di FRANCESCO FERRI.

Ventimiglia, commissariato di polizia, 2 agosto 2017

Sette migranti, in prevalenza sudanesi, hanno messo a soqquadro il commissariato di Ventimiglia danneggiando il telaio della finestra antisfondamento e il telaio della porta blindata di accesso al salone, ferendo due agenti di polizia e altrettanti carabinieri.
I sette sono stati arrestati con le accuse di violenza e resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato.
Processati oggi per direttissima hanno patteggiato e ottenuto la sospensione della pena. Per tutti è stato disposto il trasferimento in un Centro di identificazione e espulsione. Secondo quanto appreso, i sette profughi facevano parte di un gruppo di venti migranti respinti dalle autorità francesi e portati in commissariato, in vista del successivo trasferimento a Taranto. [qui]

Lo scarno articolo dell’edizione on line di Repubblica Genova riporta la notizia, ripresa anche negli spazi dedicati alla cronaca di altri quotidiani, soprattutto liguri, dei disordini avvenuti all’interno del commissariato di Ventimiglia. Nel breve testo viene riferito innanzi tutto del danneggiamento della struttura (in particolare al telaio della finestra antisfondamento e al telaio della porta blindata di accesso al salone), del ferimento di due agenti di polizia e altrettanti carabinieri, e delle conseguenze penali e amministrative (processo per direttissima, patteggiamento, sospensione della pena, trasferimento al CIE) per i migranti.
Nelle ultime righe dell’articolo sono riportati, molto brevemente, gli elementi di contesto: i sette profughi facevano parte di un gruppo di venti migranti respinti dalle autorità francesi e portati in commissariato, in vista del successivo trasferimento a Taranto. Il nome della città ionica è l’ultima parola del testo. Perché il nome della città pugliese è presente in un trafiletto della cronaca di un quotidiano ligure, che parla di un commissariato a soqquadro, ferimento di agenti, processo per direttissima, CIE, respingimenti alla frontiera?

Taranto, stazione dei treni, ore 19:49 di un giorno indefinito dell’ultimo anno

Alla fine del breve corridoio che conduce al binario 1 della stazione di Taranto sono schierati alcuni agenti di polizia. Sono arrivati poco prima, e andranno via subito dopo le 19:49, orario di partenza dell’Intercity notte per Milano Centrale. Gli agenti di polizia sono lì per una ragione specifica: controllano che i migranti – presenti proprio a quell’ora e proprio nei pressi di quel corridoio in numeri più significativi rispetto agli standard della stazione – siano provvisti del costoso biglietto del treno per Milano, uno dei treni più ambiti tra chi è stato traferito coattivamente da nord – soprattutto da Ventimiglia – a Taranto.

L’hotspot di Taranto (o “punto di crisi”, nella terminologia utilizzata dal cd decreto Minniti) è, infatti, uno degli assi portati della strategia politica di alleggerimento della pressione in frontiera, avviata tra la primavera e l’estate del 2016, consacrata dalle parole del capo della Polizia Gabrielli che, in visita a Ventimiglia il 9 agosto del 2016, dichiarava:

Dobbiamo decomprimere la situazione a Ventimiglia e c’è un solo modo per farlo, prendere queste persone e portarle da un’altra parte. La situazione è grave ma non tragica, credo che lo sforzo durerà almeno fino alla fine dell’estate. Per quanto offriamo alternative di accoglienza loro vogliono passare la frontiera. [qui]

In realtà lo sforzo – il trasporto coatto in bus di migliaia di persone dalla cittadina ligure a Taranto – è proseguito ben oltre l’estate. Nel Rapporto sui centri di identificazione ed espulsione in Italia (aggiornamento gennaio 2017) della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato, infatti, è possibile leggere che:

Delle 14.576 persone transitate dall’hotspot da marzo a ottobre 2016, solo 5.048 sono provenienti da sbarchi mentre la maggior parte, 9.528, sono stranieri rintracciati sul territorio italiano e condotti a Taranto per essere identificati. Ed è questo il dato più rilevante in merito a quanto accade nella struttura poiché in nessuno degli altri hotspot si è registrata tale prassi, che desta molte perplessità.

Si tratta di numeri notevolissimi. Peraltro, la prassi dei trasferimenti coatti prosegue tutt’ora, senza soluzione di continuità, e anche nel periodo invernale è proseguita senza soste. Nel corso dell’ultimo anno anche altre località (soprattutto Como e almeno in una circostanza anche Milano) sono state oggetto delle operazioni di alleggerimento e del successivo trasferimento.
In ogni caso, Ventimiglia continua a essere la principale località di provenienza. Due, tre, quattro volte a settimana i bus percorrono i 1188 km che separano la cittadina ligure dall’hotspot pugliese. Si tratta di una prassi istituita informalmente, altamente costosa dal punto di vista sociale, economico, politico, sprovvista di specifica disciplina normativa al di là degli scarni e inadeguati riferimenti contenuti all’interno del cd decreto Minniti che, in ogni caso, è stato emanato molto tempo dopo l’inizio di questa vicenda.

