Segnaliamo l’uscita della seconda edizione ampliata del libro di Sandro Chignola Foucault oltre Foucault per DeriveApprodi e pubblichiamo qui il capitolo “Fabbriche del corpo. Foucault, Marx”.


Di SANDRO CHIGNOLA

Fabbriche del corpo. Foucault, Marx

1. La prendo alla lontana. Tanto il termine corpus quanto il greco sōma hanno un’origine oscura. Corpus, si suppone, potrebbe essere un allargamento di un tema *krp– attestato in indoiranico. Qui, esso significa «forma» o «bellezza». Ciò che risulta più chiaro è la simmetria sottesa all’uso del termine tanto in latino quanto in greco. In Omero sōma è sempre riferito al corpo inanimato, al cadavere. Quando si parla di un corpo vivente, egli usa démas. Démas è un termine interessante: esso sviluppa, ci dice Benveniste, un’antica radice verbale *dem– che significa «costruire» e dalla quale derivano tanto i termini «politici» della casa (la forma iranica –dam; il lat. domus), quali ad esempio despótēs (signore), dmōs (servitore) o dmōē (ancella), quanto il termine démas, appunto, nel senso di forma o di apparenza visibile e corporea di un vivente animato: la sua «costruzione». Il latino registra questa opposizione terminologica – quella tra sōma e démas – opponendo corpus e anima, il principio che dà forma alla materia inerte. Di qui una considerazione ulteriore. Corpus non è solo, per analogia con sōma, il cadavere, il corpo morto di un uomo o di un animale, ma è il termine che il latino adopera per indicare, in senso molto più largo, qualsiasi oggetto materiale – «omnes quod potest uideri corpus dicitur» (Servio, Commentarii in Vergilii Aeneidos, 6, 303) –, nonché, per estensione, qualsiasi aggregato di parti una volta che esso abbia preso forma[1]. Corporo significa in prima istanza: uccido, faccio, oppure fornisco, un cadavere. Ma, coniugato in forma passiva, il verbo corporare – e cioè: assumere le sembianze, la forma corporis –significa incarnarsi, prendere corpo, materializzarsi. Di qui i termini politici corporatus, corporatio e le forme verbali concorporo, incorporo, che si riferiscono non solo al composto in cui vengono aggregate le parti, ma anche al principio vitale che le anima. Anima, animal: un’altra semantica. Sulla quale non posso ora soffermarmi. Diciamo semplicemente che il lessico dell’organico, dell’organismo, al quale è riferito il campo metaforico e concettuale della «vita politica»[2], muove da un’opposizione tra materia inanimata e materia animata – animata: attivata dalla respirazione (psychē: in greco, prima di «anima», «soffio», «aria»), da un animator che le dà la vita – in cui è un elemento direttivo, un principio di movimento in qualche modo eccedente la sua inerzialità, ad assegnare «organicità» al corpo[3]. Anima: archē degli esseri viventi, per Aristotele (De Anima, 402 a7).

Inizio ad avvicinarmi. In epoca elisabettiana, in Inghilterra, i giuristi della Corona trovano la migliore formulazione per risolvere il problema della continuità del body politic. Si tratta della teoria dei due corpi del Re. «The King has in himself two bodies», essi concordano in una dichiarazione al Sargeant’s Inn resa per giustificare la pienezza dei poteri del re anche quando egli non abbia raggiunto la maggiore età, «a Body natural and a Body politic». Il corpo naturale del re è un corpo mortale «subject to all Infirmities that come by Nature or Accident»; il corpo politico «consisting of Policy and Government, and constituted for the Direction of the People and the Management of the public Weal» è invece incorruttibile e non soggetto a imperfezioni né attaccabile dall’età o dalla malattia. È un corpo perfettamente separato dal corpo naturale[4].

È noto come questa costruzione giuridica sia stata elaborata nella sua forma compiuta in condizioni particolari e cioè per legittimare il pieno esercizio del potere regale nei successori al trono di Enrico VIII: Edoardo, re minore, Maria ed Elisabetta, donne. Sulla base del paradigma cristologico, e cioè della doppia natura del Cristo, i giuristi della Corona risolvono il dualismo esistente tra la dottrina della corporatio – il corpus mysticum sovratemporale della comunità politica – e la dottrina della maiestas del re, incarnata di volta in volta in un corpo mortale e in una persona fisica. Ai nostri fini, ciò che è più importante è la teoria della «migrazione» sulla quale i giuristi costruiscono la continuità del body politic alla morte del re. Nel diritto comune inglese la morte del re non è chiamata «Death» essi fanno notare secondo i Reports di Plowden, ma «Demise», perché il corpo politico della monarchia non muore e ciò che con il decesso della persona fisica del monarca torna a separarsi sono solo i due corpi del re: il cadavere che viene sepolto è quello del re naturale, ma la sua «Dignity», l’anima (Soul) immortale dell’istituzione, trasmigra senza interruzione nel suo successore, reincarnando il body politic in un uomo di carne e ossa: dignitas non moritur. Di nuovo anima e corpus del regno, dunque. 

Non è questa la sede per seguire la lunga storia e tutti gli impliciti di questa teoria dell’istituzione monarchica. Ernst Kantorowicz, com’è a tutti noto, ne ha vagliato riti, iconografia, fonti testuali[5]. Quello che mi interessa, piuttosto, è il modo in cui Pierre Rosanvallon ha fatto riferimento a questa stessa teoria studiando un’istituzione differente e cioè la storia del suffragio universale in Francia. Con questo, facciamo un altro passo, il terzo, di avvicinamento al tema di cui intendo occuparmi in questa occasione. C’è un dispositivo teologico-politico al lavoro anche nell’elezione democratica. Thomas Hobbes lo ha espresso in modo piuttosto chiaro quando, nel capitolo XVI del Leviathan, risolvendo il dualismo della rappresentanza corporativa che aveva sino ad allora permesso di pensare il rapporto tra principe e ceti come un rapporto di confronto e di resistenza tra istanze separate[6], introduce il concetto moderno di rappresentanza politica. Il sovrano rappresenta l’unità del popolo e attraverso la sua persona, termine teatrale quest’ultimo, sottolinea Hobbes, che in latino significa «maschera», gli conferisce un’esistenza che esso non possiede di per sé. È esattamente in questo senso che è il sovrano a fare il popolo e non viceversa, come solo in apparenza potrebbe sembrare stante la fictio autorizzativa del patto sociale[7]. L’unità del «people» viene prodotta, sulla scena del teatro politico, dall’atto rappresentativo che raccoglie la dispersa «multitude» delle volontà individuali in cui vengono dissolti i corpi e i ceti della societas civilis sive politica medioevale; dissoluzione che Hobbes identifica, per poterne in seguito derivare l’uguaglianza dei soggetti di diritto, a un prepolitico stato di natura. Il Commonwealth è un corpo mistico organizzato dalla legge come espressione unitaria della volontà rappresentativa del sovrano.

Non è, questo, un complicato passaggio esclusivamente interno alla teoria politica della sovranità. Al contrario, questo passaggio, che oppone in Hobbes due termini – «multitude» e «people» – per dissociare, a fini di legittimazione, i due tempi del patto, viene riprodotto e mantenuto nella storia costituzionale delle istituzioni democratiche. Rosanvallon, che rinviene nel suffragio universale l’operatore che realizza la progressiva integrazione politica del sociale, impiega la metafora dei due corpi del re per ricostruire le modalità attraverso le quali la disuguaglianza che segna la dura materialità dei processi sociali può essere recuperata nella temporalità immateriale dell’equivalenza giuridica. Ci sono due corpi del popolo che attraversano la storia costituzionale dell’Ottocento e la storia del suffragio – autentica tecnologia di trasformazione del corpo del popolo (corpo sudicio, corpo irriducibile, corpo indisciplinato, corpo per la designazione del quale la retorica politica liberale e conservatrice tra Sette e Ottocento usa termini spregiativi quali «populace», «plebe», «mob», «swinish multitude») nel corpo glorioso della nazione posto all’origine delle declaratorie costituzionali («popolo», «people», «peuple») – coincide con la trasmutazione del primo nel secondo. Il suffragio: autentico «Adelbrief des Volkes» lo chiama Heinrich von Treitschke, valorizzandone appunto le virtù trasformative e le funzioni di «nobilitazione»[8].

