di PANTXO RAMAS. 

 

 

Sono stati giorni intensi, qui a Barcellona. Dopo la vittoria del 24 Maggio, il quadro è cambiato radicalmente per chi era al potere (che ha perso le elezioni e il controllo sulle istituzioni), ma anche per noi che dal basso abbiamo costruito una candidatura popolare, aperta e innovativa. All’improvviso, e contro ciò che tanti si aspettavano, l’ecologia di cui avevamo parlato qualche mese fa – Barcelona En Comú – si è trovata immersa in un nuovo mondo: per molti versi ostile, eppure un mondo in cui molte cose sono possibili, in cui poter “fare”.

Dall’altra parte, le forme di vita corrotte proprie del regime in crisi si sono scatenate nel tentativo di restare aggrappate alla macchina stato e mantenere vivo un regime funzionale agli interessi dell’1%. Prese alla sprovvista, stanno scompostamente tentando di reagire a questa invasione dello spazio istituzionale: attraverso i giornali e la denigrazione (come nel caso di Madrid), oppure provando a costruire coups nel campo istituzionale (come ha provato a fare la destra catalana a inizio Giugno), infine cercando di rendere ingovernabile la macchina amministrativa, chiamando a dimissioni, discontinuità e vuoti nel cuore amministrativo dell’istituzione. Fallita e scomposta, questa reazione ha mostrato chiaramente quanto coloro che fino a poco tempo fa erano, nell’azzeccata definizione di Nirmal Puwar, space invaders, ovvero quei soggetti politici che hanno rotto l’omogeneità e invaso lo spazio pubblico/politico a partire dalle proprie minorità, siano oggi invasori dello stato

Eppure questa generazione invadente deve affrontare allo stesso tempo un problema verticale e un problema orizzontale: reagire agli attacchi del capitale/regime/élite/casta e produrre un’ecologia vivibile per poter “fare cose” e incidere nel campo istituzionale. La stessa dualità verticale/orizzontale si propone nello spazio aperto: nel comporre un dialogo diretto con la città che spieghi la complessità verticale e le contraddizioni vive del potere istituzionale e, allo stesso tempo, comporre dispositivi di capillarità1 che siano capaci di risalire lungo le pareti dell’istituzione e invadere lo spazio amministrativo.

Il primo problema si disegna dentro un campo istituzionale, convertito negli ultimi decenni in una macchina neoliberale al servizio di interessi privati. E allo stesso tempo, macchina piena di contrappesi minori, piccoli contropoteri e decine di meccanismi parzialmente autonomi che potranno essere concordi a un nuovo funzionamento dell’istituzione.

In questo senso la strategia “di palazzo” non può prescindere dall’assunzione della pluralità del risultato elettorale che, nel caso di Barcellona, si disegna in un consiglio comunale con ben sette forze politiche e maggioranze istituzionali sempre composte e trasversali – lungo tre piani: destra-sinistra, stato centrale-indipendenza, nuova e vecchia politica. Primo elemento che ha spinto a una scelta coraggiosa, e allo stesso tempo rischiosa: fare un governo di minoranza la cui agibilità istituzionale si gioca su maggioranze variabili (ovvero con un governo che in pleno municipal può contare solo su 11 voti propri, di fronte a una maggioranza assoluta di 21 consensi).

Effetto collaterale sicuramente positivo – la necessità genera processi più consistenti della convinzione! – è la costruzione di meccanismi di alleanza trasversale non solo nel campo puramente politico dell’istituzione, ma soprattutto nella costruzione di un rapporto stretto, operativo e di empowering con il campo amministrativo. I lavoratori del comune – la cui vocazione pubblica è stata letteralmente disfatta dalla governamentalità neoliberale degli ultimi vent’anni – diventano il nesso che può permettere di controbilanciare la debolezza numerica, perché l’amministrazione ordinaria possa cambiare concretamente l’attuazione delle politiche pubbliche municipali. La sfida, raccolta immediatamente nella costruzione di tavoli di confronto e analisi istituzionale con i lavoratori, è quella di rintracciare le forze trasformatrici intrinseche al piano amministrativo: riconoscere una serie di agenti istituzionali, una serie di culture sopite, una serie di desideri collettivi che si possano sentire chiamati a una funzione costituente, fondamentale perché “el cambio” sia reale ovvero perché questa invasione non incida solo sul dibattito pubblico, ma sulla vita della città – attraverso l’istituzione di nuovi protocolli, principi e valori che trasformino gli effetti delle politiche pubbliche sul quotidiano urbano.

