di FRANCESCO FERRI.
Scena prima. C’è un luogo, gli ex Baraccamenti Cattolica, situato nella via più centrale della città più sfigurata dallo sviluppo industriale. Tra i molteplici edifici che compongo questo luogo spicca un ex teatro, così imponente e maestoso da incutere timore e suggestione, in passato utilizzato dagli arsenalotti locali, poi abbandonato per oltre un ventennio. Questo stesso luogo, a partire dallo scorso autunno, è attraversato da un colorato quanto eterogeneo insieme di ragazze e ragazzi, molti dei quali giovanissimi. Questi corpi agitati, così distanti, per portamento, tanto dalla sinistra politica che, anche da queste parti, non sembra essere in grado di influenzare immaginario e linguaggi della generazione appena sopra e appena sotto i vent’anni, quanto dalla liturgia delle occupazioni centrosocialiste, nel giro di qualche mese hanno instaurato un processo di recupero e partecipazione allo stesso tempo caotico, affascinante e ambivalente, così tempestoso da suscitare, in riva allo Ionio e oltre, sorpresa e furore.
L’avanzare delle opere di ristrutturazione autogestita dell’immobile – calce e impalcature, intonaco e pittura, mosaici e colore – guidate dall’incedere sicuro e inesorabile di chi, in tanti tra gli occupanti, hanno confidenza con il faticoso mestiere della muratura, circondato dai frenetici movimenti di acrobati e giocolieri, in rappresentanza di uno dei tantissimi gruppi che animano la struttura, e l’incessante gironzolare curioso di centinaia di ragazzini e bambini del quartiere, costituisce un insieme eterogeneo di immagini e suggestioni così insolito da appassionare e destabilizzare.
Nessuna estetica zapatista, nessun richiamo al camminare domandando, a Seattle o all’Onda: non c’è posto per la simbologia del movimentismo che abbiamo conosciuto. Sia chiaro: gli occupanti di Officine sono tutt’altro che chiusi in pulsioni localistiche e indifferenti ai destini del Mondo: come potrebbe essere diversamente per chi è nato e cresciuto all’ombra del mostro siderurgico ed è attraversato da paradigmi così immediatamente globali? Più che altro il nutrito gruppo di giovanissimi in questione ha maturato – com’è per altro facile da queste parti – una diffidenza per le categorie classiche della politica, sviluppata come riflesso incondizionato di opposizione nei confronti dell’amministrazione locale di centrosinistra, in balia degli interessi della grande industria inquinante, incompatibili con ogni idea di futuro alimentato da queste ragazze e da questi ragazzi.
II percorso di Officine Tarantine, in realtà, nei fatti si è dimostrato tutt’altro che politicamente neutro. Basti pensare, per esempio, alla capacità di intuire – qui il merito è chiaramente politico – come, per ostacolare la torbida operazione dell’amministrazione comunale nascosta dietro il fastidioso nome di project financing, nel dubbio, fosse il caso di entrare – letteralmente e collettivamente – nell’operazione in corso, occupando gli edifici abbandonati e scatenando la potenza della cooperazione sociale della quale si sentono, a giusto titolo, investiti. Di più: la scelta di mettere in moto questo percorso proprio nella fase di passaggio degli ex Baraccamenti Cattolica da aree demaniali in dismissione alla disponibilità del Comune di Taranto coglie, si inserisce e prolifera in un momento di stallo amministrativo, incertezza procedurale ed evidente opportunità politica. È appena il caso, poi, di ricordare quanto i processi di urbanizzazione e sviluppo del capitale siano intimamente connessi, e quanto il tentativo in corso di dar forma ai processi di definizione dello spazio urbano assuma un ruolo centrale nell’ottica della costruzione di una città incompatibile con l’attuale triste sommatoria di macerie.