Poco importa come il libro di Rosanvallon rappresenti una sorta di rovescio speculare delle posizioni del giovane Marx di Zur Judenfrage (1844)[9]. Come in esso venga fatta l’apologia del processo di spoliticizzazione che, nel corso della lunga rivoluzione francese, spinge il proletario a cedere le armi per integrarsi nel gioco democratico delle elezioni e al quadro dell’equivalenza nel diritto di voto di riscattare, anche se solo in termini formali, la sperequazione che segna i processi sociali. Ciò che mi interessa, piuttosto, è come qui la metafora dei due corpi del popolo – il corpo collettivo in cui si inscrive il «citoyen» e il corpo naturale, selvaggio, del «prolétaire» – venga riattualizzata per indicare l’opposizione, solo apparentemente risolta e recuperata nell’inclusività della cittadinanza universale, tra forma e materia della soggettività. 

2. Entro allora finalmente nel merito. Mi interessa in questa sede analizzare un’altra modalità di questa opposizione tra i due corpi del popolo. L’opposizione che buona parte dell’Ottocento riconduce a quella tra il barbaro e il lavoratore, tra la «classe pericolosa» e la «classe lavoratrice»[10]. Mi interessa, in altri termini, non tanto il registro politico-costituzionale in cui essa viene elaborata, quanto piuttosto, e forse preliminarmente, come viene appunto «pensato» – e cioè: progettato, fabbricato, al di fuori di qualsiasi mistica o fictio giuridica – il corpo operaio come corpo docile o come corpo utile. Nel farlo, svilupperò due tesi. La prima riguarda il rapporto di Michel Foucault con Marx. Un rapporto problematico ed evolutivo, segnato da profondi ripensamenti, per alcuni. Marx del tutto interno all’episteme moderna e integralmente riassorbito nel quadro delle categorie ricardiane in Les mots et les choses[11]; «intaurateur de discursivité» inevitabile da attraversare, non molti anni dopo[12]. Un rapporto semplicemente inesistente, per altri. Indice, per quest’ultimi, non solo del profondo disinteresse di Foucault per l’economia e per la storia del pensiero economico – le cui categorie sarebbero «invisibilizzate», quando non del tutto rimosse dalla sua analisi dei dispositivi di potere[13] –, ma di una sorta di disprezzo per il marxismo e per Marx che svelerebbe l’esito liberale della sua filosofia. La seconda tesi riguarda invece, ed è evidente come essa retroagisca sulla prima, il modo nel quale Foucault pensa non soltanto il corpo, ma, con Marx, la produttività del potere e il suo debordare la griglia concettuale con il quale la teoria politica ha provato ad esorcizzarlo trattenendone le forme di esercizio nel quadro del diritto. È a quest’altezza che il riferimento a Marx assume, io credo, la sua vera rilevanza. «Comment pourrions-nous essayer d’analyser le pouvoir dans ses mécanismes positifs?». È questo l’interrogativo che si pone Foucault. E lo fa negli anni in cui, disambiguando fino in fondo l’obiettivo della sua ricerca, entrano prepotentemente in gioco i processi di soggettivazione. «Le pouvoir» – in fondo e al di fuori di qualsiasi mediazione – «c’est la lutte de classes», aveva potuto dire pochi anni prima nel corso di un’intervista rimasta inedita.

Il potere è l’insieme dei rapporti di forza – proprio per questo asimmetrici, segnati dalla disuguaglianza, e tuttavia continuamente mutevoli, rovesciabili – che si possono dare in un corpo sociale dato[14]. Pensare positivamente il potere significa per Foucault non soltanto desostanzializzarlo, toglierlo dal sistema di riferimenti che lo concettualizza come una «cosa», ma pensarlo nella differenza dei rapporti che esso irretisce producendoli, attraversandoli e, almeno sinché esso ci riesce, riproducendoli come ordinati. In Marx, e in particolare nel Capitale, Foucault ritrova alcuni degli elementi fondamentali per poterlo fare[15]. In primo luogo, l’analitica marxiana dei rapporti di produzione mette in luce la multilateralità e il coordinamento dei meccanismi di potere. Insistendo sulla specificità e la localizzazione del dominio di fabbrica, Marx mette in rilievo la differenza tra questa particolare forma di esercizio del potere e quelle di tipo giuridico che attraversano lo spazio sociale. La relativa autonomia del comando che vi viene esercitato – vale la pena di farlo notare: non come la realtà alla quale l’ideologia giuridica debba essere riportata e confrontata per esservi smascherata, ma come sistema di rapporti del tutto eterogenei rispetto a quest’ultima – rende di fatto impossibile pensare, è questo il secondo elemento che Foucault intende valorizzare di Marx, quello stesso comando come ripetizione specifica di un potere centrale originario o come diretta derivazione da esso. È lo schema teorico-politico della modernità giuridica che viene con ciò rovesciato. Per il moderno contrattualismo la società è resa possibile dal potere che la organizza e che la irretisce in un sistema di poteri secondari, gerarchicamente subordinati, messi in movimento e autorizzati dall’unità del sovrano. In Marx, al contrario, è l’esistenza di forme di esercizio del potere locali e diffuse per l’intero spazio sociale – la proprietà privata, la schiavitù, la fabbrica, l’esercito – ciò che anticipa e che determina il costituirsi dei grandi apparati dello Stato. Questo rovesciamento marxiano impone un’analitica extra-giuridica del potere e una visione evidentemente strategica in relazione alle specifiche modalità del suo esercizio. Infine, terzo elemento che Foucault rinviene nel Capitale, se una razionalità univoca è dato rintracciare in questi meccanismi di potere locali ed eterogenei, questa razionalità non può essere ricondotta alla cifra dell’interdizione. L’«arcipelago di poteri differenti» che Foucault identifica allo spazio sociale è percorso da un imperativo di produzione piuttosto che da istanze che caratterizzino il potere in termini repressivi. Produzione di efficienze, produzione di attitudini, produzione di produttori[16].

Qui Foucault scioglie evidentemente le proprie riserve in rapporto a Marx.  E lo fa in una direzione perfettamente coerente, mi sembra. La tranquilla inserzione del marxismo nella disposizione epistemologica che lo accoglie – «il marxismo è nel pensiero del XIX secolo come un pesce nell’acqua» egli aveva scritto nel 1966 con un’espressione celebre, negando di fatto la «coupure» althusseriana: il Capitale come «una vera rivoluzione epistemologica nel suo oggetto, nel suo metodo e nella sua teoria»[17] – deriva dal residuo hegeliano che ne segna la dialettica e dal «naturalismo» delle categorie economiche che essa impiega.

In un testo di qualche anno prima, Foucault aveva esplicitamente richiamato l’attenzione su questa tensione interna al pensiero di Marx. La tensione tra istanza sistematica e istanza politica, potrebbe forse dirsi concentrando l’attenzione sulla costante valorizzazione foucaultiana della pratica storiografica marxiana; una pratica all’interno della quale la prima viene permanentemente debordata e sfidata, squilibrata nelle sue premesse e nei suoi esiti, revocata nella sua tenuta dall’analisi dei posizionamenti reciproci in cui vengono tracciati processi di soggettivazione e disposizioni tattico-strategiche dei poteri. Ciò che segna l’internità di Marx al secolo XIX e all’ordine del discorso economico è l’idea che il lavoro possa essere hegelianamente pensato come «essenza concreta» dell’uomo («das sich bewährende Wesen des Menschen», aveva scritto Marx)[18], quando invece – così Foucault – il lavoro è l’effetto, meglio: il prodotto, di una serie di tecnologie di dominio volte a conquistare il corpo e imbrigliarlo in logiche di produzione. «Le travail n’est pas l’essence concrète de l’homme. Si l’homme travaille, si le corps humain est une force productive, c’est parce que l’homme est obligé de travailler. Et il y est obligé, parce qu’il est investi par des forces politiques, parce qu’il est pris dans des mécanismes de pouvoir», scrive Foucault[19].

L’obbligo al lavoro viene conquistato con una serie di interventi che mobilitano fattori extra-economici e che agiscono disciplinarmente sulla produzione di soggettività. Ed è proprio Marx – un Marx le cui analisi sulla circolazione e sulla moneta valorizzano la superficie di iscrizione dell’intera fenomenologia dei rapporti di potere e dei loro effetti (una «platitude» in cui scompare ogni riferimento ad un fuori e in cui il negativo, non recuperato da nessuna dialettica, permane come apertura, come indeterminazione, come possibilità, facendo sì che quest’ultima possa davvero essere rovesciata)[20] –, ed è proprio Marx, dicevo, il motore di questo riorientamento dell’analisi. Marx eccede il discorso dell’economia politica proprio in quanto lo porta ad esaurimento e, oltre il bordo del suo paradigma, apre processi e categorie propri all’economia come sapere alla cruda materialità della storia[21].

