di MARCO BASCETTA*. «Una classe in divenire», così Guy Standing aveva definito il Precariato in un fortunato saggio del 2011. Tre anni dopo torna sull’argomento con un nuovo libro : A precariat charter from denizens to citizens, tradotto in italiano con il titolo Diventare cittadini. Un manifesto del precariato (Feltrinelli, pp. 330, euro 19). In questo passaggio tra la «classe in divenire» e la «cittadinanza in divenire» si annida una questione politica della massima rilevanza. Standing prende le mosse dal precariato inteso come una condizione permanente e tutt’altro che marginale, decisiva nell’universo competitivo e globalizzato del capitalismo contemporaneo. Ciò che lo rende «classe in divenire» è la condivisione di specifici rapporti di produzione e di distribuzione, nonché il particolare rapporto con lo stato, ma senza che questa condivisione si sia tradotta in una coscienza collettiva, una coscienza di classe appunto, e nella relativa forza politica. Questi rapporti sono contraddistinti da una serie di negatività (incertezza, ricattabilità, perdita di controllo sul proprio tempo, povertà) e di estraneità (distacco dal lavoro classico, disinteresse per il «posto fisso», scarsa identità professionale, scetticismo politico). La prima serie mette il precariato in contrasto con il programma neoliberista, che impone il mercato, (nel quale i precari si trovano in una condizione di oggettiva debolezza e labile presenza), come unica dimensione ammessa di socializzazione. La seconda con la tradizione laburista e socialdemocratica, che considera il lavoro salariato come condizione necessaria per l’accesso alla cittadinanza. Questo doppio conflitto, secondo Standing, farebbe del precariato una «classe
esplosiva» che ricerca sicurezza fuori dal posto di lavoro e dunque oltre il tradizionale raggio di azione del sindacato e della rappresentanza politica.
Una coalizione in divenire
I sindacati, per troppo tempo testimoni attoniti dell’erosione della propria base sociale e forza contrattuale, hanno infine preso atto della crescita inarrestabile del precariato come elemento strutturale, e cominciato a dubitare del mito della «piena occupazione», almeno nella forma in cui lo avevano lungamente coltivato. Tuttavia, nel «tendere la mano» al lavoro autonomo e intermittente, fittizio o effettivo che sia, non sembrano avere percepito fino in fondo il rivoluzionamento concettuale che la nuova realtà comporta. Non si tratta infatti di un ampio bacino fino ad oggi troppo trascurato e con il quale è ormai impossibile eludere il problema di una «coalizione», di una realtà che «si aggiunge» a quelle abituali, ma di un fenomeno che trasforma radicalmente la natura stessa del lavoro in generale, stabile o temporaneo che sia, e tutte le sue forme di organizzazione e soggettivazione. Si delinea così un contesto nel quale la conquista di diritti e tutele non può più darsi, per nessuno, su un piano che non investa l’assetto dei poteri politicamente organizzati attorno alle regole neoliberiste del mercato e dunque le loro istituzioni. Il fatto che il sindacalismo di tradizione socialdemocratica si ritrovi oggi privo di qualsivoglia sponda politica, fino a dichiararsi per la prima volta in Italia apertamente astensionista, è diretta conseguenza della fusione compiuta ( che è cosa diversa dalla storica «complicità» borghese) tra sovranità politica e ordine economico proprietario.
È in questo contesto che si colloca il problema, tutt’altro che semplice, posto da Standing, vale a dire come una «classe in divenire» di non-cittadini, e dunque una soggettività politica, per così dire incompiuta, possa conquistarsi l’accesso a una compiuta cittadinanza. Lo studioso britannico sembra intenzionato ad accelerare il raggiungimento della coscienza collettiva attraverso la stesura di un manifesto del precariato. Ma più che di un manifesto che collochi il precariato nella storia conferendogli un compito e un ruolo, come aveva fatto, per il proletariato, quello folgorante del 1848, si tratta di una estesa e articolata piattaforma di obiettivi e rivendicazioni nella quale dimensione sociale e dimensione politica appaiono ben poco distinguibili.
Oltre il mito produttivista
In 29 articoli, il manifesto di Standing spazia dalle tutele previdenziali e normative ai diritti dei migranti, dalla giustizia all’istruzione, dal controllo del capitale finanziario ai beni comuni, dal reddito di cittadinanza alla democrazia partecipativa. A partire dall’articolo 1 nel quale si postula una ridefinizione complessiva del lavoro «come attività produttiva e riproduttiva» che lo sottragga alle mitologie quantitative convergenti della crescita economica e della tradizione laburista. A partire, dunque, da quel rovesciamento di prospettiva che il precariato incarna e impone all’agenda politica. Gli articoli del manifesto costituiscono un cospicuo repertorio, ampiamente argomentato, di possibili obiettivi per campagne politiche a venire. Resta tuttavia problematico il rapporto tra un programma compiuto e un soggetto incompiuto («in divenire»), portatore di storie, esperienze e sensibilità in parte comuni, ma in parte divergenti. Su quali gambe potrà marciare il manifesto di Standing?
Cittadinanza ha due significati principali. Il primo riguarda un insieme più o meno esteso di tutele, diritti, garanzie. Il secondo una questione di «peso politico», di capacità di incidere sulle condizioni materiali e culturali del vivere in società, in breve, di potere. Lo stretto nesso tra questi due aspetti dovrebbe essere cosa ovvia, ma non sempre lo è. Meno che mai in un quadro politico di natura sem-
pre più spiccatamente postdemocratica.
