di TONI NEGRI.

Non so se sabato prossimo 23 dicembre ci sarà una nuova manifestazione parigina; nell’ultima di sabato 15 si son visti più poliziotti (8000) che gilets jaunes. Inoltre, per uno strano gioco del destino o per una precisa strategia poliziesca, i gilets jaunes “buoni” o “moderati” si sono trovati all’Opéra e i “cattivi” sugli Champs Élysées – i primi a presentare i loro obiettivi democratici (sui quali torniamo tra poco) e gli altri a protestare rudemente di non poter manifestare. Questa volta le operazioni preventive (per non parlare di quelle successive e di intimidazione da parte) della polizia sono state massicce e rischiavi di essere fermato sui treni o sulle autostrade per Parigi o per strada se solo possedevi una mascherina antigas. Un bilancio impressionante della violenza della polizia (centinaia di feriti, fra cui alcuni gravissimi, dalle granate offensive e dai proiettili di gomma, un morto a Marsiglia) – un bilancio che supera largamente ogni altro evento dal 1968.
Non so dunque se sabato prossimo ci sarà la manif né posso sapere in che misura (sennonché hanno cominciato a farlo) i CRS avranno sgomberato (più o meno violentemente) i picchetti ai ronds-points delle strade dipartimentali e agli ingressi delle autostrade (in risposta i “picchettari” incendiano, talvolta, di notte le stazioni d’ingresso).
Quello tuttavia che, al di là della ripetizione delle scadenze parigine e della tenuta dei picchetti, è sicuro, è che il movimento non è finito. Si è – permettetemi il neologismo – ZADizzato, e cioè localizzato, mantenuto e consolidato intorno a punti di incontro e di forza, insomma si è insediato in informali “zone autonome di difesa”.
Perché? Una breve deviazione per chiarire. C’è in Francia, nella sua gloriosa storia rivoluzionaria, una parola che difficilmente si riesce a spiegare: fraternité. Della “libertà” e dell’“eguaglianza” si conoscono il contenuto utopico  e le false realizzazioni; della “fraternità”, né cosa significhi, né eventuali mistificazioni, perché sembra un astratto e vano ideogramma. Nei ronds-points, come in misura minore (ma non certo irrilevante) nei cortei, FRATERNITÀ ha invece preso corpo: in un incontro, in una resistenza, in un programma COMUNE. Donne e uomini di diversa estrazione sociale si sono trovati attorno ai fuochi e alle capanne dei militanti. Non solo a me (e qui ringrazio Gianni Mainardi per le discussioni che abbiamo avuto in proposito) questa “comune” dei proletari e dei poveri ricorda quell’“economia morale”, teorizzata da Edward P. Thomson come base delle rivolte popolari del secolo XVIII. Altri hanno sottolineato questa similitudine, insistendo tuttavia sui caratteri paternalisti, locali e consuetudinari di questa “economia” ed escludendo quindi ogni rapporto con i comportamenti e le passioni vissute nel ciclo di lotte sviluppatesi dal 2011 in poi. Non è vero: in molte lotte, soprattutto in quelle che si svolgono nelle piazze, queste caratteristiche che scoprono la gioia e la forza di “stare insieme” e di riscattare così la miseria e la solitudine della vita quotidiana – cioè di scoprire il comune della moltitudine – sviluppano un’“economia morale” all’altezza della contemporaneità. Forse la prova più esplicita, prima di poterla riconoscere nei gilets jaunes, ne è data dall’esplicito richiamo ai principi dell’economia (morale) da parte delle protagoniste argentine del movimento nonunadimeno.
Ma torniamo a noi. Quella fraternità, quell’economia morale dei bivacchi e dei picchetti dei gilets jaunes, l’intera Francia sembra aver compreso; e l’entusiasmo degli uomini liberi, come la paura dei governanti, si sono espressi nel medesimo tempo, ponendo il problema che oggi tutti discutono – gli uni, gli uomini liberi, chiedendosi come affermare quel comune che hanno costruito; gli altri, come disciplinare i nuovi “comunardi” se non si riesce ad assorbirne le richieste e controllarne la forza.