Il secondo problema è quello del rapporto tra governo e società e la realizzazione effettiva di un governo che sappia obbedire a chi la città la vive e la fa. Problema fondamentale, una volta ancora, (anche) per necessità! Perché, senza un rapporto forte tra governo e società, questa ecologia fragile rischia di perdere la propria linfa vitale. Problema che però non può risolversi in una semplice retorica a proposito di chi parla dai palchi o en la calle, ma che deve confrontarsi con una funzione e una responsabilità allo stesso tempo istituzionale e interna all’organizzazione. Il problema infatti è legato alla capacità della macchina politica Barcelona en Comú di entrare e articolare il fuori e il dentro dell’istituzione, rompere l’idea di governo come agente dominante e rafforzare il protagonismo della società e di tanti pezzi di istituzione in questo processo di trasformazione.

In questi giorni i ritmi della macchina Barcelona en Comú sono abbastanza scomposti perché una serie di sforzi, aspettative e problemi pesano sugli ingranaggi: la fatica di una campagna elettorale estenuante, la voglia e l’entusiasmo di una possibilità senza precedenti, la difficoltà di atterrare e articolarsi in uno spazio complesso come quello dell’istituzione comunale. Risulta chiaro che questa accelerazione crea una serie di tensioni, di forze contrapposte, di problemi di coesione, legati a incomprensioni, contraddizioni e accelerazioni inevitabili. Le prime scelte su incarichi, alleanze e decisioni hanno dovuto tenere insieme elementi di discrezionalità, fiducia e urgenza con la necessità di processi trasparenti e partecipativi, capaci di rendere la collettività protagonista delle scelte politiche. In questa accelerazione alcuni ingranaggi hanno mancato il colpo, altri non esistevano e sono stati costruiti pezzo a pezzo nell’urgenza del giorno per giorno, altri ancora hanno surriscaldato l’ambiente. Altri, allo stesso tempo, hanno funzionato!

 

Foto-Ada-Colau-portavoz-de-la-PAH-OKPrimo elemento di intervento rispetto a questo problema dovrà essere quello di rafforzare l’intensità della sperimentazione nella comunicazione, piano già fondamentale in questi mesi di campagna: time-lines nelle reti, incontri pubblici e virtuali, presenza nelle strade degli eletti (il primo giorno di mandato, la Sindaca era sulla porta di una casa sotto sgombero!), lavoro interno all’organizzazione per mantenere un flusso di produzione collettiva delle politiche, rapporti con il tessuto associativo e politico autonomo (in senso proprio) della città.

Ma soprattutto macchine di espressione collettiva digitali e presenziali capaci di andare oltre i meccanismi tradizionali di partecipazione. E in questo senso la comunicazione come “azione in comune” sarà fondamentale e dovrà basarsi su rafforzare sia l’intelligenza sia l’emozione collettiva: non perché questa emozione sia olio della macchina politica, ma perché tutti possano avere gli strumenti e i concetti per sentirsi protagonisti delle decisioni e dell’attuazione delle politiche. Per partecipare.

Si tratta di poter segnalare la complessità degli strumenti e la difficoltà delle decisioni da prendere, dal dentro (istituzionale) verso il fuori; di poter condividere i punti deboli o i momenti in cui il sostegno è necessario per reggere le onde d’urto dei poteri fattuali; e anche di poter spiegare le decisioni prese verticalmente, costruendo meccanismi e contrappesi che permettano alla critica di non essere discorsiva o autoreferenziale, ma pratica e operativa.