Sarà di lì a poco questo Marx – un Marx oltre Marx – ad orientare il «rovesciamento del principio di Clausewitz» che Foucault erige a griglia interpretativa del discorso storico e del processo sociale. «Qu’est-ce que cela met donc au principe de l’histoire? D’abord, une série de faits bruts, faits qu’on pourrait dire déjà physico-biologiques», potrà dire allora, «vigueur physique, force énergie, prolifération d’une race, faiblesse de l’autre, etc.; une série de hasards, de contingences en tout cas: défaites, victoires, échecs ou réussite des révoltes, succès ou insuccès des conjurations ou des alliances; enfin, un faisceau d’éléments psychologiques et moraux (courage, peur, mépris, haine, oubli…). Un entrecroisement de corps, de passions et d’hasards: c’est cela, qui, dans ce discours, va constituer la trame permanente de l’histoire et des sociétés»[22].

Che la politica sia il proseguimento della guerra e non viceversa è la lezione che Marx ritiene dagli storici francesi della Restaurazione[23]. Foucault installa questo stesso principio al cuore della sua analitica del potere. E ne ricava un dato centrale: il rapporto di potere non è mai univoco né eliminabile. Ed è di nuovo a Marx che egli riconosce di aver spezzato l’incantamento che vede come unilaterale il rapporto di dominio e il suo rovesciamento come semplice disattivazione del suo codice. Marx «sait parfaitement que ce qui fait la solidité des relations de pouvoir c’est qu’elle ne finissent jamais: il n’y a pas d’un côté quelques-uns, de l’autre beaucoup; elles passent partout: la classe ouvrière retransmet des relations de pouvoir, elle exerce des relations de pouvoir», dice Foucault[24]. Dal punto di vista soggettivo della sua composizione sociale e politica, la classe operaia non subisce subalternità e dominio, ma detiene ed esercita, invece, potere: è questa la lezione che è possibile trarre da Marx.

Il corpo umano è una forza produttiva. Ma una forza produttiva non è un dato biologico o un semplice materiale a disposizione. Il corpo umano è, proprio nell’accezione che gli ascrive una forza produttiva, un’invenzione storica e l’effetto delle procedure specifiche che lo investono. Meglio ancora, se si tiene in considerazione il concetto di storia con cui lavora Foucault, il corpo è un prodotto storico. E cioè un divenuto, la cui selezione si è venuta determinando nel confronto irriducibile tra tattiche di conquista e tattiche di sottrazione o di contropotere. Foucault, e non solo alla metà degli anni ’70, ma sin da prima, lavora all’interno di un cantiere marxiano perimetrato al libro primo del Capitale. E lo fa con un doppio obiettivo. Il primo, in rapporto a Marx, è quello di «liberare» Marx dalla dogmatica marxista. La frase che allora scandalizzava, «Marx è morto», acquisiva il suo significato in relazione al processo di imbalsamazione che concetti e categorie marxiane erano venuti subendo nelle pratiche teoriche e politiche dei partiti comunisti. In un’importante intervista del 1983, l’anno prima della sua morte, Foucault ammetterà di aver citato poco Marx per effetto di quella sorta di «obbligo» a farlo che marcava il canone del bon ton intellettuale di allora. «Mais je pourrais retrouver», egli potrà dire, «bien des passages que j’ai écrits», pur senza citarlo, «en me référant à Marx». E non solo. Alludendo al destino di Nietzsche, dato per definitivamente squalificato nel 1945 e ricomparso come filosofo inevitabile da attraversare nella seconda metà del ‘900, egli avrebbe in quella stessa occasione sostenuto: «il est certain que Marx, même si l’on admet que Marx va disparaître maintenant, réapparaîtra un jour»[25]. Poiché Foucault rifiutava radicalmente la profezia, mi piace pensare che questa ricomparsa significhi l’affioramento del filo rosso marxiano che percorre la sua analitica del potere.

Il secondo obiettivo riguarda invece non solo Marx, ma l’impianto stesso di questa stessa analitica del potere. Foucault, lo ha sempre fatto, ma lo fa con maggior forza nella seconda metà degli anni ’70, intende degiuridificare il potere, sottrarlo alla macchina che lo riferisce al modello della legge. Ciò che egli rintraccia in Marx, a questo proposito, non è solo una nozione produttiva, positiva, di potere, ma un evidente, strutturale, inceppo da opporsi al compromesso socialdemocratico sul quale si rilancia l’invasività sociale dei biopoteri. Analizzare il potere privilegiando l’apparato di Stato, privilegiandone gli aspetti di conservazione, identificandolo ad una sovrastruttura giuridica, come tendono evidentemente a fare una parte della dogmatica marxista e lo stesso Althusser, significa per Foucault finire con il «rousseauiser Marx»[26]. E cioè: non soltanto col fare di lui il semplice perno per una strategia di democratizzazione giuridica, ma, attraverso la sua inclusione nel dispositivo del diritto – è la strategia socialdemocratica della fine del secolo XIX – finire con il legare a doppio filo marxismo e Stato nella pianificazione, gestione e conservazione riformista del patto sociale fordista. Con tutto ciò che questo comporta in termini di diffusione dei poteri nei circuiti della riproduzione sociale.

Mettere al centro dell’analisi una nozione non giuridica e non strettamente economica di potere – una nozione, questa, che Foucault rivendica a Marx – significa porre a tema le modalità attraverso le quali i flussi della valorizzazione vengono millimetricamente regolati da istanze che, sin nei gesti e nei ritmi individuali, rendono possibile, fluidificano e intensificano la produzione di merci. Uscire dall’incantamento che riferisce solo allo Stato il potere significa per Foucault accedere all’insieme di strategie – giuridiche e disciplinari – per mezzo delle quali vengono concretamente realizzate le istituzioni del mercato e prodotti i suoi agenti; contemporaneamente realizzati tanto l’obiettivo di mettere sotto controllo gli illegalismi, quanto quello di trasformare interamente il tempo di vita in tempo di lavoro («alle Lebenszeit in disponible Arbeiszeit für die Verwertung des Kapitals zu verwandeln», aveva scritto Marx[27]). Quella che Foucault chiama, con un’evidente suggestione weberiana, la «grande mutation technologique du pouvoir en Occident» viene portata a termine con il montaggio, multilaterale e discontinuo, di un «mécanisme de pouvoir» che, proprio in quanto controlla cose e persone sino al minimo dettaglio, si dimostra capace di non essere né oneroso, né predatorio nei confronti della società. E cioè capace di invertire il modello fiscale, sottrattivo e rapace dell’Assolutismo esercitandosi «dans le sens du processus économique lui-même»[28].

3. Torniamo al corpo, dunque. E torniamoci, questa volta, direttamente attraverso Marx. Nel primo libro del Capitale ricorrono una serie di espressioni rilevanti per la traccia che abbiamo iniziato a seguire. La prima concerne l’uso marxiano dei termini di Hobbes. Il punto di avvio della Darstellung marxiana è la merce. Ed è per questo motivo che, sul mercato, i possessori di merce entrano letteralmente in scena come persone che portano ad espressione la rete di contratti e di rapporti giuridici di cui consiste la sfera della circolazione. Marx riprende alla lettera l’espressione hobbesiana. La persona non è tuttavia qui solo la figura delle equivalenze giuridiche, ma la diretta personificazione, «Charaktermaske», scrive Marx, delle dinamiche economiche capitalistiche[29]. Questo significa perciò che chiunque, e non solo il possessore di merce, la volontà privata che si esprime nel contratto, appare in scena come specchio delle relazioni di produzione che lo attraversano[30]. La seconda concerne la forma di merce. Essa non è un dato naturale, ovviamente. I prodotti assumono la forma di merce soltanto sulla base di un modo di produzione assolutamente specifico, e cioè del modo di produzione capitalistico. La merce ingloba parte significativa della storia del capitale. Perché forma-merce ci sia, occorre che il prodotto non sia prodotto «come mezzo di sussistenza immediato per colui che lo produce» e che si sia già determinata una decisa divisione del lavoro[31]. La terza è che le condizioni di esistenza del capitale non si esauriscono nella circolazione semplice delle merci e del denaro. Esso viene alla nascita, segnando un’epoca del processo sociale di produzione, solo laddove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza-lavoro. Quest’ultima viene definita da Marx come «attitudine naturale dell’individuo vivente»; come qualcosa, cioè, che: «nur in seiner lebendligen Leiblichkeit existiert»[32].

