di MARCO BASCETTA*. Tanto grande è il disordine sotto il cielo europeo quanto poco eccellente la situazione in cui versa il Vecchio continente. E da qualunque parte si voglia prendere il discorso sull’Unione europea si precipita presto in un labirinto di contraddizioni, dove lo scarto tra aspirazioni e realtà, tra promesse e risultati concreti appare quasi incolmabile. Di fronte agli effetti rovinosi di una crisi che sembra essersi imposta come assetto sistemico, producendo mostruose diseguaglianze, miserevoli condizioni di vita e catene di comando sempre meno permeabili alla democrazia è ormai diffusa la denuncia del «fallimento del neoliberismo». È una questione di punti di vista. In realtà il neoliberismo ha stravinto avendo ottenuto tutto ciò che si proponeva, nonché neutralizzato buona parte delle forze storiche che avrebbero dovuto opporglisi. Un esito immorale? Non per quell’etica capitalistica che considera i perdenti viziosi e colpevoli: genti verso le quali può esercitarsi tutt’al più la carità.
Il nesso tra debito e colpa è stato del resto il Leitmotiv ideologico che ha accompagnato la guerra della Troika contro la primavera di Atene e suoi possibili imitatori. Inoltre, per larga parte degli elettori nordeuropei, ma non solo, buon senso significa che i debiti vanno pagati (a salvaguardia, oltre che della morale, delle proprie rendite finanziarie). Così l’ideologia neoliberista e le sue scelte politiche hanno potuto tenere in pugno la costruzione europea e svilupparne potentemente i caratteri postdemocratici e oligarchici. In risposta a questa evoluzione e sull’onda di un crescente disagio sociale hanno preso piede in diversi paesi europei forze che propongono il pieno ripristino delle vecchie sovranità nazionali, vuoi in chiave nazionalista e xenofoba, vuoi coltivando l’idea di poter ripristinare una politica socialista in questo o quel «paese solo», vuoi, ancora, in un inquietante ibrido tra queste due posizioni.
Lorenzo Marsili e Yanis Varoufakis, nel libro appena pubblicato (Il terzo spazio. Oltre establishment e populismo, Laterza, pp. 132, euro 14), delineano un processo politico transnazionale che sappia «salvare l’Europa» da questa contrapposizione, il cui esito non può che essere la dissoluzione dell’Unione, in direzione nazionalista, in quella di una dittatura incontrastata dei mercati o nell’interazione autoritaria tra le due. Transnazionale nel senso di una convergenza tra movimenti che si costituiscano direttamente in questa dimensione e forze politiche che, pur essendosi sviluppate su base nazionale o addirittura municipale, assumano l’Europa come terreno e orizzonte di un’azione trasformatrice comune. Al «terzo spazio», corrisponde poi un «terzo tempo» distinto da quello che attribuisce allo stato di cose presenti il privilegio metafisico di aver conseguito la «fine della storia» , ma anche da quello a venire di un superamento rivoluzionario della società capitalistica.
È questo il tempo presente del realismo laddove, perfino nel quadro dei trattati esistenti, su diversi piani e a diversi livelli, è possibile imporre una democratizzazione della politica europea e, in ogni caso, contrastarne l’involuzione oligarchica. Reintroducendo una dinamica altamente conflittuale e una pratica della disobbedienza nei confronti di norme e ingiunzioni imposte dalla governance tecnocratica di Bruxelles. Costruendo, al tempo stesso, strutture organizzative e istituzionali che possano sostenere e stabilizzare il corso di un riformismo che contrasti il fondamentalismo di mercato.
La posizione europeista e antiliberista di Marsili e Varoufakis è pienamente condivisibile, anche se il «terzo spazio» è alquanto più spurio di come lo descrivano. Se l’Europa dei poteri forti ha fatto innumerevoli vittime essa conta anche su un gran numero di complici, più o meno consapevoli, di interessi diffusi e mentalità che ne assecondano la pratica e l’ideologia. L’incantesimo finanziario non vive solo nelle grandi banche, ma anche nel tinello di casa. Dal capitalismo delle piattaforme alle diverse modalità del lavoro precario, dai dispositivi di sfruttamento della cooperazione sociale e dei processi culturali ai flussi delle conoscenze e del lavoro vivo, la governance liberista affonda le sue radici nella realtà produttiva della fabbrica sociale europea esercitando il suo insidioso potere di corruzione. Sugli effetti che su di essa ha provocato la crisi si basa, invece, il successo dei nazionalismi di ritorno. I populismi offrono, infatti, al disorientamento e alla perdita di ogni certezza un rifugio identitario e rilanciano in termini di ideologia nazionale il dogma squisitamente liberista della competitività.
UNA POLITICA EUROPEA che voglia sottrarsi efficacemente a questa tenaglia non può dunque che radicarsi a sua volta nelle forme di vita e nei modi di produzione che accomunano, nonostante le differenze, le diverse società europee, attivare processi di riconoscimento reciproco di quelle condizioni materiali che sono comuni e senza i quali la razionalità illuminista di una democrazia transnazionale resterebbe assai fragile. È forse proprio su questo versante che i due autori rischiano, nel ragionevole intento di costruire il più vasto consenso possibile, di mancare l’appuntamento con le soggettività scaturite dalle grandi trasformazioni dell’ultimo trentennio e la loro crescente centralità. Non ci si può portare dietro tutto. Il terzo spazio esiste, ma conferirgli una fisionomia non è impresa semplice.
*questo articolo è apparso su il manifesto del 23 marzo 2017