E allo stesso tempo si tratta soprattutto di costruire un fuori capace di intromettersi, in modo invadente, nella macchina amministrativa. Su questo punto mi sembra importante soffermarmi. Sarebbe sbagliato in questo momento scomporre la dimensione istituzionale da quella dello spazio aperto sociale – pensare che il dentro e il fuori siano spazi separati e che la funzione di chi è fuori sia quella di spingere perché chi è dentro “cambi le cose”.

Il problema è diverso, lo spazio istituzionale non può leggersi in termini molari, in modo separato dall’azione della società. L’intervento sullo stato non funziona solo verticalmente – lungo una linea “civile” di rappresentanza che interviene normativamente sullo stato e da lì nel reale. Anche perché, se così fosse, l’attuale capacità trasformatrice dipenderebbe troppo dalla capacità, più o meno forte, più o meno contrastata, di fare alleanze di governo – cosa in cui siamo ancora, pericolosamente o fortunatamente, deboli. Se così fosse, la nostra capacità di incidere finirebbe per tornare nel campo della politica novecentesca: magari usando strumenti nuovi, però sostanzialmente tornando a una politica di pressione discorsiva sull’opinione pubblica e sul ceto politico, che funziona rafforzando identitarismi e correnti e che finirebbe per degradare ulteriormente le istituzioni a strumento di parte. La critica finirebbe per iscrivere i propri flussi su nuovi supporti, sui blog invece che nelle riviste, nelle reti sociali e non solo nelle assemblee. Ma come possiamo fare perché incida invece sulla vita della città, in pratica?

Se pensiamo lo spazio che stiamo invadendo e inventando in termini ecologici, di forme di vita invece che in termini meccanici, un’altra serie di pratiche (di critica) emergono, e pure un’altra serie di problemi. Come già scritto, “ecologia non è una metafora per parlare di altro, ma interpella la consistenza e l’efficacia dell’agire politico nel mantenere vivo un ecosistema. Un progetto il cui fiorire non dipende dal successo di un agente, ma dalla forza dell’ecologia nel suo insieme. Un’ecologia capace di riprodursi ma soprattutto di crescere ed essere una forza di trasformazione permanente della vita sociale.”

La ecologia istituzionale comunale a Barcellona è composita e ricca – frutto delle lotte e dei processi  di emancipazione che hanno reso questa città molto spesso un luogo di invenzione e sperimentazione sociale e pubblica. Allo stesso tempo però questa ecologia istituzionale è un territorio stremato e arido.

Le politiche neoliberali non hanno “distrutto” e sostituito l’ecologia istituzionale; l’hanno piuttosto resa terreno di depredazione e razzia, sfruttando le forze vitali prodotte nel rapporto tra società e funzione pubblica per rendere floridi altri mondi: “fare soldi” e spostare il rapporto di mutuo sostegno interno alla società, dallo stato al privato. Per fare questo, hanno introdotto una serie di dispositivi materiali di oggettivazione della vita istituzionale: la finanziarizzazione come cultura materiale. Contratti che precarizzano, orari che scompongono la vita in comune, codici estetici che definiscono segmentazioni negli status e nei diritti di chi lavora e di chi fruisce dei servizi. Questi oggetti – legali, fisici, immaginari – hanno inaridito lo spazio istituzionale e la vita di chi vive e lavora nell’amministrazione, burocratizzando, annullando, umiliando il rapporto vivo tra le persone, dentro e fuori dalle istituzioni.