Fermiamoci su questo punto. Come controllare o reprimere il movimento? Per il governo il punto centrale sta nella volontà di spostare la discussione dal terreno del salario, delle tasse e delle imposte, insomma dalla protesta economica e dalla rivendicazione della giustizia distributiva (in risposta alla ignobile sospensione delle imposte per le classi “fortunate”) al terreno politico della rappresentanza, della democrazia e dei diritti. “È finito lo scontro – combat, si apra la discussione – débat”: ai gilets jaunes si impone, accanto ad una constatazione desiderabile, questo invito perentorio. Quanto al Primo ministro, ha già stabilito il programma della discussione (e la composizione di assise programmate su vari punti: fiscalità, territorio, ecologia, ecc.) che dovrà svolgersi da qui sino a marzo. Si dirà che è una buona notizia – e lo è, infatti, se è vero che il dibattito dovrà partire dalla base, dai municipi – e che a queste discussioni parteciperanno tutti. Ma, per il governo, la buona notizia termina qui. Non appena infatti il dibattito si innalzerà dai municipi e si arriverà ad un tavolo con i governanti, i gilets jaunes dicono espressamente e con insistenza che non hanno nessuna voglia di sedersi a quel tavolo. Sia perché non si fidano, sia perché non pensano che questo governo, dopo l’esplosione della rivolta dei gilets jaunes, sia più legittimato a discutere e a prendere decisioni. Non si fidano, dicevamo: e in effetti già da ora le promesse fatte dal Presidente – ad esempio i 100 euro in busta paga per i smicards, per esempio l’esenzione della CSG sulle pensioni – non si capisce più come verranno realizzate. Si badi bene: quelle proposte fatte dal Presidente lunedì scorso, si sente (e si sentiva mentre parlava) che sono state strappate con violenza ad un neoliberale. Alludono infatti ad un salario sociale o a un reddito (vero) di cittadinanza, chiamatelo come volete – che Macron aveva sconfitto duramente, denunciandolo come una bestemmia contro l’economia della felicità (quella mainstream) durante la battaglia per la sua elezione, contro l’intelligente proposta di Hamon. Ora sono i gilets jaunes che si muovono in questa direzione e lui comincia a cedere! Che vergogna! Ma cederà davvero? Com’è possibile che adesso tutti chiedano soldi? Anche i poliziotti che hanno presentato subito il conto (e sono stati subiti esauditi) per la fatica che controvoglia han dovuto fare per tenere lontano dall’Eliseo le moltitudini arrabbiate?
Ritorniamo alla discussione proposta dal governo. Sembra che da subito il tema centrale debba essere il RIC (referendum d’iniziativa cittadina). In Francia, la pratica del referendum, pur prevista dalla Costituzione, è poco frequente. La proposta che sta alla base della richiesta dei gilets jaunes dell’Opéra, è quella di renderlo efficace sia nei tempi di esecuzione (brevi) che per le tematiche di attuazione (il campo più largo possibile). Credo che il dibattito sulla definizione del referendum sarà piuttosto rude. Non credo proprio che il governo permetta ad esempio referendum sullo smic o sulle pensioni. Ma soprattutto sembra a molti gilets jaunes (io credo alla maggioranza) che la disposizione a trattare sul RIC da parte del governo, sia intesa a isolare e ad espellere dal dibattito la dimensione materiale, monetaria, salariale (e la questione della giustizia distributiva).
Non è un caso che la proposta di un dialogo organizzato dal governo sugli obiettivi dei gilets jaunes sia stata fatta con molta insistenza dalla CFDT, fin dai primi giorni del sollevamento. Questo sindacato (che è ormai maggioritario nelle imprese private) è assai moderato, senz’altro riformista, ma di quel riformismo che è sollecitato, adeguato e permesso dal neoliberalismo: sostiene un progetto di riforme sempre indirizzato alla contrattazione individualizzata del salario e a mettere in onore la partecipazione dei lavoratori all’impresa capitalista. Il presidente della CFDT, Laurent Berger, è un uomo intelligente. Dall’inizio ha dichiarato che “i gilets jaunes sono mortali per il sindacato”. Ha compreso cioè che essi irrompono in maniera radicale sul terreno della contrattazione sindacale, proponendosi come movimento (non delle categorie lavorative ma) dei lavoratori come classe sociale. Viene così messo in mora il sindacato categoriale, corporativo che tanto bene si adatta all’organizzazione neoliberale del lavoro ed in generale alla strutturazione rappresentativa del potere. L’azione dei gilets jaunes fa scomparire il sindacato tradizionale, quello che taluni di loro chiamano il “sindacato della sconfitta”. Non sarà un caso che lo sciopero indetto per il 14 dicembre della CGT, sia completamente fallito, meglio, che nessuno se ne sia nemmeno accorto che era stato convocato. Che cosa ha dunque capito Laurent Berger e che cosa è riuscito a comunicare al potere? Che i gilets jaunes sono un contropotere, qualcosa che è il contrario della “partecipazione”. Un contropotere che si pone fuori dalla struttura costituzionale e che (per ora) nega un rapporto di rappresentanza comunque sia formulato. Sono un contropotere che si presenta come “altro” (doppio), perché non entra sul terreno di mediazione caratteristico dello Stato costituzionale e in buona misura lo rifiuta.