Una trasferibilità trasversale agli status

Le operazioni godono di un elevato regime di visibilità: non è difficile, a Ventimiglia, osservare i bus collocati, ad esempio, nei pressi della frontiera alta, che attendono di essere riempiti al termine delle operazioni di rintraccio. Per ricostruire, invece, le modalità operative di attuazione e quello che succede all’interno dell’hotspot è imprescindibile ascoltare le testimonianze dei migranti in transito per Taranto e per la città ligure.
Con riferimento alla condizione giuridica delle persone rintracciate a Ventimiglia e trasferite coattivamente a Taranto, siamo davanti a un fenomeno fortemente diversificato. Insieme a un numero rilevante di persone in condizione di irregolarità, è possibile incontrare, presso la stazione di Taranto (luogo in cui, appena terminate le operazioni di identificazione, si riversa la gran parte dei migranti) un numero molto significativo di richiedenti asilo, di cittadini stranieri titolari di permessi di soggiorno di varia natura (permessi di soggiorno per lavoro subordinato, per protezione internazionale, ecc), minori, persone in evidenti condizioni di vulnerabilità. È bene precisare che le persone non vengono trasferite da Ventimiglia sulla base dell’emissione di provvedimenti amministrativi che ne dispongono l’allontanamento. Al contrario, siamo davanti a una prassi governata dall’assoluta informalità.

Una composizione così eterogenea, dal punto di vista della condizione giuridica, è indice dell’inesistenza di efficaci modalità di accertamento della posizione dei migranti prima dei trasferimenti in bus. Al contrario, è possibile notare una tendenziale omogeneizzazione verso il basso degli status: a prescindere dalla propria situazione, chiunque si trovi a Ventimiglia rischia di essere trasferito verso sud.
Le modalità di attuazione delle operazioni di rintraccio a Ventimiglia seguono schemi poco definiti, nelle testimonianze raccolte dai migranti trasportati. Un numero significativo di persone racconta, ad esempio, di essere stato intercettato dalle autorità di polizia al di là del confine francese, e di essere stato successivamente trasferito al di qua, e quindi a Taranto. Altri, invece, riferiscono di essere stati fermati dai funzionari di polizia in territorio italiano, dentro la cittadina ligure o nelle zone limitrofe.

Molte persone riferiscono di aver atteso a lungo, all’interno del commissariato di Ventimiglia o nei locali della polizia di frontiera, prima del trasferimento verso l’hotspot. È ragionevole ritenere che l’attesa corrisponda al tempo necessario per rintracciare un numero significativo di persone, così da riempire, almeno in parte, i bus. I migranti raccontano, inoltre, di essere costantemente scortati, durante il tragitto verso Taranto, dagli agenti di polizia, presenti anche all’interno dei bus e al seguito, su mezzi propri.

Una volta arrivati nell’hotspot di Taranto, i migranti vengono identificati. In attesa dell’esito di tale operazione, le persone restano all’interno dell’hotspot, nella zona prossima alla recinzione esterna, nei pressi dei containers che ospitano gli uffici degli attori coinvolti, a vario titolo, nel dispositivo hotspot (Ufficio immigrazione della questura di Taranto, Frontex, EASO, UNHCR, OIM, ecc). Una volta terminate le procedure di identificazione, i migranti ricevono varie tipologie di provvedimenti in uscita, in ragione di quanto emerso dagli accertamenti. Chi è identificato come irregolare riceve un nuovo decreto di espulsione. In alcuni specifici casi in seguito all’emissione del decreto di espulsione è stato predisposto il trasferimento presso uno dei CPR attivi sul territorio nazionale. Nella quasi totalità dei casi, in ragione della scarsa disponibilità di posti all’interno dei CPR attivi – e in attesa dell’annunciata costruzione di nuove strutture – viene emesso un ordine di allontanamento dal territorio nazionale (nelle testimonianze di molti migranti il cd. “foglio dei sette giorni”), e i migranti irregolari vengono messi alla porta dell’hotspot.