«Lebendliche Leiblichkeit», scrive Marx. «Leib» è uno dei due termini usati in tedesco per significare il corpo. L’altro è, ovviamente, «Körper». Di quest’ultimo abbiamo già incontrato la semantica latina. «Leib», di contro, è un termine che rinvia alla radice gotica *leif, dalla quale derivano tanto il tedesco «Leben», quanto l’inglese «life»[33]. All’uomo è connaturata una forza-lavoro. Essa gli permette non solo di produrre ciò che gli serve per vivere, ma anche ciò che gli rende possibile reintegrare quel consumo di «muscoli, nervi, cervello» che si determina nel processo di produzione e che deve essere recuperato perché il ciclo lavorativo possa riprendere nel momento successivo. Forza-lavoro significa qui evidentemente qualcosa che precede l’organizzazione della giornata lavorativa e il fatto che quella stessa forza-lavoro venga «comprata» dal capitalista. Essa, proprio in quanto attitudine inscritta nella «lebendlige Leiblichkeit» del singolo, significa non già una specifica classe di atti lavorativi (questo o quel lavoro che viene svolto), ma la generica facoltà di produrre che pertiene alla natura umana. La forza-lavoro è perciò intesa da Marx nel senso della dynamis aristotelica: come una potenza o come una capacità[34]. Più precisamente, come la «somma di tutte le attitudini fisiche ed intellettuali che esistono nella corporeità di un uomo» («Inbegriff der physischen und geistigen Fähigkeiten, die in der Leiblichkeit, der lebendigen Persönlichkeit eines Menschen existieren», egli scrive)[35].

Il punto mi sembra decisivo. Ciò che qui è in questione è la specifica natura umana come potenza di relazione e come potenza di produzione. Marx utilizza il termine «lebendige Leiblichkeit» proprio per rinviare a quel plastico nodo di forze che identifica il vivente umano come sistema di strutture anatomiche («muscoli, nervi») e come fascio di disposizioni linguistico-cognitive («cervello»). Ciò che precede la messa al lavoro del corpo operaio è la sussunzione della forza-lavoro al capitale e cioè la realizzazione delle condizioni comandate per cui quella potenza viene portata all’atto. Il capitalista non compra perciò questa o quella prestazione. Egli compra, piuttosto, la produttività indeterminata che è iscritta come potenza nella natura umana. La facoltà di produrre come tale, ancora disapplicata, sta perciò al centro dello scambio tra capitalista e operaio[36]. Oggetto della compravendita non è infatti un lavoro effettivamente eseguito – l’atto in cui si esaurisce una potenza – ma quella generica dynamis produttiva che immane alla vita (Leben) e che il capitalista può mettere al lavoro per estrarne un plusvalore proprio in quanto essa viene trattenuta alla sua genericità. Il sostrato materiale cui inerisce questa potenza è la natura vivente dell’uomo: ciò che il suo corpo – qui inteso perciò come Leib e non come Körperpuò fare.

Derivano di qui una serie di conseguenze rilevanti. La prima è che ciò che al capitalista sta a cuore non è tanto, o non solo, il «corpo» del lavoratore: i muscoli o le braccia di quest’ultimo, la mera fatica di cui il corpo può farsi capace. Il corpo diventa oggetto da dominare non già per il suo intrinseco valore – sta qui una parte della differenza che per Marx separa l’economia schiavistica antica dalla forma capitalista di produzione – ma proprio in quanto sostrato di un immateriale, la forza-lavoro, che coincide con il proprio della natura umana. Come una parte della critica ha di recente riconosciuto, se il termine biopolitica ha un senso e può assumere un valore «categoriale» al di fuori e oltre il canone testuale foucaultiano, è proprio in questa direzione che se ne viene caricando[37]. La potenza di lavorare, comprata e venduta al pari di ogni altra merce, è lavoro non ancora oggettivato e tuttavia inseparabile, ecco la seconda conseguenza, dall’immediata esistenza corporea dell’operaio. La terza conseguenza è che è dentro questa connessione che Marx produce un passaggio decisivo nella sua Darstellung – nella sua esposizione, secondo la sistematica di Hegel – del processo del capitale. La spesa energetica che Marx indicizza al corpo – «muscoli, nervi e cervello», quel «consumo» di forza-lavoro che deve essere continuamente reintegrato perché il processo di riproduzione del ciclo economico si dia – è contemporaneamente «processo di produzione». E, in particolare, di una produzione che non si esaurisce nella merce che viene prodotta, ma che viene ininterrottamente valorizzata come erogazione di pluslavoro e, dunque, come sorgente di plusvalore («Der Konsumtionsprozeß der Arbeitskraft ist zugleich der Produktionsprozeß vom Ware und von Mehrwert», scrive Marx)[38].

Si compie con questo un passaggio decisivo. Dal teatro hobbesiano della circolazione – il teatro in cui compratore e venditore della merce, anche di quella merce particolare che è la forza-lavoro, si incontrano sulla scena come «Charaktermasken» del contratto e dello scambio – si accede a quello che Marx chiama il «laboratorio segreto della produzione» («die verbörgne Stätte der Produktion»). Qui, ben al disotto della rutilante sfera della circolazione semplice in cui vige il presupposto della perfetta trasparenza rappresentativa, dato che il diritto traduce come legittima istanza dello scambio la simmetria della volontà e i «diritti innati dell’uomo» sembrano irretire e garantire l’intero processo di contrattazione, «la fisionomia delle dramatis personae» che ha animato i primi quattro capitoli del Capitale muta radicalmente. Il possessore di denaro incede ora come capitalista, il nudo possessore della propria forza-lavoro lo segue come suo lavoratore («folgt ihm nach als sein Arbeiter») e se il primo sorride, il secondo si dimostra invece timido e restio, «come qualcuno che abbia portato al mercato la propria pelle e non abbia altro da aspettarsi che la conciatura»[39].

La propria pelle. Il proprio corpo, dunque. Ma a quali condizioni? Ciò che mi interessa è ora questo passaggio. Il passaggio – un passaggio non soltanto logico o puramente interno alla Darstellung marxiana del processo di accumulazione, ma che si compie invece in termini storici, e cioè come sussunzione della società al capitale – che piega la generica forza-lavoro immanente alla «lebendige Leiblichkeit» umana nel «Körper» utile, docile e produttivo dell’operaio di fabbrica. E non una volta per sempre, data la plasticità che caratterizza la natura umana. Ogni differente tecnica di produzione, è questa un’altra lezione che Foucault riprende direttamente da Marx, comporta una modificazione della soggettività strettamente collegata alla presa del potere sul corpo[40].

4. Per accedere a ciò, mi è tuttavia necessario ancora un passaggio intermedio. Il passaggio oltre la sfera della circolazione (e oltre la dinamica contrattuale dello scambio di prestazioni) dischiude l’accesso al processo di produzione. Vale a dire, per Marx, alla valorizzazione che al suo interno si produce. Il capitalista trasforma il denaro in valore incorporando lavoro-vivo (lebendige Arbeitskraft) al lavoro-morto (tote Arbeit) che si è oggettivato nei fattori di produzione che egli mobilita ai fini della produzione del plusvalore. Ciò che viene così immesso nel processo di produzione è quella potenza di valorizzazione che inerisce alla forza-lavoro e che, proprio in quanto definita dalla facoltà di erogare pluslavoro non pagato, permette al capitalista di guadagnare sul capitale investito. Lavoro-morto vivificato: «ein beseelstes Ungehuer» lo chiama Marx. Il capitale come un «mostro animato» che inizia a lavorare «come se avesse amore in corpo»[41].