Si apre una sfida di risoggettivazione – cara per esempio a Basaglia 10-01_ernequando avvertiva della necessità di rompere la doppia oggettivazione che l’istituzione impone al paziente, sì, ma anche al tecnico – perché questa società molteplice possa costruire dispositivi di autonomia, dentro fuori e attraverso le istituzioni. Ma pensare in termini di risoggettivazione non può funzionare oggi senza riprendere la materialità della politica – e in questo senso la sfida municipale assume una valenza ancora più forte perché la scala “locale” ci permette di sperimentare nella molecolarità, non solo soggettiva ma fisica, dello spazio pubblico e intimo della città.

Non basterà produrre nuovi flussi di soggettività dove i cittadini siano protagonisti della politica urbana. Bisogna fare della città una forma di vita emancipatrice – a space of joyful living: questa generazione invadente deve essere una generazione di makers, che sappia mettere la forza del cambiamento nella radicalità delle cose. Il problema della transizione e dell’invenzione istituzionale non può fermarsi ai principi, ai valori e ai protocolli. Deve invadere la quotidianità: l’agibilità spaziale, l’estetica viva e l’emozione che attraversano la vita urbana e confrontarsi con la forza delle cose per incidere su come agiscono concretamente le politiche pubbliche. E per farlo in modo irreversibile.

“La Generazione M fa cose. Non attraverso la produzione di massa, ma aggiustando ed espandendo le capacità delle cose e dei processi che già esistono. L’abilità del Maker: armeggiare, tirare, annodare, inventare, tessere, ricombinare […] Per la Generazione M tutto si gioca nelle collaborazioni capaci di creare le condizioni direttamente materiali in cui viviamo. Ma queste non sono collaborazioni tra individui o menti, o meccanismi di cooperazione sociale. Sono collaborazioni tra diverse forze materiali, viventi e abiotiche. […] Dagli ambienti sterili della società rete, del capitalismo cognitivo e l’economia della conoscenza che hanno caratterizzato l’ultima generazione all’involuzione contagiosa e umida di inter-specie e comunità multi-materiali. […] I movimenti sociali dell’era M fanno un passo in avanti. Non solo agiscono politicamente e istituzionalmente per difendere il comune ma si immergono in pratiche immediate, reali, materiali, per rendere comune la vita e il suo ambiente.

L’immaginazione di Dimitris Papadopoulos2 , nel manifesto “Generation M”3 , segna una passaggio di frantumazione e reinvenzione delle istituzioni che si pone come primo problema quello della “transizione”: ovvero come fare in modo che questa ecologia non muoia in questo processo di trasformazione, ma cambi e si rinnovi. La materialità che invoca è il luogo dove possiamo fare politica prendendoci cura della città, affrontando battaglie fatte di serrature cambiate per sgomberare la gente, di vestiti, colori e odori che servono per discriminare i dentro e i fuori della cittadinanza, problemi fatti di mense scolastiche e denutrizione infantile, di malattia e solitudine, di pastiglie proibite o permesse per governare le paure e la rabbia. Una città fatta, nei suoi luoghi più scuri, di tristezza e abbandono. Oggi dobbiamo inventare istituzioni sapendo che questa forza di invenzione non può rimanere nell’astratto, che deve farsi quotidianità, confrontandosi con oggetti e soggetti portatori di una capacità autonoma di produzione urbana.

Colau-Barcelona-Barris-PERE-VIRGILI_ARAIMA20150426_0194_1Oltre i processi di risoggetivazione, la transizione verso un’altra vita urbana dipende dalla capacità che avremo di formare pezzi di società, forme di vita, concatenamenti tra soggetti e oggetti attivi che siano capaci di aprire nuovi spazi, nuovi campi di possibilità in cui agire, in cui “fare cose” e incidere sulla realtà. Un esperimento di “urbanforming” (per riprendere la suggestione di Papadopoulos) che dovrà immergersi nella città per cambiarla. Pena altrimenti che la nostra critica si trasformi in un cartello appeso in qualche ufficio. Letto per dovere, ma incompreso.

 

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  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Capillarit%C3%A0 

  2. http://eipcp.net/bio/papadopoulos 

  3. http://eipcp.net/n/1392050604