Anche chi è identificato come titolare di permesso di soggiorno (per lavoro, per protezione internazionale o umanitaria, ecc) abbandona rapidamente struttura. Chi risulta richiedente asilo (negli ultimi mesi è stato possibile incontrare un numero significativo di persone che, dopo aver formalizzato la domanda di protezione ed essersi allontanati dai rispettivi centri, sono state rintracciate nelle località di frontiera e condotte a Taranto) riceve un foglio che costituisce un invito – anch’esso dagli opachi connotati giuridici – a recarsi presso la questura dove è stata formalizzata domanda di protezione per regolarizzare la propria posizione sul territorio nazionale.
Tutte queste categorie – migranti in condizione di irregolarità, titolari di permesso di soggiorno, richiedenti asilo – non hanno accesso alla zona alloggiativa dell’hotspot e devono abbandonare la struttura subito dopo l’identificazione e l’eventuale emissione di provvedimenti. La maggior parte dei migranti percorre a piedi, immediatamente dopo la fine delle operazioni di identificazione, i 3 km di strade a scorrimento veloce che separano l’hotspot– situato nei pressi del porto industriale, vicinissimo a una delle aree più inquinate d’Europa – dalla locale stazione dei treni, alla ricerca, nella maggior parte dei casi, della modalità più efficace – e più veloce – per fare subito ritorno in frontiera. È consentito l’accesso alla zona alloggiativa dell’hotspot e il pernottamento, in attesa del trasferimento nei centri di prima accoglienza, soltanto a chi, non avendo mai formalizzato domanda di protezione internazionale e non avendo mai ricevuto un provvedimento di espulsione e/o di respingimento differito, è considerato un potenziale richiedente asilo. Molto spesso anche anche i potenziali richiedenti asilo abbandono rapidamente la struttura per fare ritorno in frontiera.

Per una geografia capovolta

Quella che va settimanalmente in scena lungo l’asse Ventimiglia/Taranto è una vicenda indubbiamente complessa e inquietante. Ci sono molte questioni cruciali aperte: l’informalità delle prassi di polizia, l’arbitrarietà del comando, le specifiche questioni poste dall’approccio hotspot, la violazioni dei diritti e la violenza sistematica del governo delle migrazioni. Sembrano esserci, più in generale, due punti focali a partire dai quali è possibile studiare, da attivisti, il dispiegarsi di questa prassi. Il primo è caratterizzato dalla coercizione, attuata dal management delle migrazioni, in maniera così seriale da configurare una strategia politica di medio periodo. Questa coercizione è messa in scena da vari attori pubblici (con la determinante cooperazione tra le forze di polizia francesi e italiane) e privati (si pensi, ad esempio, all’azienda che fornisce i bus per i trasporti). Può essere interessante provare a ricercare qual è l’ordine del discorso pubblico all’interno del quale è stata informalmente istituita questa prassi. C’è una retorica esplicita, richiamata di frequente da esponenti politici e dirigenti di polizia: “non faremo di Ventimiglia la Calais italiana”. Esiste contemporaneamente una sottotraccia di discorso pubblico: può essere utile provare a ritracciarla per capire qual è il contesto culturale e politico che accompagna le operazioni.

È proprio uno degli aspetti salienti della modalità di rintraccio – la tendenziale irrilevanza degli status giuridici dei migranti al fine del trasferimento coatto – a suggerire che, nel discorso pubblico e nelle prassi amministrative, è in corso una moltiplicazione delle figure mostruose di alterità. Se fino a qualche tempo fa – prima dell’ultima feroce ondata di populismi – i clandestini erano al centro dell’attenzione del discorso politico, ora è possibile notare che la figura del migrante irregolare è affiancato da altre figure ugualmente mostruose (il richiedente asilo che approfitta del welfare dell’accoglienza, l’occupante titolare di protezione internazionale dotato di bombole a gas, ecc). L’assenza di efficaci forme di selezione tra i migranti da allontanare e identificare lontano da Ventimiglia segnala uno stile di gestione dell’ordine pubblico caratterizzato da un’ossessiva attenzione per i luoghi – le zone prossime alla frontiera, ma anche gli stabili occupati, e finanche le piazze – che, in questa fase, definiscono le priorità nell’agenda del governo delle migrazioni più delle differenze di status: una conferma empirica della crisi delle categorie e dei nomi che utilizziamo per definirle.