È noto come Marx adoperi in molti luoghi della sua opera metafore di questo tipo. Il capitale come vampiro o come lupo mannaro. Figure necropolitiche, potrebbe forse dirsi, recuperando un’espressione che Achille Mbembe ha coniato ad altri fini[42]. Ciò che Marx intende portare all’evidenza come la realtà che lacera il gioco di specchi indotto dal feticismo della merce è la serie che muove dall’inversione da cui origina la specificità del processo di produzione capitalistico nella sua determinazione storica. Il lavoratore, quel lavoratore in carne e ossa che si vede costretto a vendere «la propria pelle» nella compravendita di prestazioni con il capitalista, è sottoposto al controllo del capitalista e ciò che egli produce è di proprietà di quest’ultimo, così come lo è tutto il tempo di produzione che eccede la misura della giornata lavorativa definita dal salario. Non è il lavoratore che utilizza i fattori oggettivi della produzione, come potrebbe apparire da una definizione ingenua del lavoro, ma è il lavoro morto, «cristallizzato» nel capitale, che utilizza e «succhia il lavoro-vivo» appropriandosi della sua potenza di valorizzazione. Qui, oltre che il campo metaforico del mostruoso, ciò che ritorna è il campo semantico della corporeità dal quale abbiamo preso le mosse: il corpus cadaverico dei fattori di produzione si anima e, di fronte all’operaio – e in particolare all’operaio socializzato la cui vita è sussunta al grande sistema di fabbrica – si erge l’«organismo di produzione del tutto oggettivo» («einen ganz objektiven Produktionsorganismus»[43]) attraverso il quale si riproduce – con la stessa tensione che nella fisica aristotelica qualifica l’organismo vivente (materia, forma, movimento) – il dominio di classe. Il sistema di macchine è un «Automat», per Marx. Ma questo meccanismo è un meccanismo animato; il corpo della produzione, che il lavoratore trova di fronte a sé («vorfindet») come il vincolo che lo sussume, prende, letteralmente, vita.

È su questa scansione che intendo ora soffermarmi. Perché in essa si presenta un problema decisivo ai fini della mia argomentazione. Ciò che mi interessa è come si produca materialmente questo passaggio e cosa in esso si evidenzi. Abbiamo in precedenza incontrato la figura dei due corpi del popolo, corrispettivo «basso», ma non troppo, della teologia politica della sovranità del re e del corpo mistico del regno. In democrazia, il meccanismo elettorale opera un’analoga saldatura trasformando la «populace» delle strade – la masnada che è l’incubo della letteratura borghese dell’Ottocento – nello splendente «peuple» sovrano nel cui nome si fanno le leggi e si pronunciano le sentenze. Questa trasformazione viene pensata dal liberalismo dell’Ottocento – e in particolare: in Francia – come l’éschaton della Rivoluzione francese. Eschaton: ciò che si trova all’estremità ultima, in Greco. Punto culminante e di risoluzione della tragedia, per l’Aristotele della Poetica. E tuttavia nessuna tragedia si chiude qui. Per Tocqueville, per Guizot, per Lorenz von Stein – per citare solo alcuni degli autori che trattano, in quegli anni, della politicizzazione della questione sociale – la rivoluzione non si «chiude» con le conquiste costituzionali e si rilancia proprio sulla questione della proprietà e del lavoro. Da politica, essa si fa, appunto, sociale[44]. Governare significherà proprio per questo sviluppare tecnologie di intervento sul corpo e nel corpo della società. Tecnologie di assistenza e di sicurezza sociale, tecnologie igienico-sanitarie, tecnologie pedagogiche e di responsabilizzazione[45]. Tra di esse, forse la principale, quella disciplina del lavoro in grado di trasformare il corpo indolente e ozioso del proletario nel corpo produttivo dell’operaio.

Quando Marx inizia a trattare del processo produttivo e del processo di valorizzazione – e cioè dell’animarsi del corpo di produzione della merce – egli evoca la sfera della circolazione (il contratto come compravendita della forza-lavoro) perché essa rappresenta la mediazione necessaria, lo abbiamo visto, per accedere al «laboratorio segreto» della produzione. Qui emerge con chiarezza come l’apparente simmetria della volontà di chi compra e di chi cede la forza-lavoro tale non sia: ciò che il capitalista acquisisce non è «lavoro», il lavoro finito che si oggettiva in un prodotto che ne chiude la traiettoria di produzione, ma una potenza, un «lievito vivo», che una volta aggregato al processo, valorizza continuamente il capitale[46]. Ciò che il lavoratore aliena non è la sua attitudine individuale (la sua capacità, il suo particolare talento, la forza del suo fisico), ma una facoltà generica che può essere esteriorizzata e organizzata secondo norme di assoggettamento e condizioni di ripartizione che di essa fanno lavoro sociale, cooperazione sorvegliata e «incorporata» al capitale («dem Kapital einverleibt»)[47]. Nella cooperazione pianificata con altri, l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa le facoltà della sua specie («im planmäßigen Zusammenwirken mit andern streift der Arbeiter seine individuellen Schranken ab und entwickelt sein Gattungsvermögen»), scrive Marx[48]. E tuttavia: come viene realizzata, in termini che non pertengano alla sola configurazione del lavoro astratto, questa «incorporazione»?

È noto come nel suo grande libro dedicato alla formazione della classe operaia inglese Edward P. Thompson abbia messo a tema un fatto decisivo: la classe operaia non è un soggetto che compaia sulla scena in un momento dato della storia, ma è una fluidità («a fluency»), un rapporto, la cui composizione sfugge qualora si tenti di afferrarla come morta per poterne fare l’anatomia[49]. Il primo tempo di quel rapporto è, potrebbe dirsi, la fabbricazione, tanto nel singolo quanto nella cooperazione, del corpo operaio come corpo produttivo. Un passaggio, questo, che si determina storicamente come una pratica – certo non pacificata né pacificante – di assoggettamento di abitudini, ritmi, gesti vitali dei singoli alla disciplina del lavoro. Fissare il vagabondo, addestrare il minore, organizzare un movimento collettivo sono assi strategici di un processo di disciplinamento sociale che scorre sulle molte istituzioni (penali, educative, militari) che lavorano alla moderna produzione della soggettività[50].

Quando Marx analizza la cosiddetta accumulazione originaria è a questa complessa fenomenologia di coazione extra-economica che egli fa riferimento scrivendo della naturalizzazione del codice di produzione capitalistico. Per il suo impianto non sono sufficienti, sui due poli della circolazione semplice, né le persone del compratore e del venditore della forza-lavoro, né, sul piano genetico, il puro atto di dominio per cui quest’ultimo, espropriato con la forza dei suoi mezzi di sostentamento (i commons, la terra, le forme di solidarietà comunitaria), viene costretto a vendersi volontariamente e a «sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco e di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema di lavoro salariato» («in eine dem System der Lohnarbeit notwendige Disziplin hineingepeitscht, -gebrandmarkt, -gefolgert»). Ciò che è necessario, piuttosto, è il processo che si annoda allo – e che raddoppia lo – sviluppo del sistema di produzione vincolato al lavoro salariato. E cioè il sistema di pratiche che riproduce una «Arbeiterklasse» che per «educazione, tradizione, abitudine» – scrive Marx – riconosce come «leggi naturali» («selbstverständliche Naturgesetze») le esigenze del modo di produzione capitalistico[51]. Il processo di incorporazione della cooperazione operaia si compie come naturalizzazione dello sfruttamento e del comando e cioè come assoggettamento del corpo sociale alla disciplina del lavoro coatto. Un processo che, proprio in quanto si innesta in profondità sulla vita – muscoli, nervi, cervello, il nesso della ripetizione e dell’abitudine – determina un corpo a corpo tra tecnologie di disciplina e sottrazione operaia. La fabbricazione del corpo utile è una dinamica duramente contrastata.