Standing sembra affidare la connessione tra coscienza e capacità di azione al concetto di Voice, proposto da Albert Hirschman all’inizio degli anni Settanta. Ma è una risposta piuttosto debole e generica. Se il suo manifesto articola con precisione l’insieme dei diritti necessari a trasformare la non-cittadinanza del precariato in piena cittadinanza, sul secondo aspetto, la forza per irrompere in questa dimensione determinandone anche la qualità, rimane nell’ambiguo concetto di «democrazia partecipativa» quando non imbocca una via decisamente discutibile. Ossia quella che conduce verso una sorta di movimento neocorporativo.
Derive professionali
Richiamare la tradizione corporativa o le «comunità professionali» come argine contro la spietatezza deregolata del mercato o il controllo burocratico dello stato, rimanendo di fatto, pur denunciandola, nella trappola, predisposta dall’ideologia neoliberale che contrappone lavoratori a consumatori, rappresenta una deriva pericolosa e una seria contraddizione nella stessa argomentazione di Standing.
Se la classe in divenire resta tale in assenza di una coscienza collettiva, che senso ha pregiudicarne lo sviluppo sostituendola, per l’intanto, con la «coscienza professionale» o con una sommatoria di coscienze professionali «coalizzate»?
È esattamente questo tipo di orizzontalità intesa come affiancamento di affezioni identitarie poco permeabili, di storie separate e incomunicanti, di «codici etici» particolari e privilegi di status, di abitudini e prerogative acquisite a compromettere in radice la formazione di una forza politica efficace. Non si tratta ovviamente di negare la molteplicità irriducibile delle soggettività in conflitto con l’ordine proprietario del neoliberismo per ricondurla all’unicità del «Soggetto Storico della Rivoluzione», ma di scongiurarne la frammentazione categoriale e corporativa, tenuta insieme da una labile convergenza di interessi, attraverso la costruzione di una politica.
Precariato, secondo le stesse osservazioni di Guy Standing, è in primo luogo estraneità a una identità conferita dal lavoro, complessità e molteplicità che attraversa il singolo soggetto, necessità di ripensare modi e finalità dell’attività umana contro la tirannia del lavoro alienato. Quanto di più lontano, si direbbe, dalla logica dello «status» professionale e dalle relative forme di coscienza. Dalla tradizione corporativa della comunità chiusa e protetta. Prendere le distanze da questa storia non significa naturalmente legittimare il deprezzamento o l’asservimento delle proprie competenze imposto dalla dottrina della competitività, ma aprire a una pratica di libertà che non ne resti interamente prigioniera o dipendente. Bisognerà pur decidere, insomma, se cittadinanza significhi un riconoscimento di status, l’inquadramento in un ruolo sociale riconosciuto, oppure l’esercizio di diritti e poteri che non si piegano ai rapporti di forza dati e scardinano il quadro delle compatibilità. Standing non sembra averlo deciso, ma del resto neanche il precariato lo ha ancora chiaramente fatto.
Sempre diviso tra il desiderio di stabilizzarsi nelle vecchie forme, e quello di conquistare l’agio e la «voce» a una forma di vita che vuole o deve conservarsi nomade, che aspira a rendere effettiva e potente la propria autonomia. Nel primo caso il precariato, qui inteso come bacino del lavoro autonomo o intermittente, assume la veste di una «categoria» che va ad aggiungersi a quelle variamente codificate del pubblico impiego, dell’industria e del terziario, dei pensionati o degli «esodati», ma più debole in conseguenza della sua condizione frammentata e ricattabile. In poche parole un «problema sociale», sia pure di dimensioni crescenti. Nel secondo caso si tratta di ripensare interamente non solo l’impianto laburista del welfare state, ma anche di imporre diversi rapporti di produzione e distribuzione della ricchezza sociale, di organizzare, insomma, una forza collettiva di nuovo conio.
Il veleno lavorista
E questo è decisamente un problema politico. Che, del resto, sottende gran parte dei punti elencati nel «manifesto del precariato», ponendo una questione di nuova istituzionalità. In radicale contrasto con la tendenza, oggi politicamente e culturalmente dominante, che punta a riorganizzare gli equilibri sociali intorno al cosiddetto workfare e alle sue istituzioni di controllo e disciplinamento. Un sistema che, nel vincolare il diritto a vedersi garantite le condizioni minime di esistenza all’accettazione di un lavoro quale che sia e a qualsivoglia condizione, blocca la mobilità sociale e istituisce, come ben spiega Standing, un circolo vizioso della povertà: il lavoro miserabile scaccia quello più gratificante e redditizio e nega ogni attività non alienata. La cultura socialdemocratica e sindacale non ha saputo sviluppare sufficienti anticorpi contro questo veleno «lavorista» che minaccia la qualità stessa del vivere in società. La soggettività della «classe in divenire» potrebbe farlo a patto di non riconoscersi in una associazione di gilde o in una categoria di derelitti smerciati sul «secondo mercato» del lavoro, l’outlet di ogni capacità umana.
*questo articolo è uscito il 22/4/2015 su il manifesto