di GIOVANNA ZAPPERI.

 

Domenica scorsa le strade di Parigi si sono riempite di una folla le cui dimensioni erano eccezionali anche per un paese come la Francia, dove le manifestazioni di piazza sono parte integrante della vita pubblica. Questa impressionante “marcia repubblicana” è stata certo molte cose, tra cui un grande rituale messo in atto al fine di fronteggiare collettivamente il terribile trauma provocato dall’attentato alla redazione di Charlie Hebdo il 7 gennaio scorso e dalla successiva uccisione degli ostaggi risolta con il doppio assalto delle teste di cuoio.

La marcia è stata fortemente voluta dal presidente Hollande nel tentativo di dare una risposta unitaria agli attacchi, rivendicando i valori della repubblica come antidoto da contrapporre alla barbarie incarnata dai terroristi islamici. La strategia di Hollande ha funzionato molto bene e questo lo dimostra non soltanto la grande partecipazione alla “marche républicaine”, ma anche l’adesione maggioritaria al discorso dell’unità nazionale che ne è stata la cifra prevalente. Da questo punto di vista, l’appello ai valori repubblicani ha avuto, almeno per ora, l’effetto di tenere in disparte l’estrema destra, visibilmente in difficoltà di fronte ad una risposta di massa che non ha fatto della paura dell’altro la sua parola d’ordine. La composizione della manifestazione era infatti ben diversa da quella della “manif pour tous”, ultimo grande evento di piazza in Francia, caratterizzato da un’omofobia di matrice cattolica e fascista. Tuttavia la marche républicaine era attraversata dall’adesione ad una comunità definita attraverso la cornice dell’identità nazionale. Le diverse componenti della sinistra non istituzionale presenti in piazza con slogan antirazzisti si sono infatti trovate alle prese con un contesto che metteva in secondo piano una serie di questioni cruciali: il razzismo e l’islamofobia sempre più dilaganti, i processi di inclusione differenziale nella Francia postcoloniale, i meccanismi di radicalizzazione dei giovani francesi (perché francesi erano gli attentatori) che non si riconoscono nella République, fino ovviamente alla questione delle guerre ai confini dell’Europa che vedono coinvolta la Francia, e che giocano un ruolo cruciale nei processi di radicalizzazione in atto in Europa.

La risposta della marcia è stata infatti innanzitutto caratterizzata come “républicaine” ovvero si è cercato di rispondere con l’immaginario, i simboli e i “valori” della Repubblica: quegli stessi valori che, pur segnati dall’origine “rivoluzionaria”, si sono storicamente intrecciati, leggittimandolo, con il colonialismo francese e che hanno tristemente e durevolmente segnato le asimmetrie e il razzismo strutturale che attraversano la Francia contemporanea. Antirazzismo e pacifismo sono infatti stati relegati ai margini del discorso, con il rischio di essere presto riassorbiti dentro la cornice dell’unità nazionale, alla manifestazione ha infatti prevalso il sentimento di appartenenza ad una comunità retta da valori dati come comuni e universali.

Era inoltre evidente come la manifestazione fosse prevalentemente strutturata attorno ad un’idea di identità francese sostanzialmente “bianca”, che ha lasciato fuori la maggioranza del resto dei “francesi” che comprensibilmente si sono sentiti in difficoltà ad aderire all’appello a riconoscersi nei valori della repubblica che di fatto li emarginano ed escludono. In piazza, gli slogan che mobilitavano cori e applausi erano essenzialmente “Charlie, Charlie” o la Marsigliese. Moltissimi cartelli riterritorializzavano ogni tipo di risposta sulla “République” (“La République est plus forte que la haine”, “Je suis républicain, je suis flic, je suis juif”), poliziotti e CRS sono stati applauditi a più riprese dalla folla, un gesto a cui è certamente difficile aderire per quella parte della popolazione abituata a camminare rasentando i muri ogni volta che l’ombra di un flic si profila all’orizzonte. In questa piazza i meccanismi di identificazione erano equivoci e purtroppo sono risultati ampiamente maggioritari quelli costruiti sulla saldatura tra orizzonte repubblicano e unità nazionale. Questa è la manifestazione che ho visto io, e mi auguro di sbagliare e che tutte le persone che non si riconoscevano in quello che che si è maggioritariamente espresso in questa manifestazione elaborino forme e strategie di dissenso che interroghino i meccanismi di identificazione che hanno avuto tanto spazio domenica scorsa.