            5. Lo dimostrano almeno due elementi che tornano continuamente nel testo marxiano. Il primo è la modalità per mezzo della quale viene realizzata l’«espropriazione» dei lavoratori indipendenti. Il proletariato «viene messo al mondo» attraverso un processo, multilaterale e convergente, che, lo abbiamo appena ricordato, annovera il furto dei beni ecclesiastici, l’alienazione fraudolenta dei beni dello Stato, il furto dei beni comuni, la trasformazione della proprietà feudale in proprietà privata. Il primo passo per l’accumulazione originaria è la produzione di poveri, vagabondi e miserabili da costringere al lavoro. La condanna alla miseria è per costoro immediatamente raddoppiata in termini giuridici: «la legislazione li trattò come delinquenti “volontari” e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle condizioni non più esistenti» («die Gesetzgebung behandelte sie als “freiwillige” Verbrecher und unterstellte, daß es von ihrem guten Willen abhänge, in den nicht mehr existierenden alten Verhältnisse fortzuarbeiten»)[52]. Il diritto, con la sua logica di imputazione, fissa il soggetto ad una volontà «libera», ma solo per piegarne le resistenze, costringerlo al lavoro, vincolarlo alla forma del salario. Marx descrive non solo l’incidenza sociale della legge, ma il suo «uso» come arma nella battaglia disciplinare. Il secondo concerne la regolazione della giornata lavorativa. E cioè l’imposizione, da parte della classe operaia, di una serie di limiti all’indefinita estensione del tempo di lavoro da parte del padrone. Quest’ultimo, appropriatosi dell’intera «Lebenszeit» del proletario, non avrebbe di per sé difficoltà ad allungare indefinitamente il tempo di produzione garantendosi così una secca estrazione di plusvalore assoluto. E tuttavia incontra proprio nel corpo dell’operaio la forma di resistenza che rende questo impossibile. L’organizzazione tecnica della cooperazione – con gli effetti perversi che Marx insiste a descrivere in termini di alienazione, ripetitività del gesto, depauperamento delle capacità cognitive del lavoratore – serve fondamentalmente a impiantare un dispositivo capace di incrementare il saldo del plusvalore relativo. E tuttavia è il contropotere operaio, la «resistenza» («Widerstand») per mezzo della quale la classe operaia «soverchiata dal fracasso della produzione comincia a tornare in sé stessa»[53], a imporre la regolazione della giornata lavorativa con la quale quel dispositivo si scontra. È quasi impossibile non pensare che, tra i molti luoghi marxiani non citati e con i quali tuttavia Michel Foucault si confronta direttamente, non vi sia quello dedicato alle «disposizioni minuziose, che regolano con tanta uniformità militare, al suono della campana, periodi, limiti, pause del lavoro» («diese minutiose Bestimmungen, welche die Periode, Grenzen, Pausen der Arbeit so militärisch uniform nache dem Glockenschlag regeln») di cui Marx parla come di una conquista operaia. La regolazione della giornata lavorativa dipende certo da un intervento dello Stato, ma, lungi dal rappresentare il portato di un verticale intervento disciplinare, si sviluppa in situazione – «aus allmählich aus den Verhältnissen heraus», scrive Marx – e come risultato di lunghe lotte di classe[54]. Quando, in apertura a Surveiller et punir, Foucault opporrà frontalmente i due testi d’archivio ai quali affida l’esplicitazione dell’arco di basculamento della moderna penalità – il lungo, atroce supplizio di Damiens, in cui è la resistenza del corpo della vittima ad inceppare il rituale di sovranità che si compie sul patibolo, suscitando la complicità con il reo della «populace» che assiste ai suoi piedi, e il regolamento redatto da Léon Faucher per la Casa dei giovani detenuti a Parigi, all’interno della quale tace la violenza, ma risuonano rulli di tamburo, movimenti organizzati, rintocchi di campana che scandiscono una giornata integralmente saturata dalla disciplina – è difficile non ricavare la sensazione che siano queste pagine marxiane a suggerire la posizione del problema. Un diritto che non è solo diritto. Un potere che circola e attiva posizioni opposte e antagoniste. Un’economia, non solo della pena, costantemente interfacciata a tecnologie di governo.

6. La pubblicazione del Cours che egli tiene al Collège de France nel primo semestre del 1973 scioglie definitivamente, a mio parere, molte ambiguità interpretative in relazione all’analitica foucaultiana del potere[55]. Quel dominio del capitale sull’operaio al quale, nelle parole di Marx, «la silenziosa coazione dei rapporti economici» («der Stumme Zwang der ökonomischen Verhältnisse»[56]) appone il suo sigillo, viene conquistato nel corso di una battaglia di secoli che espone la matrice bellica del rapporto sociale. Non è unidirezionale né pacifica, lo ricordavo poco sopra, la fabbricazione del corpo docile che è l’obiettivo della strategia disciplinare. E tuttavia il corpo operaio deve essere assoggettato alla disciplina perché la forza-lavoro ad essa immanente come dynamis, come potenza, possa essere trasformata in forza produttiva[57]

Si tratta, in quest’ultimo caso, di un duplice passaggio che è al centro del Cours foucaultiano dedicato alla Société punitive e che getta una luce tagliente sull’analitica del diritto e della penalità che egli viene sviluppando in quegli anni. La natura umana non è lavoro, egli annota nell’ultima lezione. Ciò che scandisce l’indisciplinata vita dell’uomo e i tempi del suo dipanarsi come istanza di relazione selvaggia, capace di sviluppare autonomamente rapporti e dimensioni collettive non assoggettate ai ritmi di produzione, sono piuttosto «plaisirs, discontinuités, fête, repos, besoins, instants, harsards, violence»[58]: in pratica, quel flusso ininterrotto di istanze e di attitudini che il capitale si sforzerà di assoggettare al suo comando – e cioè: alla liscia temporalità cronometrica del processo produttivo – e attraversando soggettivamente le quali la classe operaia verrà incontrando invece, sfruttandole come occasioni di resistenza e di organizzazione, le forme della sua composizione.

Ciò che Foucault porta qui in evidenza sono due cose che segnano il punto del suo massimo avvicinamento a Marx e che marcano con forza, nello stesso tempo, la sua presa di distanza da Althusser: la prima è la crucialità del conflitto come tensore dell’analitica del potere; la seconda, il passaggio per cui le tecnologie disciplinari – e, tra di esse, la penalità – prima ancora di una semplice funzione di garanzia in rapporto alla riproduzione del rapporto capitalistico di valorizzazione (e cioè: la repressione dell’illegalismo proletario e, in termini più ampi, la «ristrutturazione» dell’economia generale degli illegalismi – non la loro secca soppressione, ovviamente, ma il loro governo, fatto di soglie di tolleranza, differenziazione dei reati, gradazione della durezza delle pene – che si compie con lo sviluppo della società capitalistica[59]) vengono a svolgere in rapporto all’organizzazione delle disposizioni a produrre alle quali deve essere assoggettato il corpo operaio[60]. Da un lato, il sistema penale deve conquistare le condizioni della propria vigenza con tecniche di sequestro e di clausura, con tecniche di fissazione della mobilità, che impattano con violenza, diffondendosi microfisicamente al suo interno, il corpo mobile e sfuggente di una «populace» di vagabondi e oziosi – di qui la prima radicale affermazione di Foucault: la «guerre civile» come matrice generale alla quale la razionalità della pena deve essere ricondotta, non essendo lo scopo di quest’ultima, come per Hobbes o per Rousseau l’imposizione di una pace su relazioni naturalmente conflittuali, ma, l’ininterrotta prosecuzione di una guerra di conquista[61]; dall’altro, esattamente come in Marx, la definizione dell’orizzonte strategico, e cioè ininterrottamente contrastato, all’interno del quale devono essere pensati tanto i rapporti sociali quanto i processi di soggettivazione, una volta si sia colto come il problema decisivo della genesi del capitalismo coincida con la trasformazione/costituzione della vita in forza-lavoro[62].

Ciò che Foucault si pone come obiettivo di ricerca è il processo complessivo di fabbricazione della forza-lavoro come disposizione soggettiva oggettivamente uniformata alle condizioni di produzione, per riprendere la felice formulazione di Stéphane Legrand. E cioè, data l’analitica marxiana della genesi del rapporto di capitale, il processo di sussunzione reale per cui il lavoro viene incorporato al processo di valorizzazione. Il fatto che quest’ultimo possa essere oggettivato in un sistema di «leggi naturali» dell’economia – non semplice velamento ideologico, questa oggettivazione, ma effetto di verità, potrebbe forse dirsi, del feticismo della merce – deriva tanto dalla progettazione del corpo, quanto dalla disciplina dell’anima. Il corpo indocile e inutile dell’ozioso viene trasformato nel corpo utile e docile dell’operaio – la plasticità della vita imbrigliata e addestrata ai ritmi e ai gesti della produzione – per effetto del reclutamento di una serie di saperi che non hanno la declinazione disciplinare dell’economia, ma incidono potentemente sul suo processo. Diritto, morale, pedagogia, scienze militari per citare alcuni di quelli che giocano a quest’altezza un ruolo decisivo nell’incidere il taglio che, nella massa opaca della moltitudine, separa, per poterle in seguito ricomporre nel progetto disciplinare, classi pericolose e classi lavoratrici, verranno produttivamente convocati non solo per segmentare, sottomettere ad un calcolo di efficienza e per ricomporre un’anatomo-politica del corpo, come la chiama Foucault, ma per indicizzare all’anima il lavoro di normalizzazione (giuridica e, soprattutto, extra-giuridica) che oggettiva e che riproduce il rapporto di capitale.