Un contesto di questo tipo pone evidentemente una serie di sfide politiche e metodologiche. È necessario, a questo punto, porre la necessaria attenzione al secondo punto focale intorno al quale ruota la vicenda in oggetto: l’incessante movimento dei migranti. Partiamo da una considerazione tanto banale quanto centrale: se non ci fossero centinaia di migranti che, per la terza estate consecutiva, raggiungono, attraversano, pernottano a Ventimiglia, provando – a volte con tragiche conseguenze, altre volte con successo – ad attraversare i confini costantemente monitorati dalle autorità, la macchina dei trasferimenti non sarebbe stata progettata e realizzata. Non è un esercizio di stile ristabilire il corretto ordine – cronologico, sociale, politico – fra le condotte dei migranti e l’intervento delle prassi di polizia. Per ogni inchiesta, iniziativa politica, dispiegamento di attivismo, presa di parola contro la violenza dei trasferimenti, l’arbitrarietà del comando e la violazione dei diritti, dovremmo utilizzare la stessa energia, lo stesso impegno, la stessa costanza – e forse anche qualcosa in più – per studiare, indagare e attraversare il portato soggettivo che determina, per ogni trasferimento coatto, altrettanti viaggi a zig zag lungo la penisola per ritornare lungo i luoghi del transito, per sperimentare nuove possibilità di attraversamento della frontiera. A Ventimiglia e a Taranto non è difficile incontrare migranti che sono stati trasportati a sud anche cinque, sei, sette volte e che, con mille difficoltà e mille speranze, sono ritornati a nord.

Controluce

Se il dispiegarsi dei trasferimenti coatti nord/sud segna una linea tendenzialmente retta, tracciata dai bus che percorrono incessantemente la penisola in una direzione pieni e nell’altra vuoti, lungo la direttrice sud/nord le linee sono molto più frastagliate, caotiche, spezzate. La frattura è determinata, ad esempio, dal costo del biglietto del treno, che costringe la quali totalità dei migranti in transito a optare per tratte meno attenzionate, e a fare molte involontarie fermate durante il viaggio di ritorno. Le molteplici direzioni dei viaggi sud/nord a volte sono caratterizzate anche da soste più o meno lunghe per le città del transito – Roma, Milano, Bari, Napoli, Bologna – spesso funzionali all’acquisizione di risorse – contatti, soldi, informazioni – in vista di un nuovo tentativo attraversamento del confine, più efficace del precedente.

In uno scenario di questo tipo, all’interno del quale l’attraversamento dei confini è per gran parte delle persone in transito per Ventimiglia l’unico orizzonte contemplabile, la scena del 2 agosto – il commissariato a soqquadro – assume tutto un altro significato. È anch’essa una sottotraccia che contribuisce a delineare la potenza di una categoria – quella del desiderio di attraversamento – molto spesso ai margini non solo della retorica pubblica dominante, ma anche della controretorica umanitaria.

In fin dei conti, immaginando di seguire dall’alto l’ordinato incedere dei bus in fila indiana verso sud e poi, senza soluzione di continuità, il caotico movimento di stazione in stazione, di città in città, dei migranti che ritornano nei luoghi di frontiera, è possibile osservare il distendersi di un enorme campo di tensione. Il confine produce ed è prodotto da questo campo di tensione: non è in alcun modo circoscrivile ai luoghi nei quali è fisicamente osservabile (ad esempio, la frontiera alta e bassa fra Ventimiglia e Menton, ma anche l’hotspot di Taranto). Il confine è inciso – spesso non solo metaforicamente – nelle biografie delle persone in transito. Con queste lenti è molto spesso possibile scorgere, nelle conversazioni con i migranti all’interno del Bar Hobbit di Ventimiglia, all’interno dell’infopoint Eufemia e in ogni luogo del transito non soltanto la testimonianza dell’arbitrio e della violenza, ma anche un ostinato desiderio, allo stesso tempo individuale e collettivo, che ha il sapore della sfida politica dagli esiti tutt’altro che scontati.

In questi giorni nei quali nuovi, tetri scenari – normalizzazione della rotta del mediterraneo centrale, più incisive politiche di rimpatrio, salto di qualità nella criminalizzazione della solidarietà – sembrano delineare l’inizio di una lunga notte, richiamare il costante protagonismo dei migranti nei luoghi di confine non è un esercizio di stile, e neanche un’attività autoconsolatoria. Si tratta, viceversa, di una storia parallela e molto spesso nascosta, sottotraccia, che accompagna senza soluzione di continuità – a Ventimiglia da tre estati di fila – il dispiegarsi delle politiche pubbliche di coercizione. Il contromovimento dei migranti lungo la direttrice sud/nord, l’attraversamento informale dei confini chiusi, le occupazioni – vecchie e nuove – di luoghi chiusi e di spazi pubblici nelle metropoli rappresentano il segno di un campo di tensione non pacificato. Si tratta di vere e proprie lotte di confine anche quando si dispiegano in luoghi apparentemente lontani dalle frontiere: investono le vite di confine, producono sconfinamenti. Questi esercizi di libertà che si dispiegano nelle vite di confine non rappresentano l’ingenua e romantica testimonianza di chi è destinato, in ogni caso, a essere travolto dai dispositivi di cattura. Biografie e traiettorie alla mano, sono il segno di una possibilità ancora inespressa: dentro questa possibilità si gioca una parte importante del futuro dello spazio politico che continuiamo saggiamente a chiamare “Europa”.

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