Il resto è la storia di un’occupazione di provincia, con il suo lessico distante dal gergo delle reti di attivismo delle metropoli, con un uso orgoglioso anche del locale dialetto, con tanto di bandiera rossoblù – ma con annessa scritta NO ILVA a cavallo dei due colori – al seguito. Romantica ingenuità, molta ambivalenza, sincera passione per il futuro anteriore, cura e dinamismo, incompatibilità – per eccedenza – con il grigiore circostante: il sollevarsi del precariato urbano, qualsiasi cosa sia, passa anche da Officine Tarantine.
Scena seconda. C’è poi un’amministrazione comunale di centrosinistra, sfiancata e sfilacciata dalle pressanti accuse di complicità nei confronti della grande industria inquinante, che – come da copione – dichiara di avere le mani legate dalla Legge e dalla Procedura, che si nasconde dietro le ragione della pubblica incolumità. Il provvedimento di interdizione di accesso all’area segna un percorso e un programma chiaro: che la struttura torni, urgentemente, ad essere tetra ed inquietante prima, e oggetto di possibile speculazione edilizia poi.
Un copione che finisce per emergere, sempre tristemente uguale a se stesso, ad ogni latitudine: nella mattinata di mercoledì si è manifestato l’inesorabile intervento in massa di Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza, in attuazione del provvedimento amministrativo di interdizione, con tanto di blindati, caschi e manganelli, accompagnati da un’impresa edile, con tufi, calce e cazzuole, tutti pronti ad impedire l’accesso all’area.
Finale a sorpresa. E invece no. Per questa volta il copione ha assunto un’insolita traiettoria. La ditta edile è andata via riportandosi indietro mattoni e cemento; il camion sul quale era stato caricato il materiale dei ragazzi di Officine ha fatto marcia indietro. Soprattutto, Officine Tarantine – insieme ad un’ampia rete di solidarietà attiva – ha resistito allo sgombero, straripando anche rispetto al sorgere di un argine costituito dai cordoni della polizia, che lungamente ha provato, invano, a contenere l’insieme disomogeneo di quei corpi che si ricongiungevano col proprio desiderio. Nessun ritorno all’abbandono, nessun riflusso: la passione, vorticosamente agitata, e la forza dell’intelligenza collettiva ha vinto, almeno per ora, nei confronti dell’eterno ritorno delle passioni tristi.
Il lungo striscione che spiega come Un futuro migliore vogliamo… di qui non ce ne andiamo – con il solito linguaggio secco, deciso e sincero – ben visibile sul muro esterno dell’ex teatro, designa il programma dei prossimi giorni. Torneranno, probabilmente, già nelle prossime ore a bussare alla porta di Officine Tarantine. Forse riusciranno alla fine a sgomberare gli ex Baraccamenti Cattolica, a praticare ancora una volta l’infame arte di erigere muri, così diffusa anche a queste latitudini. Qualsiasi cosa accada, l’esercito dai sogni precari che anima Officine Tarantine ha insegnato a tutti come l’arte della rabbia, sovrapposta alla potenza della cooperazione e al desiderio di darsi del noi in tanti, possano fin da subito, nonostante un’ampia quanto fisiologica dose di ambivalenze, sconfiggere passivismo e sconfittismo, aprendo allo stesso tempo insolite e suggestive traiettorie di emancipazione.
Che le insorgenze contemporanee non si manifestino più (soltanto) con l’estetica e la simbologia che conosciamo e riconosciamo, non dovrebbe meravigliare più nessuno. Il desiderio, a lungo fermentato nella nutritissima, colorata, determinata e ambivalente armata di neet ionici, doppiamente impoveriti dalla crisi economica e ambientale, assume più la forma di impulso utopico che i connotati del programma di transizione. Una tensione collettiva verso un altrove, incompatibile con i tempi disperati che soffocano (anche) Taranto e allo stesso tempo ancora fumoso. Una manifestazione finalmente visibile di quel carsismo diffuso che, nonostante tutto, continua ad agitare i corpi di una città tanto fragile quanto ribelle, nell’attesa dell’insurrezione che verrà: non si può che ripartire dal potente discorso di dignità inscenato da questi coraggiosi dilettanti – coloro che, in fin dei conti, con la politica si dilettano.