È su questo sfondo marxiano che Michel Foucault sviluppa la sua analisi della penalità e la sua inversione secca della tradizione platonica: non è il corpo ad essere la prigione dell’anima, ma, alle soglie della modernità e come rottura costituente che impone nuove funzioni di progettazione ai saperi, l’anima a diventare prigione del corpo[63]. La trasformazione della moltitudine in forza-lavoro è il prodotto di una sorta di schematismo trascendentale della disciplina. Essa ridisegna e conquista lo spazio e riordina e contabilizza il tempo. Agendo sullo spazio, la disciplina organizza funzioni e gerarchie. Essa isola segmenti individuali nella cooperazione sociale e stabilisce tra di essi legami operativi. Controllando il tempo, essa lo costituisce come integralmente utile. Esattezza, applicazione e regolarità, potrà scrivere Foucault in Surveiller et punir, sono le virtù fondamentali del tempo disciplinare. La cosiddetta accumulazione originaria si produce per effetto della fabbricazione di corpi docili – «il corpo umano entra in un ingranaggio di potere che lo fruga, lo disarticola e lo ricompone» in quanto lo sequestra, lo fissa alla ripetitività di un gesto, a un’ubicazione funzionale, a una determinata articolazione tra il gesto e l’oggetto – e per effetto della stabilizzazione di una periodicità interamente sussunta alla prestazione[64]. Dentro questo doppio processo costituente si invera il detto che Marx riprende da Fourier: la fabbrica: un ergastolo mitigato[65]. Per Foucault, la gemellarità, genealogicamente inferibile, di forma-prigione e forma-salario[66].

Provo a tirare le fila, allora. Trasformare il tempo di vita in tempo di lavoro significa disporre del corpo. E cioè: incardinare su di esso l’operatività di un dispositivo di potere. «Potere», qui, non significa una «cosa» che qualcuno detenga o possa detenere, quanto piuttosto la sempre rovesciabile traiettoria in cui è venuta decidendosi una battaglia tra una resistenza e ciò che è riuscito a vincerla e a dominarla. In Marx l’incorporazione della forza-lavoro al capitale – la sussunzione della vita al comando e alla valorizzazione – si produce come secca estrazione di plusvalore assoluto con l’istituzione della giornata lavorativa. Estendere indefinitamente l’orario di lavoro significa però incontrare una resistenza invincibile nella corporeità fisica – nella stessa composizione anatomica – dell’operaio. Combinare giornata lavorativa e organizzazione tecnica della produzione significa sviluppare l’intensificazione dei processi produttivi e valorizzare plusvalore relativo. Ma anche, così in Marx, concentrare e accrescere di potenza, soggettività e contropotere la classe operaia; la composizione politica tendenziale di quest’ultima. Il corpo operaio, inteso qui tanto in senso individuale quanto collettivo, è la posta in gioco della costante riorganizzazione dei poteri e dei saperi che lo affrontano come istanza mobile, letteralmente dinamica, irriducibile.

Le funzioni di governo di questa irriducibilità che si legano a forma-salario e a forma-prigione – intesa qui come il recinto ordinato della fabbrica e come il disciplinare della giornata lavorativa – entrano definitivamente in crisi, almeno nella porzione di esperienza occidentale del globo al quale si lega l’esperienza diretta di Foucault, tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’70 del Novecento. Uno dei motivi che riportano in auge la sua filosofia è la radicalità con la quale egli problematizza le proprie categorie in una direzione che potremmo, credo con qualche ragione, definire non post-, ma oltremarxista[67].

Ciò che viene ora messo direttamente al lavoro e sfruttato dalle funzioni incrementalmente estrattive del capitale è non tanto, o non solo, il corpo dell’uomo, la disciplinata utilità di quest’ultimo, ma la natura umana intesa secondo le qualità specie-specifiche che gli sono immanenti come animale linguistico e relazionale: l’affettività, le facoltà di cooperazione, la potenza di socializzazione[68]. Il lavoro non è più direttamente organizzato, ridotto all’uno dal comando, rinserrato nel perimetro della giornata lavorativa, ma diffuso, lasciato «libero», precarizzato. Il suo modello: quello dell’imprenditorialità autonoma.

Che ne è, dunque, del corpo nella fabbrica sociale complessiva della società postindustriale? Vi è una disciplina forse ancora più invasiva di quella che si intreccia al corpo nella serie dei dispositivi extraeconomici che accompagnano l’impianto del capitalismo tra Sette e Ottocento. È la disciplina che accompagna, nella progettazione della società degli individui neoliberale, le retoriche del capitale umano e del singolo come soggetto imprenditore di sé[69]. Qui il corpo – corpo prestazionale, corpo iperconnesso, corpo cyborg – è preso in ostaggio non già da una funzione direttiva e di governo funzionale all’accumulazione comandata, ma dallo stesso soggetto che vi incontra e vi riconosce il supporto della propria valorizzazione come impresa individuale. Ma non solo. Il corpo – corpo marchiato, il corpo tracciato dagli infrarossi delle guardie di frontiera, il corpo digitalizzato e scannerizzato in ogni aeroporto – è governato, filtrato, rallentato, ma non fissato, nella sua mobilità. Che diventa di per sé stessa funzione di valorizzazione del capitale. Ciò che si muove sono sempre più Leiber e sempre meno Körpern, potrebbe forse dirsi.

Nella storia della classe operaia la resistenza del corpo individuale e collettivo ha prodotto straordinari processi di soggettivazione. Controcondotte, le chiama Foucault, provando a pensarle oltre le forme organizzative e le formule rivendicative dell’operaio massa. Si tratta oggi di pensare anche su questo piano – il piano della corporeità mobile, flessibile, precaria, globale e meticcia alla quale si interfacciano dispositivi governamentali di controllo e di valorizzazione – nuove tattiche di resistenza e di sottrazione. 


[1] Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étimologique de la langue grecque, Vol. 1, Klincksieck, Paris 1968; A. Ernout – A. Meillet, Dictionaire étimologique de la langue latine, Klincksieck, Paris 2001; E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, I. Economie, parenté, société, Minuit, Paris 1969.

[2] Basti il riferimento ad Aristotele, Politica, 1253a; 1281b.

[3] A. Cavarero, Il corpo politico come organismo, «Filosofia politica», 7/3, 1993, pp. 391-414.

[4] E. Plowden, Commentaries or Reports (1571), S. Brooke, London 1816, p. 2123.

[5] E. Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A Study in Medieval Political Theology, Princeton University Press, Princeton 1957.

[6] Si vedano: O. von Gierke, Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorie, Berlin 1880; W. Näf, Die frühformen des modernen Staates im Spätmittelater, «Historische Zeitschrift», 1951, pp. 225-243 (trad. it.in E. Rotelli, P. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno. I. Dal Medioevo all’età moderna, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 51-78); H. Hofmann, Repräsentation. Studien zur Wort- und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19. Jahrhundert,Dunker & Humblot, Berlin 1974.

[7] Cfr. G. Duso, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, FrancoAngeli, Milano 20033.

[8] H. von Treitschke, Frankreichs Staatsleben und der Bonapartismus. III. Die goldenen Tage der Bourgeoisie (1868), in Historische und politische Aufsätze von Heinrich von Treitschke, Vierte Vermehrte Auflage, Bd. 3, Leipzig 1871, pp. 162-235, qui p. 226.

[9] P. Rosanvallon, Le sacré du citoyen. Du suffrage universel en France, Gallimard, Paris 1992.

[10] Si vedano: L. Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses à Paris pendant la première moitié du XIXe siècle, Plon, Paris 1958; e, per il campo metaforico del «barbaro» o del «selvaggio», P. Michel, Les barbares, 1789-1848: un mythe romantique, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 1981.

[11] M. Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966, p. 273 e ss.

[12] Id., Qu’est-ce qu’un auteur? (1969), ora in Dits et écrits I, 1954-1975 [= DEI], Édition établie sous la direction de D. Defert et F. Ewald avec la collaboration de J. Lagrange, Gallimard, Paris 2001, pp. 817-849, qui p. 833. Cfr. M. Cuccorese, Marx tel que Foucault l’imagine, «Actuel Marx en ligne», 6, 2001: http://actuelmarx.u-paris10.fr/alr0006.htm. Ma sul tema, si veda anche: R.M. Leonelli (a cura di), Foucault – Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni, Roma 2010.

[13] Si veda: U. Tellman, Foucault and the Invisible Economy, «Foucault Studies», 6, 2009, pp. 5-24. Per una ricostruzione generale del rapporto tra Foucault e il pensiero economico: J.L. Amariglio, The Body, Economic Discourse and Power: an Economist’s Introduction to Foucault, «History of Politcal Economy», 20/4, 1988, pp. 583-613; A. Zanini, L’ordine del discorso economico. Linguaggio delle ricchezze e pratiche del governo in Michel Foucault, ombre corte, Verona 2010.