Sembra eccessivo parlare qui di doppio-potere nei termini della tradizione rivoluzionaria. C’è certo qui una diversità dal doppio-potere forte, consolidato, che agisce nelle rivoluzioni moderne che conosciamo. Direi che qui c’è piuttosto un contropotere debole, ma pur efficace, che riesce a resistere proprio per questa sua strana figura, nella sua molteplicità, nella sua inafferrabilità (non ha leader, non ha strumenti rappresentativi né rappresentanza attuale, ecc.) da parte dell’altro potere (quello statale, rappresentativo, mediatico…). Insomma, quando si parla oggi di doppio-potere a me qui esso sembra rivelarsi in una nuova figura. La sua differenza specifica rispetto al passato? Ripetiamola: “debolezza”, liquidità, molteplicità, forza diffusa e non unitaria, caratteri comunitari e non identitari, permanenza etica della protesta, ecc. ecc. – sono tutti elementi che allontanano oggi la pratica della resistenza, del contropotere attuale dalla concezione “moderna” (giacobina, bolscevica, ecc.) del contropotere. C’è da dire che Lauren Berger ha ben letto il fenomeno gilets jaunes.
Doppio-potere o no, per ora comunque l’unica mediazione visibile tra potere statale e gilets jaunes è quella poliziesca, e cioè il braccio della repressione. Questa figura è inevitabile quando i gilets jaunes, come moltitudine, come classe sociale, si presentano e mostrano la crisi profonda dell’intermediazione Stato-società – un’intermediazione che non può più essere affidata alla rappresentanza politica.

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In ogni caso, la situazione per il governo francese è critica. La spesa prevista per le riforme annunciate porta il deficit del bilancio a più del 3 %. Non sembra che per il momento ci siano modi efficaci di ristabilire un equilibrio – l’unica cosa a cui si è pensato è la tassazione dei GAFA (delle grandi piattaforme americane) da lungo ormai proposta e mai attuata. Decisione fragile perché quei monopoli non resteranno fermi in attesa della nuova tassazione, potendo spostarsi liberamente in Europa. L’Europa accetterà comunque senz’altro l’eccezione francese. Resta il fatto che Macron, pezzo per pezzo, perde il preteso ruolo di “guida” (post-Merkel) dell’Unione.
Altra cattiva notizia per il governo è che gli studenti liceali e universitari continuano la lotta. Non si respirano più pretesa di avanguardia o di egemonia da parte di piccoli gruppi, la tensione e l’ansia per la convergenza delle lotte, di tutte le forme di resistenza, sono massime: la lotta dei gilets jaunes ha avuto anche un effetto pedagogico.
Notizia buona per il governo può essere invece quella che qualche gruppo di gilets jaunes si presenterà alle elezioni europee di maggio. Son questi elementi che rompono la compattezza del fronte dei gilets jaunes e mostrano (con tutta probabilità in enorme minoranza) cedimenti “opportunisti” sul fronte del “contropotere”.
Il periodo natalizio sarà quest’anno gelido. Nella lotta molti gilets jaunes hanno speso i risparmi fatti per il veglione. Non si lamentano. La lotta continua. In questo periodo di minor tensione si pensa come continuare e rinvigorire la lotta. Ci rivediamo nel 2019. E in ogni caso i gilets jaunes saranno, oltre che in Francia, centrali nel dibattito europeo.

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