenti, di mettere in relazione ciò che accade in una fabbrica con ciò che si vive all’internodi una organizzazione di quartiere, ciò che viene discusso in ambito giuridico con la violenza istituzionale, collegando la violenza che si vive nei territori con l’impatto del tarifazo (così viene denominato il vertiginoso aumento del costo dei servizi disposto dal governo Macri) e così via, è possibile solo nella misura in cui si connettono le pratiche e i linguaggi per mettere in evidenza la singolarità di ciò che è comune. Gli scenari legati del processo per l’incendio del laboratorio tessile e all’assemblea dei delagati srendono visibile solo uno dei tanti collegamenti, per cui occorre affrontare la sfida di costruire traduzioni e connessioni con altre realtà.
Si tratta di un lavoro quasi artigianale, che ha bisogno di tanto tempo, dal quale però emergono delle voci potenti. Sonia, del collettivo Simbiosis, aggiunge “ Se si ritengono valide le argomentazioni usate contro di noi, è perché si vuole dire che in Argentina esistono cittadini che non possono reclamare diritti, dato che rientrano all’interno di un parametro culturale altro, che sta fuori dal diritto. Infatti, nei confronti delle uniche persone che hanno osato reclamare rispetto alle condizioni di lavoro e hanno avuto il coraggio di denunciarle, la difesa ha chiesto il procedimento per falsa testimonianza, mettendo in luce il “loro” ruolo di “sottomissione” nel lavoro. Inoltre diventa lampante come queste dichiarazioni puntino a legittimare lo sfruttamento del lavoro dato che affermano che “nel loro paese vivono in condizioni peggiori”. Tutto questo non possiamo tollerarlo”. Occorre mostrare il confine dell’intollerabilità e come dice Myriam, l’unico modo di farlo è organizzandosi.
*Fonte DinamoPress – Originariamente pubblicato con il titolo “Tela para cortar” sul quotidiano argentino Pagina12 e sul blog Lobo Suelto.
Traduzione in italiano di Alioscia Castronovo.