Appare inoltre difficile riflettere sul significato della manifestazione facendo astrazione dall’ignobile sfilata-farsa di capi di stato che l’ha così pesantemente caratterizzata, sia sul piano del suo significato politico che nella sua rappresentazione mediatica. La composizione dello spezzone governativo – che, è bene ricordarlo, era accuratamente isolato dal resto della manifestazione – ancor più che alla fortezza Europa, fa pensare ad una riunione del membri della Nato e dei suoi alleati, rendendo in qualche modo esplicito il tentativo di ricollocare la risposta popolare nel quadro dello scacchiere geopolitico su cui si giocano le guerre ai confini dell’Europa. È in questo senso mi sembra che vada letta la vergognosa presenza, tra gli altri, del primo ministro turco, il cui ruolo all’interno della Nato evidentemente è bastato a leggittimarne la presenza anche a fronte del ruolo più che ambiguo della Turchia nei confronti dell’IS e dell’aperta repressione della libertà di espressione e di informazione da parte del governo di Erdogan.

In conclusione, l’impressione è che la breve e tragica sequenza che ha portato alla manifestazione di domenica si sia giocata su due tempi: un primo tempo, dominato dallo choc e dall’incertezza seguiti al massacro della redazione di Charlie Hebdo, ma anche dalla ricerca di un senso, in cui sono emersi i primi elementi di analisi. A questo primo momento ne è seguito rapidamente un secondo, che va dall’assalto e dalla liberazione degli ostaggi fino alla manifestazione di domenica, segnato da un potente dispositivo di ricompattamento tutto giocato sull’identità nazionale. Quello che ho visto in quei giorni è stato infatti un sistematico esautoramento di qualunque spazio discorsivo e politico che non transitasse dalle identificazioni con “Charlie” o con la “République”.

4554057_6_1f53_des-manifestants-brandissent-des-pancartes-je_904bcaedc951be5ee6044840f061ef10Per questi motivi, continua a lasciarmi perplessa la polarizzazione tra “Je suis Charlie” e “Je ne suis pas Charlie”, sulla quale si è focalizzato gran parte del dibattito pubblico, dentro e fuori dalla Francia, e segnatamente negli ambiti vicini ai movimenti. Questa polarizzazione sembra infatti politicamente inefficace se si pensa al modo in cui lo slogan “je suis Charlie”, emerso in modo spontaneo all’indomani dell’attacco, si sia presto trasformato in una parola d’ordine la cui risignificazione va ben oltre il riferimento alla libertà di espressione. È infatti pericoloso che la reazione agli attacchi jihadisti debba per forza tradursi nell’identificazione con Charlie perché questo significa perdere di vista proprio quelle asimmetrie che dividono la Francia e a partire dalle quali si ridefiniscono le poste in gioco del razzismo in una fase così fortemente segnata dalla crisi economica e politica che avvolge l’Europa. Da questo punto di vista, brandire “Je ne suis pas Charlie” per affermare una presa di distanze rispetto agli aspetti più discutibili di Charlie Hebdo, finisce poi con il rafforzare la polarizzazione tra  “noi” e “loro” sulla quale si fondano i meccanismi di identificazione che hanno così tanto spazio nel dibattito pubblico, con il rischio di cadere in una semplificazione che non possiamo proprio permetterci.

Quello di cui abbiamo bisogno è invece di affinare gli strumenti di analisi e di inchiesta che ci permettano di problematizzare i terribili eventi a cui abbiamo assistito. Sarebbe importante cominciare a capire perché questi francesi di religione islamica abbandonati e marginalizzati da decenni finiscano per cercare improbabili riscatti nel radicalismo jihadista. Inscrivere questa tendenza in un quadro geopoliticamente più ampio, collocare questi fenomeni di risposta terroristica all’interno di interessi e partnership transnazionali che, nella fattispecie, legano la Francia a paesi che giocano un forte ruolo nel coltivare queste forme estreme di jihadismo. Considerare l’inasprimento sicuritario ma differenziale sui vari strati di popolazione francese che va profilandosi come risposta, verificare come aumentino e siano trascurati al contempo gli episodi di ritorsione anti-islamica che si sono visti in questi giorni, capire quale strategia mediatica servirà per far passare certi inasprimenti: sarà il compito delle prossime settimane tentare di analizzare e di capire tutto questo per aprire un orizzonte di lotte che vada oltre la falsa alternativa tra i valori della repubblica e la barbarie islamista.

 

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