di SANDRO MEZZADRA.
Pensare la migrazione torna a essere un compito politico imprescindibile nel nostro tempo. Lo impongono da una parte i nazionalismi risorgenti in molte parti del mondo, manifestazioni estreme – e tuttavia almeno provvisoriamente efficaci – di una politica dell’identità organizzata attorno a confini che si vorrebbero saldi e impenetrabili. Ce lo chiedono tuttavia anche le pratiche di donne e uomini in movimento, che continuano a sfidare quei confini, sempre più spesso in forme collettive e organizzate: è accaduto attraverso la “rotta balcanica” in Europa nell’estate del 2015, accade in questi giorni in Messico. Tra i molti interventi a proposito delle cosiddette “carovane dei migranti” centroamericani che si dirigono verso il confine con gli Stati Uniti, ne segnalo due: Óscar Martínez, autore di uno straordinario reportage sulla migrazione di transito in Messico (La bestia, Fazi, 2014), ha sottolineato in un articolo per l’edizione in spagnolo del New York Times come la scelta di dare visibilità al carattere di massa della migrazione rappresenti un modo adeguato per rendere sicura la rotta, evitando gli ostacoli spesso letali di cui è usualmente disseminata (per via dell’azione dei cartelli del narco-traffico, dei corpi di polizia e di gruppi paramilitari). Amarela Varela, ricercatrice messicana che da molti anni lavora su questi temi, scrivendo per eldiario.es si è spinta oltre, parlando di un vero e proprio “movimento sociale in cammino per una vita che valga la pena di essere vissuta”.
Si potrebbe naturalmente discutere a lungo di questo movimento sociale, degli effetti che produce nei Paesi di origine (in questo caso prevalentemente, anche se non soltanto, l’Honduras), di transito (il Messico) e di agognata destinazione (gli Stati Uniti). Varrebbe senz’altro la pena di farlo, anche in riferimento ai movimenti migratori che continuano a indirizzarsi verso l’Europa. Quel che intanto va comunque fissato è il carattere di autonomia che sempre più marcatamente caratterizza la migrazione contemporanea: non certo nel senso che si debba ridimensionare il rilievo delle “cause”, delle determinazioni strutturali delle migrazioni, ma piuttosto per evidenziare da una parte la crescente consapevolezza e ostinazione delle donne e degli uomini che ne sono protagonisti, dall’altra il fatto che i loro movimenti si pongono costitutivamente in eccesso rispetto ai regimi dell’asilo e alle fantasie governamentali di una migrazione “ordinata e gestita” sulla base di sempre più sofisticati parametri economici e demografici. Pensare la migrazione, oggi, significa in primo luogo pensare questo eccesso e questa autonomia, indagarne – senza alcuna inclinazione apologetica – le forme di manifestazione e ragionare realisticamente sulle sfide che pongono a un’azione e a una teoria politica che rifiutino di restare confinate nel perimetro della nazione.
Per chi voglia assumersi questo compito (e sono per fortuna molte e molti a farlo quotidianamente, in Italia come altrove), il sociologo algerino Abdelmalek Sayad continua a essere una fonte essenziale di ispirazione. Il libro di Gennaro Avallone (Liberare le migrazioni. Lo sguardo eretico di A. Sayad, ombre corte, pp. 117, 10 euro), che ormai da diversi anni lavora su questi temi, ne è un’eccellente dimostrazione. Vissuto a lungo in Francia, Sayad è autore di studi classici sulle migrazioni, tra cui va ricordato almeno La doppia assenza (pubblicato in italiano da Cortina nel 2002). Concentrandosi sul caso “esemplare” della migrazione algerina in Francia, quel libro intraprendeva effettivamente un tentativo di “liberare le migrazioni”, in primo luogo sotto il profilo che si può definire epistemico – ovvero sottoponendo a una critica rigorosa l’apparato concettuale e il linguaggio che informano la costruzione dell’oggetto “migrazione” tanto nel discorso pubblico (nella “doxa”) quanto nella ricerca scientifica.
“Pensare l’immigrazione”, ha scritto Sayad in uno dei suoi passi più noti, “significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione”. In un bel libro di qualche anno fa (Migranti e Stato, ombre corte, 2016), Fabio Raimondi ha mostrato come queste parole invitino ad assumere la migrazione come punto di vista per articolare una critica rigorosa e radicale dello Stato moderno. Avallone svolge a sua volta questa indicazione, ponendo in particolare l’accento sui modi con cui il “pensiero di Stato” comprime l’autonomia dei migranti all’interno dei confini nazionali, che si riflettono tra l’altro nella grande partizione tra “emigrazione” e “immigrazione”. Costruiti secondo i codici della “società di accoglienza” o della “società di provenienza”, i migranti sono catturati in una relazione “in cui occupano la posizione di oggetto, determinati da altri”. Riscattare l’autonomia delle migrazioni significa conseguentemente esporre in piena luce la soggettività dei migranti, assumerla non solo come criterio di orientamento della ricerca sulle migrazioni ma anche come punto di vista sull’insieme degli ordini al cui interno quella soggettività si esprime, subendone le coazioni ma anche agendo come forza di trasformazione. In questo senso, per Sayad, la migrazione si configura come un vero “fatto sociale totale”.
Avallone dà conto efficacemente della portata letteralmente sovversiva della proposta di Sayad, sia rispetto alle teorie della migrazione sia rispetto alle potenzialità politiche dell’azione dei migranti una volta che quest’ultima venga liberata dalla tirannia dell’“ordine nazionale” e dalle determinazioni coloniali che continuano a segnare quell’ordine sotto il profilo dei rapporti di potere a livello globale. Lo “sguardo dell’autonomia” che emerge da questa lettura di Sayad è indubbiamente un contributo prezioso sotto il profilo “epistemico”: sotto il profilo politico permette di cogliere e valorizzare i momenti di autonomia che, come dicevo all’inizio, segnano i movimenti migratori contemporanei. Si tratterà di indagare questi movimenti, per molti aspetti diversi dalla migrazione algerina in Francia al centro del lavoro di Sayad, alla ricerca delle condizioni che consentano alla loro autonomia di incontrare altre “autonomie”, altri movimenti con cui costruire coalizioni capaci di riqualificare la libertà e l’uguaglianza al di là della miseria dell’“ordine nazionale”.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 4 dicembre 2018.