[14] Entretien inédit entre Michel Foucault et quatre militants de la LCR, membres de la rubrique culturelle du quotidien culturelle «Rouge» (juillet 1977), «Question Marx», http://questionmarx.typepad.fr/files/entretien-avec-michel-foucault-1.pdf

[15] M. Foucault, Les mailles du pouvoir (1981), ora in Dits et écrits II, 1976-1988 [= DEII], Édition établie sous la direction de D. Defert et F. Ewald avec la collaboration de J. Lagrange, Gallimard, Paris 2001, pp. 1001-1020, qui p. 1005. Foucault cita in questo caso il secondo libro del Capitale. L’equivoco dipende dall’edizione in otto volumi del Capitale uscita in Francia per le Éditions sociales alla quale egli evidentemente si riferiva. Ciò a cui allude è in realtà il secondo tomo del primo libro di questa edizione e cioè alla Sezione IV del Libro I del Capitale. La questione è stata messa a punto da: R.M. Leonelli, Fonti marxiane in Foucault, «Altreragioni», 9, 1999, pp. 119-135.

[16] DEII, p. 1006.

[17] M. Foucault, Les mots et les choses…, cit., 274; L. Althusser – E. Balibar, Lire le Capital, Maspero, Paris 1965, p. 7.

[18] Marx lo riconosce esplicitamente in Ökonomisch-philosophisch Manuskripte aus dem Jahre 1844, in Marx Engels Werke [= MEW], hrsg. von Institut für Marxismus-Leninismus beim ZK der Sed, Bd. 40, Karl Dietz Verlag, Berlin 1968, p. 574.

[19] M. Foucault, Dialogue sur le pouvoir (1978), ora in DEII, pp. 464-477, qui p. 470 [sottolineatura mia, SC].

[20] Id., Nietzsche, Freud, Marx (1967), ora in DEI, pp. 592-607, qui p. 597.

[21] È, questo, un punto che viene enfatizzato nella critica che rivaluta il rapporto di Foucault con Marx. Se per molti Foucault può essere letto come del tutto inutile per gli storici (valga per tutti il riferimento a: A. Megill, Foucault, Structuralism and the End of History, «The Journal of Modern History», 51/3, 1979, pp. 451-503), per altri la sua analitica del potere deve essere valorizzata, sulla scia di Marx, proprio in termini storici, dimostrandosi inoltre in grado di poter essere produttivamente proseguita. Cfr. M. Poster, Foucault and History, «Social Research», 49/1, 1982, pp. 116-142; Id., Foucault, Marxism and History. Mode of Production versus Mode of Information, Polity Press, Cambridge 1984.

[22] M. Foucault, «Il faut défendre la société». Cours au Collège de France, 1976, Édition établie sous la direction de F. Ewald et A. Fontana par M. Bertani et A. Fontana, Seuil/Gallimard, Paris 1997, p. 47.

[23] Si vedano le note lettere di Marx a Weydemeyer (5 marzo 1852) e a Engels (27 luglio 1854), in MEW, Bd. 28, 1963, pp. 503-509; pp. 380-385.

[24] DEII, p. 1020.

[25] M. Foucault, Structuralisme et poststructuralisme (1983), ora in DEII, pp. 1250-1276, qui p. 1276.

[26] DEII, p. 1008.

[27] K. Marx, Das Kapital, I, 4, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 430.

[28] DEII, p. 1009.

[29] K. Marx, Das Kapital, I, 2, Ware und Geld.

[30] Cfr., da ultimo, L. Basso, Agire in comune. Antropologia e politica nel’ultimo Marx, ombre corte, Verona 2012, p. 47 e ss.; S. Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, manifestolibri, Roma 2014.

[31] K. Marx, Das Kapital, I, 4, Verwandlung von Geld in Kapital.

[32] K. Marx, Das Kapital, I, 4, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 183.

[33] F. Kluge, Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache, Sechste verbesserte und vermehrte Auflage, Trüber, Straßburg 1899.

[34] Cfr. P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per un’analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi, Roma 2002, p. 82; M. Vadée, Marx penseur du possible, L’Harmattan, Paris 1998.

[35] K. Marx, Das Kapital, I, 2, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 181.

[36] P. Virno, Grammatica della moltitudine…, cit., p. 83.

[37] Cfr., ad es., P. Virno, Grammatica della moltitudine…, cit., pp. 84 e ss.; C. Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti nella politica, Bollati Boringhieri, Torino 19992; M. Lazzarato, Biopolitique/Bioéconomie, «Multitudes», 22, 2005; C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, manifestolibri, Roma 2007; A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione, Carocci, Roma 2007; M. Hardt – A. Negri, Commonwealth, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge Mass. 2009.

[38] K. Marx, Das Kapital, I, 2, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 189.

[39] Ivi, p. 191.

[40] M. Foucault, Les techniques du soi (1988), ora in DEII, pp. 1602-1632, qui p. 1604: «j’ai voulu décrire à la fois la spécificité de ces techniques et de leur interaction constante. Par exemple, le rapport entre la manipulation des objets et la domination apparaît clairement dans le Capital de Karl Marx, où chaque technique de production exige une modification de la conduite individuelle, exige non seulement des aptitudes, mai aussi des attitudes».

[41] K. Marx, Das Kapital, I, 5, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 209.

[42] A. Mbembe, Necropolitics, «Public Culture», 15/1, 2003, pp. 11-40.

[43] K. Marx, Das Kapital, I, 13, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 404. Cfr., in generale, A. Meyer, Mechanische und organisische Metaphorik politischer Philosophie, «Archiv für Begriffsgeschichte», 13, 1969, pp. 128-199.

[44] S. Chignola, Fragile cristallo. Per la storia del concetto di società, Editoriale Scientifica, Napoli 2004. Più in generale: W. Conze, Vom «Pöbel» zu «Proletariat». Sozialgeschichtliche Voraussetzungen für den Sozialismus in Deutschland, «Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte», 41/4, 1954, pp. 333-364; E. Pankoke, Die Arbeitsfrage. Arbeitsmoral, Beschäftigungskrisen und Wohlfahrtspolitik im Industriezeitalter, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1990.

[45] Cfr., ad es., F. Ewald, L’État providence, Grasset, Paris 1986; G. Procacci, Gouverner la misère. La question sociale en France (1789-1848), Seuil, Paris 1993.

[46] K. Marx, Das Kapital, I, 5, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 200.

[47] Id., Das Kapital, I, 11, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 352.

[48] Ivi, p. 349.

[49] E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, Vintage, New York 1966, p. 9: «the notion of class entails the notion of historical relationship. Like any other relationship, it is a fluency which evades analysis if we attempt to stop it dead at any given moment and anatomise its structure».

[50] Per la categoria di disciplinamento sociale si veda, almeno: G. Oestreich, Geist und Gestalt des frühmodernen Staates. Ausgewählte Aufsätze, Dunker & Humblot, Berlin 1969.

[51] K. Marx, Das Kapital, I, 24, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 765.

[52] Id., Das Kapital, I, 7, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 762.

[53] Id., Das Kapital, I, 3, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 294.

[54] Ivi, p. 299.

[55] M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France, 1972-73, Édition établie sous la direction de F. Ewald et A. Fontana par B.E. Harcourt, Seuil/Gallimard, Paris 2013.

[56] K. Marx, Das Kapital, I, 24, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 765.

[57] Sul tema, si veda l’importante: P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, trad. it. di G. Morosato, Postfazione di A. Negri e J. Revel, ombre corte, Verona 2013.

[58] M. Foucault, La société punitive…, cit., p. 235.

[59] Id., Surveiller et punir. Naissance da la prison, Gallimard, Paris 1975, p. 89.

[60] Cfr. S. Legrand, Le marxisme oublié de Foucault, «Actuel Marx», 36, 2004, pp. 27-43.

[61] Nel Corso del 1976 al Collège de France, «Il faut défendre la société», Foucault definirà questa prospettiva, lo abbiamo già ricordato, il «rétournement de la présupposition de Clausewitz».

[62] Cfr. P. Dardot – C. Laval, Marx, prénom: Karl, Gallimard, Paris 2012, p. 202.

[63] M. Foucault, Surveiller et punir…,cit., p. 34.

[64] Ivi, pp. 139 e ss.; p. 152.

[65] K. Marx, Das Kapital, I, 13, in MEW, Bd. 23, 1962, p. 450.

[66] M. Foucault, La société punitive…, cit., p. 72.

[67] Cfr. A. Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano 1979.

[68] S. Mezzadra – B. Neilson, Extraction, Logistics, Finance. Global Crisis and the Politics of Operations, «Radical Philosophy», 178, 2013, pp. 8-18.

[69] P. Dardot – C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société neolibérale, La Découverte, Paris 2009.

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